SULLA RENDITA ASSOLUTA IN MARX

Una critica sulla rendita assoluta in
“Principi di economia urbana e territoriale”
[1]

Andrea Rossi
Pierattilio Tronconi

A proposito della rendita assoluta, nel volume “Principi di economia urbana e territoriale” il Prof. Camagni, dopo aver dato atto che si deve a K. Marx il merito di aver analizzato per primo la rendita assoluta, individua nell’analisi di Marx una serie di contraddizioni così sintetizzabili:

1 – Secondo il prof. Camagni Marx nega che il prezzo dei beni agricoli prodotti possa essere considerato come “un prezzo di monopolio nel senso comune della parola o un prezzo in cui la rendita entra come una imposta” (Il capitale, libro III cap 45 pag.866). Questa conclusione, sempre secondo il prof. Camagni, confligge con altre affermazioni di Marx in cui la rendita urbana viene considerata invece come “un tributo che una parte della società pretende qui dall’altra [...] per il diritto di abitare la terra” (Il capitale, libro III cap 46 pag.866) e con le analisi seguite dalla “migliore teoria neomarxista moderna”.

2 – L’affermazione per cui “la rendita assoluta [...] deriva dall’eccedente del valore sul prezzo di produzione” (Il capitale, libro III cap 45 pag. 872) è considerata dal prof. Camagni del tutto artificiosa ed inutile nel quadro teorico complessivo, tanto da depistare su un binario morto gran parte della riflessione neo marxista. In particolare Marx non spiegherebbe il fondamento della rendita assoluta, ossia il meccanismo che consente al prezzo di mercato di salire sopra il prezzo di produzione.

3 – Secondo il prof. Camagni, Marx nega che il prezzo di mercato deve accrescersi fino al punto in cui la terra può pagare un’eccedenza sul prezzo di produzione sia imputabile ad un intervento monopolistico.

Inoltre Il prof. Camagni rileva una doppia contraddizione nell’affermazione di Marx che “il fatto che il terreno peggiore deve fruttare una rendita affinché la sua coltivazione sia possibile sarebbe la causa di un aumento dei prezzi del grano fino al punto in cui questa condizione può essere soddisfatta.” (Il capitale, libro III cap 45 pag.870) poichè essa risulterebbe in contrasto con la teoria dei prezzi dello stesso Marx in quanto la rendita non è mai considerata un costo di produzione ed essa ribalterebbe uno dei fondamenti della teoria classica per cui la rendita è un fenomeno solo distributivo che deriva e non determina l’alto prezzo delle merci.

4 – L’affermazione infine che “se la composizione organica del capitale agricolo fosse uguale o superiore a quella del capitale sociale medio, la rendita assoluta [...] scomparirebbe” costituirebbe secondo il prof. Camagni un vero autogol poichè implica la scomparsa di una categoria analitica rilevante.

Queste contraddizioni avrebbero una tale rilevanza che non solo inficerebbero la stessa teoria della rendita assoluta elaborata da Marx ma anche la teoria connessa alla formazione dei “prezzi di produzione” e del ruolo della rendita assoluta nel processo di perequazione dei saggi di profitto tra le diverse sfere dell’economia nella formazione del “saggio generale del profitto”.

Di seguito cercheremo di confutare le contraddizioni sopra evidenziate ricorrendo ampiamente alle elaborazioni di Marx contenute nel “Capitale” (libro III) e nelle “Teorie del Plusvalore”.

1 - Premessa

Anzitutto si fa presente che Marx affronta le forme assunte dalla rendita non per giustificarla bensì per spiegare come il capitale, il modo di produzione capitalistico, nella sua evoluzione, ha adeguato alle proprie necessità di valorizzazione le forme preesistenti di proprietà e di produzione della ricchezza nel settore dell’agricoltura generando “la rendita” e trasformando così i detentori della proprietà fondiaria in una “classe”, la classe dei “rentiers”.

L’analisi della rendita e delle sue forme è altresì necessaria a Marx per comprendere il ruolo che essa svolge nella formazione dei prezzi di produzione e, quindi, del saggio generale del profitto.

Nel III libro del capitale, che, come si sa, non costituisce un’opera organica (si tratta di vari quaderni contenenti talvolta solo degli appunti integrati dal lavoro di Engels), Marx avvia l’analisi dei rapporti tra tre diverse forme sociali nelle quali si presenta il capitale: il salario, il profitto, la rendita.

Presupposto della proprietà fondiaria è il diritto monopolistico, da parte di alcuni individui, di disporre di determinate porzioni del globo, come di sfere riservate alla loro volontà privata, con esclusione di tutti gli altri.

“Il monopolio della proprietà fondiaria è un presupposto storico e rimane la base costante del modo di produzione capitalistico, come di tutti i modi di produzione anteriori, che si fondano sullo sfruttamento delle masse in una forma o nell’altra. Ma la forma sotto cui il modo di produzione capitalistico ai suoi inizi trova la proprietà fondiaria, non gli corrisponde. Esso stesso crea la forma adeguata, subordinando l’agricoltura al capitale; ed in tal modo anche la proprietà fondiaria feudale, la proprietà del clan, la piccola proprietà dei contadini unita alla comunità di marca, nonostante la disparità delle loro forme giuridiche, vengono trasformate nella forma economica corrispondente a questo modo di produzione” (il capitale libro III cap. 37 pag. 716).

Ciò che Marx vuole analizzare è il valore economico, ossia la valorizzazione di questo monopolio, sulla base della produzione capitalistica, visto che

“Il potere giuridico di questi individui di usare ed abusare di certe porzioni del globo terrestre, non risolve affatto la questione. L’uso che essi fanno di questo potere dipende completamente da condizioni economiche che sono indipendenti dalla loro volontà” (il capitale libro III cap. 37 pag. 715).

In particolare interessa spiegare come

“una parte del plusvalore prodotto dal capitale finisce nelle mani del proprietario fondiario” (il capitale libro III cap. 37 pag. 713).

Contrariamente alle rendite fondiarie di modi di produzione anteriori, la rendita capitalista non è la forma dominante e immediata del sovrapprofitto sociale, ma una forma modificata del plusvalore, prodotto dallo sfruttamento capitalistico.

La rendita feudale, in lavoro, in natura o in denaro, era il pluslavoro contadino.

La rendita capitalistica è una parte del profitto dell'impresa che questa deve generalmente cedere a un terzo, proprietario del fondo.

Per Marx non è dunque la rendita a determinare il profitto, forma immediata e dominante del plusvalore, ma è determinata da esso: se il prelievo fondiario sul profitto capitalista mettesse in causa lo stesso profitto medio, non ci sarebbe più investimento e, quindi, rendita fondiaria.

E’ l'effetto della struttura stessa dei rapporti di produzione: il capitale è il padrone effettivo del processo di produzione e tende ad eliminare la proprietà fondiaria autonoma da tutte le funzioni organizzative di questo (processo di produzione). Per fare questo, d'altro canto, il capitale dovrà impossessarsi, sotto una forma o sotto un'altra e almeno nel momento dove produce, dell'attributo essenziale della proprietà fondiaria: il diritto di disporre del suolo.

Diversi economisti si sono cimentati per cercare di spiegare la rendita spesso in modo del tutto insoddisfacente o in modo errato.

Marx affronta l’analisi approfondendo e criticando le analisi prodotte da altri economisti (Quesnay, Smith, Ricardo, Anderson, Robertus, Buchanan, Hopkins, ecc.) ponendo il presupposto che:

L’agricoltura, precisamente come la manifattura, sia dominata dal modo di produzione capitalistico, ossia che l’economia agricola venga esercitata da capitalisti, che si distinguono in linea di massima dagli altri capitalisti soltanto per l’elemento per cui sono investiti il loro capitale e il lavoro salariato messo in opera da questo capitale. ... L’ipotesi che il modo di produzione capitalistico si sia impadronito dell’agricoltura implica che tale modo domini tutte le sfere della produzione e della società borghese e che esistano quindi, pienamente sviluppate, le sue condizioni essenziali, quali la libera concorrenza fra i capitali, la loro trasferibilità da una sfera della produzione all’altra, un livello uniforme del profitto medio, ecc” (il capitale libro III cap. 37 pag. 713).

Ne Consegue che sulla base della produzione di merci la rendita si sviluppa nella forma monetaria

“La rendita non può svilupparsi come rendita monetaria che sulla base della produzione di merci, più particolarmente della produzione capitalistica, e si sviluppa nella stessa proporzione in cui la produzione agricola diventa produzione di merci; quindi nella stessa proporzione in cui la produzione non agricola prende uno sviluppo autonomo rispetto a quella agricola; poiché nella stessa proporzione il prodotto agricolo diventa merce, valore di scambio, valore. Nella stessa misura in cui la produzione delle merci e quindi la produzione del valore si sviluppa con la produzione capitalistica, si sviluppa la produzione del plusvalore e del plusprodotto. Ma nella stessa proporzione in cui questa ultima si sviluppa, si sviluppa la capacità della proprietà fondiaria di impadronirsi, in virtù del suo monopolio sulla terra, di una parte crescente di questo plusvalore, di accrescere quindi il valore della sua rendita ed il prezzo stesso del terreno (il capitale libro III cap. 37 pag. 738).

la proprietà fondiaria acquista così la sua forma puramente economica, spogliandosi di tutte le sue precedenti frange e contaminazioni politiche e sociali. (il capitale libro III cap. 37 pag. 717).

2 – Osservazioni sulle contraddizioni rilevate relative all’analisi della rendita assoluta

Date queste premesse, Marx in “teorie del plusvalore II” (cap. XII, pag. 311 ), analizza lo strutturarsi di tre forme di rendita:

a – rendita differenziale che deriva dalla differenza fra valore di mercato e valore individuale;

b – rendita di assoluta che deriva dalla differenza fra valore individuale e prezzo di costo;

c – rendita attuale o complessiva che deriva dalla somma della rendita differenziale e quella assoluta, ossia dalla differenza fra valore di mercato e prezzo di costo.

Nel corso dello sviluppo del modo di produzione capitalistico la rendita differenziale si manifesta come la prima forma assunta dalla rendita, quella assoluta come la forma successiva.

Le varie forme della rendita che spesso vengono erroneamente viste come fatti distinti e contrapposti in effetti non lo sono.

Si tralascia qui dal considerare l’analisi della rendita differenziale da cui Marx parte per fondare una teoria diversa da quella di Ricardo e di altri economisti (Maltus, Smith, Anderson) e ci si limiterà pertanto alla sola rendita assoluta.

Si richiama solo per inciso che la proprietà fondiaria fisserà sotto forma di rendite differenziali i sovrapprofitti che hanno per causa la differenziazione spaziale dei prezzi individuali di produzione e, per conseguenza, dei saggi di profitto localizzati per un uso del suolo dato.

E’ solitamente accettato che queste rendite non modificano il prezzo del prodotto ma al contrario ne risultano ed esistono quindi indipendentemente dal regime di proprietà del suolo.

Marx dopo aver analizzato e criticato la spiegazione che Ricardo dà della “rendita differenziale”, confuta la teoria ricardiana per cui non esiste una rendita fondiaria assoluta ma solo una rendita differenziale che nasce dall’eccedenza del prezzo dei prodotti agricoli sul loro valore.

E lo fa approfondendo le categorie dell’analisi del valore dello stesso Ricardo ed in particolare l’effetto prodotto dalla concorrenza dei capitali, mostrando che la rendita assoluta, malgrado le apparenze, non contraddice affatto la legge del valore.

Nel capitalismo la distribuzione del lavoro sociale tra i differenti settori della produzione è diretta dalla legge del valore, dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrre i valori d'uso che richiede la riproduzione della società. Lo scambio delle merci è regolato dai loro rispettivi valori di scambio, trasformati dalla perequazione dei profitti in prezzi di produzione. I rapporti di scambio sono dunque sottomessi a una doppia determinazione: dal valore di ciascuna merce e dal saggio generale di profitto imposto come saggio medio di profitto dalla concorrenza dei capitali.

“L’effetto della concorrenza nella medesima sfera di produzione è una determinazione del valore della merce in questa sfera mediante il tempo di lavoro richiestovi in media, e quindi la creazione del valore di mercato.

L’effetto provocato dalla concorrenza fra le diverse sfere della produzione è la creazione dello stesso saggio generale di profitto nelle diverse sfere mediante una perequazione dei diversi valori di mercato a prezzi di mercato che rappresentano i prezzi di costo diversi dai valori reali di mercato.” (teorie del plusvalore II, cap. X pag. 215).

Questa regolazione dei rapporti di scambio per la legge del valore non è che tendenziale.

La fissazione del prezzo di mercato al livello del prezzo di produzione sociale è un processo che implica la formazione e la soppressione incessante di una differenza tra l'uno e l'altro, sorgente di sovrapprofitti e sottoprofitti.

Questa differenza può avvenire in più modi: la divergenza, in un settore, del prezzo regolatore dal prezzo di produzione sociale; la divergenza, per un'impresa particolare, del suo prezzo di produzione individuale e del prezzo di produzione sociale; infine la divergenza, per una merce data, del prezzo di mercato dal prezzo regolatore.

Le industrie appartenenti ai diversi settori della produzione non affrontano la concorrenza nelle stesse condizioni dato che le caratteristiche del processo di lavoro e la struttura in valore del capitale differisce da un settore all'altro. Per una stessa quantità di capitale impiegato la massa di plusvalore prodotta differisce, pertanto il saggio di profitto interno al settore è ineguale.

Ciò può dipendere da due ordini di fattori. Il più importante riguarda il fatto che la composizione organica del capitale sia più o meno elevata a secondo dei settori; quanto più grande è la parte del capitale spesa in salari in rapporto a quella spesa in mezzi di produzione e tanto più il capitale totale sarà produttivo di plusvalore.

L'altro fattore: il saggio di profitto interno sarà tanto più elevato quanto più forte sarà la velocità di rotazione del capitale.

All'interno dello stesso settore di produzione, tutte le imprese non affrontano la concorrenza nelle stesse condizioni: le tecnologie impiegate differiscono e producono la stessa merce ad un costo differente.

Per un’identica quantità di capitale impiegato e consumato, la quantità di merce prodotta è ineguale e di conseguenza lo sono il valore individuale e il prezzo di produzione individuale del prodotto.

In tutti i settori concorrenziali ci sono delle "imprese marginali" e delle "imprese di punta" la cui produzione passa tuttavia sullo stesso mercato.

E’ nella loro concorrenza sul mercato che si forma un prezzo regolatore unico di queste merci prodotte in condizioni differenti: il loro prezzo di produzione (sociale).

Si verifica allora a cose fatte in quale misura il lavoro concreto in ogni unità di produzione privata ha un valore di scambio sociale. In termini generali il prezzo regolatore sarà determinato dalle condizioni medie di produzione, dalla produttività media del capitale impiegato nel settore. Perciò le imprese sotto-produttive vedranno il loro saggio di profitto individuale stabilirsi al di sotto del saggio medio e le produttive beneficeranno di sovrapprofitti. Ben inteso, i nuovi capitali investiti tenderanno ad impiegarsi nelle condizioni di produttività che a loro procureranno questi sovrapprofitti, mentre le imprese marginali - o almeno le tecnologie obsolescenti - potranno eventualmente essere eliminate. In questo processo cambieranno quindi le condizioni medie di produttività e il prezzo di produzione regolatore tenderà a calare. Così la corsa al sovrapprofitto produce le "rivoluzioni del valore".

Nel capitolo riguardante la genesi della rendita fondiaria capitalistica Marx focalizza le difficoltà che gli economisti incontrano per spiegare la rendita nel modo seguente:

“La difficoltà consiste nel dimostrare da dove, dopo che il plusvalore si è livellato tra i diversi capitali al profitto medio, cioè a una parte proporzionale, corrispondente alla loro grandezza relativa, del plusvalore complessivo che il capitale sociale nel suo insieme ha prodotto in tutte le sfere di produzione, da dove, dopo questo livellamento, dopo che sembra essere già avvenuta la ripartizione di tutto il plusvalore che è in generale da ripartire, da dove dunque venga fuori ancora la parte eccedente di questo plusvalore che il capitale investito nella terra paga al proprietario fondiario sotto forma di rendita fondiaria. [...].

Tutta la difficoltà nell’analisi della rendita consisteva dunque nello spiegare l’eccedenza del prodotto agricolo sul profitto medio, non il plusvalore, ma il plusvalore eccedente proprio di questa sfera di produzione, quindi non il prodotto netto, ma l’eccedenza di questo prodotto netto sul prodotto netto degli altri rami industriali.” (il capitale libro III cap. 47 pag. 893-894).

Marx perviene alla conclusione per cui ogni porzione del capitale complessivo partecipa al plusvalore complessivo in proporzione della sua grandezza ricevendone una parte aliquota di esso. Dato che in un sistema di mercato in cui esiste la concorrenza dei capitali la tendenza del saggio di profitto è quella di affermare lo stesso livello per tutti i settori, ne consegue che capitali di uguale grandezza forniscono profitti di uguale grandezza e che la massa del profitto dipende dalla grandezza del capitale (teorie del plusvalore II, cap. VIII pag. 18 ).

Marx quindi spiega cos’è che costringe il singolo capitalista a vendere la sua merce ad un prezzo medio, ossia ad un prezzo di produzione

“Ebbene cos’è che costringe il singolo capitalista a vendere p.es. la sua merce ad un prezzo medio – che questo prezzo medio salti fuori, che gli venga imposto non è affatto un suo atto libero, egli preferirebbe vendere la merce al di sopra del suo valore – che gli frutta soltanto il profitto medio e gli consente di realizzare meno lavoro non pagato di quello che di fatto è consumato nella sua propria merce?

La costrizione degli altri capitali esercitata attraverso la concorrenza. Ogni capitale della stessa grandezza potrebbe gettarsi anche nella branca di produzione di A in cui il rapporto fra il lavoro non pagato ed il capitale anticipato [...] è maggiore che nelle sfere di produzione B,C ecc, i cui prodotti, però, soddisfano del pari nel loro valore d’uso un bisogno sociale, altrettanto bene quanto la merce nella sfera A.” (teorie del plusvalore II, cap. VIII pag. 19 ).

“I capitalisti si dividono così il bottino del lavoro estraneo appropriato, cosicché in media l’uno si appropria di tanto lavoro non pagato quanto l’altro. La concorrenza determina questo livellamento attraverso la regolamentazione dei prezzi medi. Ma in questi stessi prezzi medi la merce viene innalzata al di sopra del suo valore oppure abbassata al di sotto del suo valore, cosicché essa non fornisce nessun saggio di profitto maggiore di un’altra merce. Non è vero che la concorrenza dei capitali determini un saggio generale di profitto livellando i prezzi delle merci ai loro valori. Al contrario essa lo determina trasformando i valori delle merci in prezzi medi nei quali una parte del plusvalore di una merce viene trasferita ad un’altra” (teorie del plusvalore II, cap. VIII pag. 19 ).

Per poter parlare in generale di una eccedenza sul profitto medio, questo stesso profitto medio deve già esistere quale misura e, in generale, come avviene nel modo di produzione capitalistico, quale regolatore della produzione. Nelle forme sociali in cui non esiste ancora il capitale, che compie la funzione di spremere tutto il pluslavoro e di appropriarsi di prima mano tutto il plusvalore, forme sociali nelle quali il capitale non si è ancora sottomesso il lavoro sociale, o lo ha fatto solo sporadicamente, non può assolutamente esistere una rendita nel senso moderno della parola, una rendita come eccedenza sul profitto medio, cioè sulla parte proporzionale, spettante a ogni capitale singolo, del plusvalore prodotto dall’intero capitale sociale. (il capitale libro III cap. 47 pag. 894).

In particolare, per affrontare la formazione della rendita assoluta Marx pone il seguente problema:

“Se dei capitali industriali che producono non temporaneamente, ma secondo la natura delle loro sfere di produzione in confronto alle altre, il 10 o il 20 o il 30 per cento in più di plusvalore di capitali industriali di uguale grandezza in altre sfere di produzione, se essi, dico, fossero in grado di conservare questo plusvalore supplementare di fronte alla concorrenza e di impedire che esso entri nel calcolo generale (divisione) che determina il saggio generale di profitto, in questo caso, nelle sfere di produzione di questi capitali, si potrebbero separare due esattori per cui l’uno otterrebbe il saggio generale di profitto e l’altro otterrebbe l’eccedenza esclusivamente a questa sfera ... Ogni capitalista potrebbe pagare, cedere a questo privilegiato questa eccedenza per investire qui il suo capitale e tratterrebbe per sè il saggio generale di profitto come ogni altro capitalista e sarebbe soggetto alle stesse probabilità. Se questo accadesse nell’agricoltura ecc. , allora la scomposizione del plusvalore in profitto e rendita non indicherebbe assolutamente che il lavoro qui è in sè e per sè più produttivo (nel senso della produzione di plusvalore) che nella manifattura ; quindi alla terra non andrebbe ascritta alcuna nessuna forza prodigiosa ...” (teorie del plusvalore II, cap. VIII pag. 21 ).

E ancora:

“Ci sono dunque sfere di produzione in cui certe condizioni naturali di produzione, come p.es. terra arabile, giacimento di carbone, miniere di ferro, cascate ecc., senza le quali il processo di produzione non può essere esercitato, si trovano in mani diverse da quelle dei proprietari o dei possessori di lavoro oggettivato, dei capitalisti, e allora questa seconda categoria di proprietari delle condizioni di produzione dice:

se io ti cedo in uso questa condizione di produzione, tu realizzi il tuo profitto medio, ti approprierai della quantità normale di lavoro non pagato. Ma la tua produzione dà un’eccedenza di plusvalore, di lavoro non pagato, sul saggio di profitto. Tu non getterai questa eccedenza in un conto comune, com’è abituale fra voi capitalisti, ma me ne approprio io, essa mi appartiene. L’affare può convenirti perché il tuo capitale ti frutta in questa sfera di produzione tanto quanto in ogni altra e oltre a ciò questa è una branca di produzione solidissima. Il tuo capitale ti frutta qui, oltre il 10% di lavoro non pagato che costituisce il profitto medio, anche un 20% di lavoro non pagato eccedente. Questo tu lo paghi a me e per poter far ciò aggiungi nel prezzo della merce il 20% di lavoro non pagato e solo questo non lo metti nel conto con gli altri capitalisti. Come la tua proprietà su una condizione di lavoro – capitale, lavoro oggettivato – ti consente di appropriarti, togliendola agli operai, di una determinata quantità di lavoro non pagato, così la mia proprietà sull’altra condizione di produzione, la terra ecc., mi consente di prendere a te e all’intera classe dei capitalisti la parte di lavoro non pagato che è eccedente sul tuo profitto medio. La vostra legge vuole che, in circostanze normali, capitali uguali si approprino di altrettanto lavoro non pagato e a ciò, voi capitalisti, vi potete costringere l’un l’altro con la concorrenza. Io applico la legge proprio a te. Tu non devi appropriarti del lavoro non pagato dei tuoi operai più di quanto ti potresti appropriare con lo stesso capitale in ogni altra sfera di produzione. La legge, però, non ha niente a che fare con l’eccedenza del lavoro non pagato che tu <<produrresti>> oltre la quota normale del medesimo. Chi vuole impedirmi di appropriarmi di questa <<eccedenza>>? Perché dovrei, com’è di costume tra di voi, gettarla nella pentola comune del capitale per dividerla fra la classe dei capitalisti, affinché ognuno ne tiri fuori una parte aliquota corrispondente alla quota che egli possiede del capitale complessivo? Io non sono capitalista. La condizione di produzione di cui ti affido l’utilizzazione, non è lavoro oggettivato, ma un elemento naturale. Potete voi fabbricare la terra o l’acqua o le miniere o i giacimenti di carbone? No di certo. Non esiste dunque nei miei confronti lo strumento coercitivo che può essere impiegato nei tuoi confronti per farti risputare una parte del pluslavoro arraffato da te stesso! Quindi dà qua! L’unica cosa che i tuoi fratelli capitalisti possono fare è di fare concorrenza non a me ma a te. Se tu mi paghi un sovraprofitto minore della differenza fra il tempo supplementare da te realizzato e la quota di pluslavoro che ti spetta secondo la regola del capitale, si presenteranno i tuoi fratelli capitalisti e ti costringeranno con la loro concorrenza a pagarmi lealmente l’intero ammontare che io sono autorizzato a spremere da te.” (teorie del plusvalore II, cap. VIII pag. 31-32 ).

Se dunque a seguito di una reale opposizione di una forza estranea ai capitalisti, che non possono superare o che possono superare solo parzialmente e che limita il loro investimento in particolari sfere di produzione, viene impedito di ridurre il valore al prezzo di produzione e di distribuire così proporzionalmente l’eccedenza di plusvalore di questa sfera di produzione fra tutte le sfere sfruttate dal capitale, l’eccedenza del valore delle merci al di sopra dei loro prezzi di produzione verrebbe a creare un plusprofitto che potrebbe essere trasformato in rendita e reso autonomo, in quanto tale, rispetto al profitto. (il capitale, libro III cap. 45 pag. 870)

“Che la rendita corrisponda all’intera differenza fra il valore ed il prezzo di produzione, oppure sia soltanto uguale ad una parte maggiore o minore di questa differenza, dipenderà completamente dal rapporto tra domanda ed offerta e dell’estensione della terra messa a coltura.. Nella misura in cui la rendita non è uguale all’eccedenza del valore dei prodotti agricoli sul loro prezzo di produzione, una parte di questa eccedenza entrerà sempre nel livellamento generale e nella ripartizione proporzionale del plusvalore complessivo fra i diversi capitali individuali. Quando la rendita è uguale all’eccedenza del valore sul prezzo di produzione, tutta questa parte del plusvalore che eccede il profitto medio sarebbe sottratta a questo livellamento. Ma sia che questa rendita assoluta sia uguale a tutta l’eccedenza del valore sul prezzo di produzione, sia che sia uguale soltanto ad una parte di essa, i prodotti agricoli verrebbero sempre venduti a un prezzo di monopolio, non perché il loro prezzo eccederebbe il loro valore, ma perché sarebbe uguale al loro valore, o inferiore al loro valore, ma superiore al loro prezzo di produzione.

Il loro monopolio consisterebbe nel fatto che essi, a differenza degli altri prodotti dell’industria il cui valore è superiore al prezzo generale di produzione, non vengono livellati al prezzo di produzione.” (Marx – il capitale – libro III – cap. 45° ; pag. 870-71).

Ne consegue parimenti che l’eccedenza di valore dei prodotti agricoli sopra il loro prezzo di produzione può diventare un elemento determinante del loro prezzo di mercato generale, solamente perché vi è un monopolio della proprietà fondiaria.

Ne consegue infine che in questo caso non è l’aumento del prezzo del prodotto che è la causa della rendita, ma piuttosto la rendita è la causa dell’aumento del prezzo del prodotto. (Marx – il capitale – libro III – cap. 45°; pag. 871).

Il riconoscimento sociale sul mercato di questo prezzo attraverso il prezzo di mercato generale (prezzo di vendita), consente al capitalista di realizzare oltre al prezzo di produzione anche la rendita.

Per il formarsi della rendita assoluta non è quindi assolutamente necessario che il prezzo di produzione si elevi al di sopra del valore, diventando così un prezzo di monopolio.

L’uso che Marx fa del termine prezzo di monopolio nel capitale (libro III – cap. 45° ; pag. 871) e che sopra è stato riportato, si riferisce alla quota di plusvalore che va alla rendita e che serve a valorizzare la sua posizione monopolistica

Si ricorda ancora un altro brano di Marx laddove dice:

“La rendita assoluta spiega alcuni fenomeni che a prima vista sembrano indicare che la rendita sia dovuta a un semplice prezzo di monopolio.

Prendiamo, per riallacciarsi all’esempio di Adam Smith, il possessore di un bosco che non ha subito l’intervento dell’uomo, quindi non sia prodotto dal rimboschimento, poniamo in Norvegia.

Se questo possessore del bosco riceve una rendita da un capitalista che fa tagliare il legname, perché, ad es. ve ne è richiesta in Inghilterra, o se il possessore stesso fa tagliare il legname in veste di capitalista, allora in aggiunta al profitto sul capitale anticipato, ricava dal legname una rendita più o meno grande. Nel caso di questo prodotto puramente naturale, ciò appare come un puro e semplice sovrapprezzo di monopolio. Ma in realtà il capitale consiste qui quasi esclusivamente di capitale variabile, di capitale sborsato in lavoro, e quindi esso mette in movimento una maggiore quantità di pluslavoro che non un altro capitale di uguale grandezza. Il valore del legname contiene quindi una eccedenza di lavoro non pagato, ossia di plusvalore, maggiore di quella che contiene un prodotto di capitali aventi una più elevata composizione organica. Per tale ragione da questo legname può essere ricavato il profitto medio ed al proprietario del bosco può toccare una eccedenza considerevole sotto forma di rendita” (Marx – il capitale – libro III – cap. 45°; pag. 877).

La formazione della rendita assoluta non viene pertanto ricondotta alla necessità del formarsi di prezzi di monopolio. Con ciò nega quanto affermava Buchanan, ossia:

“L’idea che la rendita discenda dal prezzo di monopolio dei prodotti agricoli e che perciò il prezzo di monopolio discenda dal fatto che i proprietari fondiari possiedono il monopolio della proprietà terriera. In questa idea il prezzo del prodotto agricolo è costantemente superiore al suo valore. Si verifica un sovraccarico del prezzo e la legge dei valori delle merci viene infranta dal monopolio della proprietà fondiaria.

La rendita deriva dal prezzo di monopolio dei prodotti agricoli perché l’offerta è costantemente inferiore al livello della domanda oppure perché la domanda è costantemente superiore al livello dell’offerta ...”. (teorie del plusvalore II, cap. X pag. 165).

Scrive ancora Marx, riferendosi alla rendita differenziale ed a quella assoluta:

 “Queste due forme di rendita sono le uniche normali. All’infuori di esse la rendita può fondarsi unicamente sul prezzo di monopolio vero e proprio, che non è determinato né dal prezzo di produzione, né dal valore delle merci, ma soltanto dal bisogno e dalla solvibilità del compratore e la cui analisi appartiene alla teoria della concorrenza, dove viene indagato l’effettivo movimento dei prezzi di mercato. (Marx – il capitale – libro III – cap. 45° ; pag. 872).

Sul mercato di un dato prodotto, il prezzo regolatore s’impone solo tendenzialmente: il prezzo di mercato che risulta dall'equilibrio istantaneo dell'offerta e della domanda, può incessantemente divergere dal prezzo di produzione sociale. Se gli è superiore, le imprese beneficeranno di un sovrapprofitto congiunturale che le inciterà ad aumentare le quantità offerte.

Se la differenza si produce nell'altro senso, il tasso di profitto diminuirà congiunturalmente e la produzione tenderà a diminuire. E così la successione d’equilibri istantanei del mercato oscilla intorno al prezzo regolatore, punto al quale si annullano sottoprodotti e sovrapprofitti.

Perché il prezzo di produzione sociale s’imponga come prezzo regolatore, occorre che nessun ostacolo si opponga all'accrescimento o alla riduzione delle quantità prodotte e offerte. Bisognerà quindi che la merce sia riproducibile senza ostacoli e che la struttura del mercato - tanto da lato di quelli che offrono che di quelli che domandano - sia concorrenziale. Se questo non è il caso, il prezzo di mercato può stabilirsi durevolmente al di sopra del prezzo regolatore. Ciò che Marx chiama un prezzo di monopolio, il quale non è più determinato dalle condizioni della produzione delle merci, ma dalla loro circolazione, vale a dire dalla domanda.

Si fissa quindi durevolmente un sovrapprofitto di monopolio di cui beneficeranno i venditori della merce considerata.

Tante circostanze possono produrre un tale risultato.

Esistono delle merci che non sono riproducibili per delle ragioni che si riferiscono alle stesse condizioni della loro produzione, quali che siano gli sforzi che possa fare il capitale per sopprimere questi limiti. Può trattarsi di beni che non sono più prodotti e il cui stock resta immutato (le antichità d’ogni sorta), o di beni prodotti in forme non capitalistiche in quantità limitata o di qualità unica (le opere d'arte, certi prodotti dell'artigianato). Ma può trattarsi anche di merci prodotte dal capitale, allorquando le condizioni stesse della loro produzione ne limitano la riproducibilità: il terreno di grandi vini, le localizzazioni rare e prestigiose d’immobili.

In questo caso, le quantità prodotte sono limitate perché le condizioni della produzione non sono riproducibili dal capitale. I prezzi di monopolio che ne risultano determinano la fissazione di sovrapprofitti di monopolio. E se queste condizioni non riproducibili della produzione sono oggetto di proprietà privata questi sovrapprofitti dovranno essere fissati sotto forma di rendita fondiaria. E’ questa la rendita di monopolio che Marx evoca a proposito delle aree fabbricabili e di cui discute la possibilità d’esistenza nell'agricoltura.

Nel capitale Marx accenna alla formazione di una rendita fondiaria derivante dal prezzo di monopolio, tuttavia quest’ultima forma è trattata in modo non esaustivo poiché ai suoi tempi la forma monopolistica nella produzione delle merci non era ancora diventata la forma dominante ed il capitale finanziario non risultava dispiegato pienamente nel processo economico, tuttavia avverte il formarsi di questa nuova forma di prezzo sia nell’ambito dell’agricoltura che nell’ambito urbano ponendo il seguente problema

“Bisogna distinguere se la rendita deriva da un prezzo di monopolio perché esiste un prezzo di monopolio dei prodotti o del suolo indipendentemente da essa, o se i prodotti vengono venduti ad un prezzo di monopolio perché esiste una rendita.” (Marx – il capitale – libro III – cap. 46° ; pag. 885).

Poiché, nonostante il suo potere monopolistico la proprietà fondiaria non è in grado di limitare il capitale investito e tanto meno la sua produzione, ne deriva che essa non può imporre ai prezzi agricoli di diventare prezzi di monopolio.

Nel terzo libro del capitale Marx accenna al formarsi di prezzi di monopolio nell’agricoltura, limitando però il caso ad una situazione specifica per cui:

“Quando parliamo di prezzo di monopolio, intendiamo in generale un prezzo che è determinato solo dal desiderio di acquistare e dalla capacità di pagare del compratore, indipendentemente sia dal prezzo che è determinato dal prezzo generale di produzione che da quello determinato dal valore del prodotto.” (Marx – il capitale – libro III – cap. 46° ; pag. 885).

E prosegue con l’esempio della vigna che produce un particolare vino di qualità che si può ottenere solo da uve di quel particolare terreno.

Si tratta come si evince di un prezzo di monopolio generato da una situazione particolare di domanda di tipo monopsonistico a livello micro territoriale.

In questo caso il prezzo di monopolio crea la rendita.

Al contrario la rendita verrebbe a creare il prezzo di monopolio se il grano venisse venduto non solo al di sopra del suo prezzo di produzione ma anche al di sopra del suo valore.

A proposito delle discussioni che riconducono l’esistenza della rendita assoluta alla formazione di prezzi monopolistici, Topalov scrive:

Mentre la rendita differenziale presuppone il prezzo del prodotto, la rendita assoluta modifica il prezzo. Con la prima la proprietà fondiaria causa la trasformazione del sovrapprofitto in rendita, con la seconda, spiega Marx, "è la proprietà fondiaria stessa che produce la rendita”.

Ma questa modificazione del prezzo avviene solo nei limiti del valore: la proprietà fondiaria impedisce che il prezzo regolatore si abbassi al livello del prezzo di produzione, ma non è in grado di imporre che si alzi al di sopra del valore del prodotto.

La rendita assoluta è e non è una rendita di monopolio. Nella misura in cui l'esistenza della proprietà contrasta la determinazione del prezzo regolatore con il prezzo di produzione, cioè la formazione normale del prezzo nel modo di produzione capitalistico, la rendita "pura e semplice emanazione della proprietà" è un prezzo di monopolio. Ma nella misura in cui questo prezzo viene regolato nella produzione e dalla legge del valore esso non è un prezzo di monopolio, regolato nella circolazione dalla "domanda e dal potere di acquisto dei clienti", indipendentemente dal valore.(Topalov: Le profit, la rente et la ville, cap. II pag. 57)

Infine si fa presente che in nessuna parte del capitale Marx fa della rendita assoluta una “forma economica” dalla esistenza eterna.

Anzi analizza i casi in cui tale rendita non si manifesta affatto.

E’ il caso in cui il prezzo di produzione eguaglia il valore per cui non esiste eccedenza del valore sul prezzo di produzione. Qui infatti, oltre al saggio medio di profitto, non ci sarebbe nulla da spartire. Si riprende quindi ancora Marx:

“Se la composizione media del capitale agricolo fosse uguale o più elevata di quella del capitale sociale medio, la rendita assoluta, sempre nel senso da noi indicato, scomparirebbe; ossia la rendita che è distinta sia dalla differenziale che dalla rendita fondata sul prezzo di monopolio vero e proprio.

il valore del prodotto agricolo non sarebbe in questo caso superiore al suo prezzo di produzione e il capitale agricolo non metterebbe in movimento una quantità di lavoro maggiore, non realizzerebbe quindi una quantità di pluslavoro maggiore di quella realizzata dal capitale non agricolo. Lo stesso fatto si verificherebbe se la composizione del capitale agricolo, con il progresso dell’agricoltura, diventasse uguale a quella del capitale sociale medio.

Sembra a prima vista una contraddizione ...” (Marx – il capitale – libro III – cap. 45° ; pag. 873).

Marx inoltre perviene alla conclusione che la proprietà fondiaria “si distingue dalle altre forme della proprietà per il fatto che, ad un certo grado di sviluppo, essa appare superflua e dannosa, anche dal punto di vista del modo di produzione capitalistica”. (il capitale libro III cap. 37 pag. 723).

Nessun autogol dunque. Perché in queste condizioni si formi una rendita occorre che il capitalista o rinuncia ad una parte dei suoi profitti per darli al proprietario fondiario o che il prezzo diventi un prezzo di monopolio riconosciuto dal mercato stesso.

BIBLIOGRAFIA

Marx, Il capitale – VIII edizione: Editori Riuniti.

Marx-Engels, opere complete XXXV - Teorie sul plusvalore II – edizione: Editori Riuniti.

Topolov, Le profit, la rente et la ville – edizione.

NOTE


[1] Roberto Camagni, “Principi di economia urbana e territoriale”, Carocci Editore. Capitolo 6 – paragrafo 6.4.3 – La rendita assoluta.