L’ECONOMIA CLASSICA E LA RENDITA Breve excursus
Andrea Rossi I FISIOCRATICI E’ con la fisiocrazia francese del 1700 che ha origine la storia delle moderne teorie della rendita. In particolare è il suo fondatore, il medico di corte Francois Quesnay, con il trattato “Tableau economique”, a sviluppare la prima teoria della rendita, definendola come “l’eccedenza del prodotto della terra, una volta dedotte tutte le spese della coltivazione”. La rendita appare dunque come il “prodotto netto” della terra, frutto della generosità della natura. Tutta la scuola fisiocratica interpreta il prodotto netto della terra facendo riferimento alle caratteristiche fisico-naturali del suolo ritenendo che solo i settori agricoli dell’economia, a differenza degli altri (artigianato e commercio), siano in grado di fornire una “eccedenza” rispetto alle spese di produzione. “I lavori agricoli risarciscono le spese, pagano la mano d’opera necessaria alla coltivazione, fan guadagnare i contadini e, in più, producono i redditi dei beni terrieri. Quelli che invece acquistano delle imprese industriali pagano sì, le spese, la mano d’opera e il guadagno dei mercanti, ma tali imprese non producono mai alcun reddito eccedente”. L’industria ed il commercio sono pertanto “sterili”. I fisiocratici ritengono che si possono scoprire delle leggi in economia, analogamente a quelle fisiche e che tali leggi siano universali, valide cioè al di la del tempo e dello spazio e anteriori dunque alle “convenzioni sociali”. La scienza economica viene con ciò ricondotta ad una disciplina che non ha niente a che fare con la storia. I fisiocratici fondano la loro analisi su una concezione di “ordine naturale della società”. Scriveva Dupont De Nemours: “ ....Vi è dunque un ordine naturale, essenziale, generalissimo, che racchiude in sè le leggi fondamentali e costitutive di tutte le società.... Vi è insomma una società naturale, anteriore a ogni convenzione tra gli uomini e fondata invece sulla loro costituzione intrinseca, sui loro bisogni fisici, sul loro interesse evidentemente comune”. Per Quesnaiy, poichè esistono sempre dei bisogni da soddisfare, vi saranno sempre degli sbocchi. Il credo dei fisiocratici in economia è “lassez faire, lassez passer” . Entro un meccanismo economico mosso unicamente dall’interesse privato degli individui, per i fisiocratici nessun istituto, meglio di quello monarchico, può garantire l’armonia e l’ordine pubblico. Il sovrano, in effetti, che è comproprietario di tutti i beni dei suoi sudditi (ed è per questo che ha il diritto di riscuotere le imposte) identifica il proprio interesse con quello dei singoli cittadini: bisogna infatti che questi ultimi si arricchiscano perchè possa egli stesso arricchirsi. Poichè inoltre la proprietà comporta l’individualità e l’eredità, ecco che analogamente, il potere deve essere nelle mani di un solo e deve trasmettersi per via ereditaria. ADAM SMITH Adam Smith, fondatore della scuola classica inglese, ha il grande merito di aver di aver introdotto per primo nello studio dello scambio di merci una chiara distinzione nella nozione di “valore”, tra “valore d’uso” e “valore di scambio” : “Bisogna osservare che il termine valore ha due significati diversi; talvolta significa l’utilità di un particolare oggetto, tal altra invece, indica la facoltà che deriva dal possesso dell’oggetto in questione di acquistare con esso altre merci. Si può chiamare il primo valore d’uso ed il secondo valore di scambio. Ora delle cose che hanno un grande valore d’uso, spesso hanno solo uno scarso valore di scambio o non ne hanno affatto; al contrario, quelle che hanno un massimo valore di scambio, hanno sovente un valore d’uso minimo o nullo. Niente è più utile dell’acqua, ma con questa non si può acquistare quasi nulla. Un diamante invece non ha pressocchè alcun valore quanto all’uso, ma sarà sempre facile scambiarlo con una grandissima quantità di altre merci”. (La ricchezza delle nazioni) Nella sua opera Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), Smith afferma inoltre che lo scambio di merci è in realtà lo scambio di lavoro necessario alla produzione delle merci stesse. “Ogni uomo è ricco o povero nella misura in cui è in grado il di concedersi i mezzi di sussistenza e di comodo e i piaceri della vita. Ma una volta affermatasi la divisione del lavoro, con il proprio lavoro si può ottenere soltanto una parte piccolissima di questi. La parte di gran lunga maggiore deve essere tratta dal lavoro degli altri, e quindi uno è ricco o povero secondo la quantità di lavoro di cui può disporre o che è in grado di acquistare. Il valore di ogni merce, per la persona che la possiede e che non intende usarla o consumarla personalmente ma scambiarla con altre merci, è dunque uguale alla quantità di lavoro che le consente di acquistare o di avere a disposizione. Il lavoro è quindi la misura reale del valore di scambio di tutte le merci. Il prezzo reale di ogni cosa, ciò che ogni cosa realmente costa all’uomo che vuole procurarsela, è la fatica e l’incomodo di ottenerla. Ciò che ogni cosa realmente vale per l’uomo che l’ha acquisita e che vuol disporne o cambiarla con qualcos’altro, è la fatica e l’incomodo che può risparmiargli e imporre agli altri. ” “ Risulta così in modo evidente che il lavoro è la sola misura universale e precisa del valore, ossia la sola norma con la quale possiamo confrontare i valori delle differenti merci in tutti i tempi e in tutti i luoghi.” (La ricchezza delle nazioni) Smith, dopo aver introdotto il concetto di “profitto” come qualcosa che deve essere dato all’imprenditore per aver “rischiato il suo capitale” “Non appena il capitale si è accumulato nelle mani di determinate persone, talune di esse vorranno naturalmente impiegarlo facendo lavorare gente industriosa, cui forniranno materiali e sussistenza per trarre un profitto dalla vendita della loro opera o da ciò che il loro lavoro aggiunge al valore dei materiali. Scambiando il prodotto finito contro moneta o contro lavoro o contro altri beni, oltre a ciò che può bastare a pagare il prezzo dei materiali e i salari degli operai, deve essere dato qualcosa per i profitti dell’imprenditore che rischia il suo capitale nell’impresa. Il valore che gli operai aggiungono ai materiali si compone quindi in questo caso di due parti, una delle quali paga i loro salari e l’altra i profitti del loro datore sull’insieme dei materiali e dei salari che egli ha anticipato. Egli non avrebbe nessun interesse a impiegarli, se dalla vendita della loro opera non si attendesse qualcosa di più di quanto basta a ricostituire il suo capitale; e non avrebbe nessun interesse a impiegare un grosso capitale anziché uno piccolo, se i suoi profitti non stessero in qualche proporzione con la dimensione del suo capitale.” (La ricchezza delle nazioni) distingue la rendita dal profitto, osservando che la prima, a differenza del secondo, non sta in alcuna proporzione con gli sforzi che il proprietario può eventualmente aver fatto per migliorare la qualità della terra. “Non appena la terra di un paese diventa tutta proprietà privata, i proprietari, come tutti gli altri uomini, amano raccogliere dove non hanno mai seminato, e domandano una rendita anche per il suo prodotto naturale. Il legno della foresta, le erbe del campo e tutti i frutti naturali della terra che, quando essa era in comune, costavano al lavoratore soltanto la fatica di raccoglierli, vengono ad avere anche per lui un prezzo addizionale. Egli deve allora pagare il permesso di raccoglierli e deve dare al proprietario una parte di ciò che il suo lavoro raccoglie o produce. Questa parte, o, ciò che è lo stesso, il prezzo di questa parte, costituisce la rendita della terra, che a sua volta costituisce una terza parte componente del prezzo della maggior parte delle merci .” (La ricchezza delle nazioni) In realtà, nota Smith, i proprietari esigono una rendita anche per le terre sulle quali non è stato applicato alcun investimento migliorativo. Sulle cause che determinano la rendita Smith sviluppa tre distinti punti di vista: a – la concezione della rendita come deduzione dal prodotto lordo della collettività; b – l’idea che la rendita sia l’effetto di un rapporto monopolistico; c – l’idea che la rendita risulti da aspetti specifici della produttività agricola non riscontrabili nei settori extra agricoli.. La prima concezione postula che le rendite, così come i profitti, rappresentino deduzioni dal prodotto complessivo del lavoro speso nell’agricoltura. La rendita è determinata dalla differenza tra il prezzo del raccolto da un lato e , dall’altro,dalla somma dei salari e profitti che debbono essere normalmente pagati per ottenere quel dato raccolto, sulla base di una determinata quantità di lavoro e di capitali impiegati nella sua produzione. rendita = prezzo – (salario + profitto). Smith rileva che tale differenza viene pagata al proprietario terriero perchè costui dà la propria terra in affitto a quell’imprenditore che gli offre di più. “L’affitto considerato come il prezzo dell’uso della terra, è naturalmente il prezzo più alto che il fittavolo è in grado di pagare, in quelle determinate circostanze in cui la terra si trova nel momento dato. Quando si stipulano le clausole del contratto, il proprietario si adopera in tutti i modi per lasciare al fittavolo soltanto quella parte del prodotto, che è indispensabile per ricostituire il capitale necessario a fornire la semente, a pagare il lavoro, ad acquistare e a mantenere il bestiame e gli altri strumenti di produzione, e che gli rende inoltre i profitti ordinari alle imprese agricole del circondario. Una parte siffatta è evidentemente la più piccola di cui possa accontentarsi il fittavolo senza entrare in perdita, e di rado il proprietario gli lascia di più”. (la ricchezza delle nazioni) La rendita rimane dunque determinata dal “prezzo” dei prodotti agricoli. Ne deriva che a parità di salari e profitti, essa aumenta con l’aumentare del prezzo. Per essere desunta occorre dunque conoscere prima il prezzo. Smith per risolvere il problema di definire il prezzo, mantiene la concezione deduttiva secondo cui i prezzi, sia agricoli che extra agricoli, siano determinabili come somma di salari, profitti e rendite, quando nella produzione entrino il lavoro, i mezzi di produzione anticipati dai capitalisti e la terra. Per Smith il prezzo di una merce contiene l’ammontare dei salari pagati, il profitto del capitale e la rendita fondiaria. La relazione tra rendita e prezzo è pertanto: prezzo = rendita + profitto + salario. “Normalmente si possono portare al mercato soltanto quelle parti del prodotto della terra il cui prezzo ordinario è sufficiente a ricostruire il capitale che deve essere impiegato a portarvele, insieme al profitto ordinario. Se il prezzo ordinario è superiore, la parte eccedente di esso andrà naturalmente alla rendita della terra. Se esso non è superiore, sebbene la merce possa essere portata al mercato, non consente rendita per il proprietario. Dipenderà dalla domanda se il prezzo sarà maggiore o minore.” “ In verità, accade talvolta che la quantità di terra che può essere adattata ad un particolare prodotto sia troppo piccola per soddisfare la domanda effettiva. Tutto il prodotto può essere venduto a coloro che sono disposti a dare qualcosa di più di ciò che è sufficiente a pagare la rendita, i salari e i profitti necessari per coltivarlo e portarlo sul mercato, al loro saggio naturale o secondo il saggio pagato nella maggior parte delle altre terre coltivate. In questo caso e soltanto in questo caso l’eccedenza di prezzo che rimane, dedotte tutte le spese iniziali e di coltivazione può non stare in nessun regolare rapporto con l’analoga eccedenza del prezzo del grano o del foraggio e anche superarla largamente; e la maggior parte di questa eccedenza va naturalmente alla rendita del proprietario.” (la ricchezza delle nazioni) Circa il secondo punto di vista, Smith pone sullo stesso piano il ruolo del monopolio della terra come fattore che consente al proprietario di partecipare alla distribuzione del prodotto, con il monopolio come causa della rendita e quindi dell’innalzamento e dell’abbassamento dei prezzi. “La rendita del proprietario non è in proporzione a ciò che l’agricoltore può ottenere dalla terra ma a ciò che egli può ottenere sia dalla terra che dall’acqua.” “La rendita della terra, quindi, considerata come prezzo pagato per il suo uso, è naturalmente un prezzo di monopolio. Essa non è affatto in proporzione a ciò che il proprietario terriero può aver investito in migliorie o a ciò che egli può aspettarsi, ma a ciò che l’agricoltore è in grado di dargli.” (la ricchezza delle nazioni) Nel primo caso la rendita costituirebbe un mero titolo sul prodotto sociale cui non sarebbe associabile alcuna funzione sul processo della sua creazione, essendo proporzionato solo a “ciò che l’agricoltore può permettersi di dare”; nel secondo caso invece la rendita viene considerata come componente dei costi di produzione sostenuti dai singoli produttori. Le contraddizioni di Smith non gli impediscono comunque di mantenere, da ultimo, la concezione prevalente secondo cui la terra impiegata nella produzione dei beni alimentari è sempre in grado di fruttare una rendita, poichè egli ritiene che il lavoro speso in agricoltura sia più produttivo di quello speso nelle attività extra agricole. La terra potrebbe dunque sempre produrre una quantità di beni superiore a quella necessaria per mantenere i lavoratori e riprodurre il capitale investito. “Ma la terra produce quasi sempre una quantità di alimenti maggiore di quella sufficiente a mantenere tutto il lavoro necessario a portarli sul mercato, anche se quel lavoro è rimunerato nel modo più liberale. L’eccedenza è parimenti sempre più che sufficiente a ricostruire il capitale che ha impiegato quel lavoro insieme al suo profitto. Al proprietario rimane quindi sempre qualcosa come rendita.” (la ricchezza delle nazioni) ANDERSON James Anderson, anticipa una analisi della rendita che successivamente verrà sviluppata dagli economisti della scuola classica. In Inquiry into the Nature of the Corn Laws (1777) critica l’idea che la terra sia sempre in grado di produrre una rendita, osservando che le terre coltivabili sono dotate di diversi gradi di fertilità, per cui le terre più fertili comportano costi unitari di produzione più bassi di quelli che devono essere sostenuti sulle terre meno fertili. Se l’offerta di grano delle terre migliori non è sufficiente a soddisfare la domanda, si dovranno coltivare anche le terre meno fertili ed il prezzo del grano dovrà crescere fino a coprire le maggiori spese di produzione sugli ultimi terreni. In tale situazione l’imprenditore attivo sulle terre più fertili ottiene un prezzo superiore alle spese effettivamente sostenute; questa situazione di privilegio scatenerà la concorrenza per ottenere l’uso della terra migliore per la quale gli imprenditori saranno disposti a concedere un premio al proprietario, proporzionale al grado di fertilità del suolo. Tale premio costituisce la rendita. Da ciò deriva che solo le terre più fertili, ai prezzi prevalenti, sono in grado di pagare una rendita, mentre le terre meno fertili, a quegli stessi prezzi, sono appena in grado di produrre quanto serve a pagare salari e profitti normali. Con Anderson la rendita non appare più legata alla fertilità assoluta del suolo, ma alla differenza dei gradi di fertilita’ dei terreni coltivabili e dipende dal prezzo, contrariamente alla concezione additiva dei prezzi di Smith. MALTUS Mentre Smith aveva cercato di dimostrare che la libertà era il mezzo migliore per accrescere la ricchezza di una nazione e che da un simile arricchimento finivano per trarne giovamento quasi tutti i cittadini, Malthus osserva che questo non necessariamente vero dato che la ricchezza può aumentare senza che per questo migliori la situazione dei singoli individui. Anzi, un simile miglioramento non può assolutamente verificarsi se il numero dei membri della società cresce altrettanto e più rapidamente della quantità di beni disponibili per la soddisfazione dei bisogni. Sulla base di questa considerazione egli sostiene che il regime liberale e l’ineguaglianza sociale che ne deriva consentono di migliorare le sorti di almeno una parte dei cittadini dato che determinano una limitazione della spinta demografica. Al contrario per Malthus un regime di comunanza dei beni e di uguaglianza ridurrebbe fatalmente tutti gli uomini alla miseria. Per Malthus la crescita della popolazione, determinata da una legge “naturale” per cui una popolazione raddoppia ogni 25 anni e cresce secondo una progressione geometrica, non può essere accompagnata da una pari crescita dei mezzi di sussistenza (“saggio sul principio di popolazione”, 1846 ). Se infatti, in determinate condizioni, le terre disponibili in un dato paese possono, in un primo periodo di 25 anni, aver raddoppiato la produzione, successivamente: “ .... nei cinque lustri seguenti è assolutamente impossibile che il prodotto segue la medesima legge e che quindi, alla fine di questo secondo periodo, si trovi ad essere quadruplicato. Un simile fatto contrasterebbe, in realtà, con tutte le nostre conoscenze intorno alla fecondità del suolo.” (saggio sul principio di popolazione) Pur affermando la sua profonda avversione su tutte le forme di controllo delle nascite, Malthus, entro una società in cui regna l’ineguaglianza arriva a sostenere che solo coloro che hanno i mezzi per allevare tutti quei figli che possono generare durante la loro vita, hanno il diritto morale di sposarsi in giovane età. Gli altri, a seconda dell’entità del loro patrimonio o dei loro redditi, dovranno invece procrastinare l’epoca del loro matrimonio o rinunciare del tutto a sposarsi. Malthus si oppone decisamente alla legge inglese del 1562 che, tramite un “tassa dei poveri”, si poneva l’obiettivo di fornire assistenza ai poveri e che, successivamente, permise di finanziare le parrocchie affinchè distribuissero soccorsi ai poveri creando delle case di lavoro nelle quali i poveri erano costretti o invitati a entrare. E così attacca di petto anche le teorie di Godwin che propugnavano una generalizzazione dell’assistenza ai poveri, teoria che nel 1795 vennero adottate in Francia in una Dichiarazione per cui . “ Ogni cittadino incapace di provvedere ai propri bisogni, ha diritto all’assistenza dei suoi simili”. Riprendendo la tesi di Smith per cui la legge dei poveri era semplicemente disastrosa in quanto impediva la libera circolazione della mano d’opera e determinava delle differenze salariali che alla fine danneggiavano gli interessi operai, Malthus arriva ad affermare che tale legge, invece di attenuare la miseria, la aggravava dato che permetteva anche a coloro che non hanno mezzi di sposarsi e fare figli e allevarli e di consentire così che questi facessero a loro volta altre famiglie miserabili. “Per crudele che possa apparire un simile giudizio, è certo che la povertà servile deve essere universalmente considerata disonorevole. Un incentivo siffatto sembra essere assolutamente indispensabile al fine di promuovere la felicità della maggioranza del genere umano; e cosi, ogni generale tentativo di indebolire questa molla, anche se mosso da intenzioni che senza dubbio appaiono umanitarie, andrà sempre contro lo scopo che si prefigge.” (saggio sul principio di popolazione) Nelle sue opere Malthus si propone un obiettivo preciso: quello di giustificare l’ordine liberale, fondato sulla proprietà e, quindi, con esso, l’ineguaglianza sociale. Per quanto riguarda la rendita, Malthus sviluppa la propria teoria nei Principi d’economia politica (1820) accomodando l’analisi agli interessi della proprietà fondiaria. La sua teoria risulta incentrata su tre elementi: 1 - la rendita viene concepita come un sovrappiù offerto dalla generosità della natura; 2 - la rendita nasce perchè le terre fertili sono relativamente scarse. 3 - la rendita cresce perchè l’accumulazione del capitale spinge al ribasso il saggio di profitto mentre l’aumento della popolazione, conseguenza dello sviluppo, spinge al ribasso i salari; Circa il primo punto, Malthus accetta la posizione dei fisiocratici, ossia la persuasione che la terra sia sempre in grado di produrre una eccedenza rispetto a quanto serva ai coltivatori. In questa ottica per Maltus il progresso tecnico è favorevole alla rendita perchè consente di esaltare la prodigalità degli agenti naturali di produzione. Egli ritiene così che il progresso tecnico riduca il costo di produzione ma non il prezzo e che tale differenza che così si crea debba andare ai proprietari fondiari. Un punto di vista esattamente opposto a quello di Ricardo che invece riteneva che il progresso tecnico in generale tende a ridurre le rendite. Per Malthus la rendita fondiaria rappresenta un prelevamento sul prodotto del lavoro (tesi sostenuta da Smith) dovuta alla situazione di monopolio in cui si trova a godere il proprietario terriero. “Il prezzo del grano nell’ambito di tutta una determinata contrada in via di sviluppo, deve essere sostanzialmente eguale al costo di produzione del grano coltivato sulla terra di qualità meno buona fra tutte quelle effettivamente sfruttate; ovvero, deve essere uguale al costo che si deve pagare per ottenere, sulla terra già coltivata, un prodotto addizionale che dia soltanto i redditi normali del capitale agricolo, con poca o nessuna rendita... Ne risulta che il prezzo del prodotto lordo viene fissato, per l’insieme della quantità che si riesce a realizzare, al livello di quello che potremmo definire il suo prezzo naturale o necessario; e cioè al livello di quel prezzo che si deve pagare per ottenere la quantità complessiva dei prodotto medesimo, sebbene la maggior parte di esso venga poi venduta, così, a un prezzo di gran lunga superiore a quello necessario alla sua produzione, poiché appunto si deve tener conto di quell’aliquota che è stata prodotta a un costo assai minore, mentre invece il suo valore di scambio rimane fissato al livello del costo complessivo di produzione” (Inchiesta sulla natura e progresso della rendita) L’esistenza dunque di una serie di posizioni monopolistiche, detenute dai proprietari di differenti categorie di terreni, permettono di realizzare, sul valore prodotto, un prelevamento, la cui importanza è tanto maggiore quanto più alto è il grado di fertilità della terra. La teoria della rendita differenziale giustificava così l’alto prezzo del grano. Malthus fa uso qui per la prima volta di quel metodo che consiste, me noi diciamo oggi, nel fissare il prezzo in base al costo marginale. L’applicazione malthusiana di questo principio permetteva di giustificare la tesi di Smith per cui la rendita fondiaria è un prelevamento sul prodotto del lavoro dovuto alla situazione di monopolio, di cui si trova a godere il proprietario terriero. Per Malthus inoltre la causa del rincaro del grano era da ricercare nel progresso economico e nella crescita demografica che costringono ad allargare la coltivazione della terra . Il prezzo in denaro del grano “è infatti più elevato nei paesi ricchi”. “Quando una nazione raggiunge un grado considerevole di ricchezza e un’alta densità di popolazione, il che non può avvenire senza una grave caduta dei profitti del capitale e dei salari, si può senz’altro asserire, come una verità inconfutabile, che le rendite si sottraggono a un siffatto processo di generale svilimento, poiché sono in qualche modo collegate alla fertilità stessa del suolo. È questa una legge immutabile, tanto quanto l’azione del principio di gravità.” (inchiesta sulla natura e il progresso della rendita) Anche qui Malthus espone un punto di vista esattamente opposto a quello di Ricardo il quale invece ritene che una riduzione dei salari non comporta un aumento delle rendite ma dei profitti i quali a loro volta cadono perchè, all’estendersi della coltivazione, si riduce la produttività del lavoro Infine occorre rilevare che per Malthus, il quale riteneva che i valori di scambio delle merci erano prevalentemente regolati dalla domanda e dall’offerta, la crescita del prezzo del grano era anche la conseguenza della crescita della popolazione la quale determina una crescita della domanda che però non può essere soddisfatta dall’offerta dato che le terre fertili sono relativamente scarse e la produzione non riesce pertanto a tenere il passo con i tassi di crescita demografici. Per l’economista inglese un mezzo sicuro per impedire un eccessivo rincaro sta nel diminuire le imposte che gravano sull’agricoltura. SAY Jan Baptiste Say si presenta come un continuatore di Adam Smith anche se in pratica snatura quasi completamente la teoria smithiana. Ispirandosi a Condillac, nella sua opera Traité d’ économie politique (1803), respinge la distinzione tra valore d’uso e valore di scambio, dichiarando che il valore degli oggetti sul mercato «è la misura dell’utilità che è stata loro conferita». Egli si rifiuta perciò di ammettere che la produzione debba essere studiata e analizzata come quel processo per cui il lavoro dell’uomo prepara gli oggetti in vista del consumo. Questa tesi lo conduce a formulare la teoria (oggi ancora adottata da molti) che la produzione si realizza grazie al concorso di tre elementi, dei tre «fattori della produzione» e cioè del lavoro del capitale e degli agenti naturali. A proposito degli agenti naturali, Say osserva che l’economista deve prestar attenzione solo a quello che risulta appropriato, ossia alla terra, poiché gli altri sono dati gratuitamente. Ciascuno di questi elementi indispensabili, ossia ogni singolo fattore di produzione, apporta il concorso dei suoi «servizi produttivi» ai dirigenti delle imprese e ne riceve in cambio un reddito, che è appunto il prezzo dei suddetti servizi. L’analisi della formazione dei redditi viene ad assumere, allora, una configurazione assolutamente nuova. I salari, i profitti, le rendite fondiarie sono i prezzi di servizi ben definiti e si determinano in funzione dell’offerta e della domanda che di essi vengono fatte. “Quelli che dispongono di una di queste tre fonti della produzione sono i mercanti di quella merce che è chiamata “servizi produttivi”; i consumatori, invece, ne sono gli acquirenti. Gli imprenditori industriali sono semplicemente, per così dire, degli intermediari, che richiedono i servizi -produttivi necessari alla fabbricazione di un determinato bene, ma che li richiedono in proporzione della domanda che esiste per un tale prodotto. Il coltivatore, il manifatturiere, il negoziante paragonano di continuo il prezzo che il consumatore è disposto a pagare per questa o quella merce, con le spese che sono necessarie perché venga prodotta; se decidono di fabbricarla, stabiliscono allora, per ciò stesso, una domanda di tutti quei servizi produttivi che dovranno concorrervi, e forniscono cosi una delle basi del valore di quei servizi medesimi. D’altra parte, gli agenti della produzione — uomini e cose, terre, capitali e persone industriose — si offrono, sostanzialmente, per alcuni motivi, tra loro diversi, di cui parleremo nei capitoli seguenti; essi formano cosi l’altra base del valore dei servizi di cui sopra s’è detto.” (traité d’ économie politique ) Questa analisi ha evidentemente lo scopo di dimostrare che, in una società liberale, ognuno riceve la giusta remunerazione per quel con tributo che apporta all’opera comune. Il liberalismo di Say, dunque, non cerca la propria giustificazione, al contrario di quello di Smith, soltanto nel perseguimento dell’efficienza; pretende anzi di fondarsi su una dimostrazione della conformità fra la distribuzione naturale dei redditi e la giustizia sociale. I salari naturali, ad esempio, sono la giusta remunerazione dei servizi resi dai lavoratori; né si vede di che questi potrebbero lamentarsi, dal momento che, secondo Say, la disoccupazione permanente è impossibile, in virtù della legge della popolazione, definita e sviluppata da Malthus. Quando la domanda di mano d’opera è inadeguata ad assorbire tutti gli individui che si offrono per lavorare, i guadagni degli operai scendono al di sotto di quel tasso che è necessario alla classe povera per mantenersi senza perdita di vite umane. In tal caso, le famiglie più cariche di figli e più provate dalle malattie vanno naturalmente in rovina e periscono, sicché diminuisce l’offerta di lavoro, e questo, essendo appunto meno offerto, può salire di prezzo. La rendita, costituendo la remunerazione di un fattore della produzione, ossia della terra, non trova una trattazione specifica ed il suo movimento in termini di prezzo è, al pari degli altri fattori della produzione, determinato dalla legge della domanda e dell’offerta. Opponendosi alle teorie degli economisti inglesi, Say enuncia la propria teorie “degli sbocchi”: “Bisogna sottolineare che una qualsiasi merce, non appena vien posta sul mercato, offre uno sbocco, per l’intiero ammontare del suo valore, ad altri prodotti. In effetti, quando un produttore ha fabbricato un qualsiasi bene, ha un estremo bisogno e desiderio di venderlo, affinché il valore di questo suo prodotto non gli si dissolva tra le mani. Ma egli non ha meno fretta di disfarsi di quel denaro che si procura con la vendita del bene, proprio perché anche il valore di questo denaro non si annulli rimanendo inerte. Ora, però, non ci si può liberare del proprio denaro, se non domandando di acquistare un qualche prodotto. E’ chiaro dunque che la semplice produzione di un bene apre immediatamente uno sbocco ad altri prodotti.” (traité d’ économie politique ) Say ritiene che una simile teoria possa esser del tutto adeguata a promuovere e difendere la causa del liberalismo economico. L’economia politica di Jean-Baptiste Say, fondata sulla teoria del valore-utilità, ha prevalso, alla fine del XIX secolo, sull’economia politica classica, costruita dagli inglesi nel quadro della dottrina del valore-lavoro. RICARDO Ricardo, come Smith, considera le leggi economiche come delle leggi naturali e di portata universale. Nel suo “Principi dell’economia politica e dell’imposta” (1817) si propone di spiegare come la produzione nazionale si distribuisca fra le tre classi della società: i proprietari della terra, i possessori di capitali, i lavoratori. Secondo Ricardo, per spiegare lo sviluppo dell’economia occorre occuparsi in primo luogo dell’accumulazione del capitale, la quale dipende dall’entità dei profitti che il capitale stesso riesce a garantire. Per Ricardo la rendita fondiaria non deriva dalla “munificenza della natura”, ma piuttosto dalla sua “avarizia” che deriva dal fatto che la terra, a differenza degli altri mezzi di produzione, non è riproducibile e pone perciò dei limiti precisi all’espansione del sistema. In particolare, dato che le terre adatte alla coltivazione non sono tutte ugualmente fertili ne deriva che, con uguali investimenti di capitale e di lavoro, i terreni meno fertili danno quantità di prodotto inferiri rispettoa quelle più fertili, ossia producono a costi più elevati. Per l’analisi della rendita fondiaria l’economista inglese si appoggia, per propria ammissione, sull’opera che Malthus aveva dedicato alla rendita nel 1815 e su un lavoro anonimo pubblicato nel medesimo anno che riguardava l’impiego del capitale nell’agricoltura. Nel suo Saggio sul basso prezzo del grano (1815) Ricardo adotta la tesi di Malthus sulla rendita ma ne trae conclusioni opposte: se lo sviluppo della ricchezza tendeva a determinare un rincaro del prezzo del grano ed un aumento delle rendite, bisognava sforzarsi di capovolgere un simile andamento lasciando entrare liberamente, entro i confini del regno, il grano estero. A differenza di Malthus, Ricardo non difende gli interessi dei proprietari terrieri ma quelli degli industriali, i quali appunto auspicavano una diminuzione del prezzo del grano per poter così diminuire i salari. Riprendendo nei Principi dell’economia politica e dell’imposta quanto aveva già trattato nel Saggio sul basso prezzo del grano, rivolge l’attenzione ad una economia agricola che produce “grano” su una varietà di terreni diversi. L’agricoltura produce e impiega come mezzo di produzione il grano che entra nello schema come la sola forma di anticipazione che gli imprenditori effettuano e rappresenta sostanzialmente il fondo salari. Nella prima fase si suppone che vengono messe a coltura le terre più fertili e meglio situate rispetto ai mercati di sbocco. Si suppone altresì che tali terre siano sufficienti, con le tecniche di produzione date, a produrre il grano necessario alle sussistenze dei lavoratori, poniamo pari a 0,5 qli di grano per unità di lavoro annuo. Siano 100 le unità di lavoro occupate, ne deriva che il fondo salari annuo sarà pari a S = 0,5 x 100 = 50 qli di grano. Se ogni unità di lavoro, date le tecniche colturali e la durata della giornata di lavoro, è in grado di produrre 1 qle di grano, ne deriva che il prodotto dell’agricoltura sarà pari a Qt = 1 x 100 = 100 qli di grano. Il profitto reale sarà dato da: prodotto dell’agricoltura – fondo salari, ossia P = 100 – 50 = 50 qli. Il costo di produzione, espresso in termini di lavoro richiesto per coltivare 1 qle di grano sarà pari al rapporto tra unità di lavoro impiegate (100) e quantità di grano prodotta (100 qli) , ossia: Cu = 100/100 = 1 unità di lavoro per qle di grano prodotto. Nella seconda fase di sviluppo, quando la forza lavoro è aumentata, supponiamo di altre 100 unità di lavoro, la produzione delle terre coltivate non basterà a soddisfare le esigenze alimentari della collettività e si dovrà allargare la coltivazione anche alle terre meno fertili e più distanti dai mercati di vendita. Si suppone altresì che non venga introdotta alcuna variazione sulla tecnica di produzione e sulla lunghezza della giornata lavorativa. A sua volta il salario per unità di lavoro non cambia poichè esso è dato al livello di sussistenza ( 0,5 qli per unità lavorativa). Sulla terra meno fertile, della stessa estensione della prima, i 100 nuovi lavoratori sono ora in grado di produrre 90 qli di grano, ossia 0,9 qli di grano per ciascuna unità lavorativa.. Ne consegue che essendo invariato il fondo salari dei lavoratori aggiuntivi (S = 50 qli di grano anno), il profitto globale sul secondo terreno risulterà pari a P = 90 – 50 = 40 qli. Il saggio di profitto calcolato come rapporto tra il profitto globale ed il fondo salari sarà: 1 – nel primo caso delle terre più fertili: 50/50 = 1 ossia, in termini percentuali, pari al 100%. 2 – nel secondo caso delle terre meno fertili: 40/50 = 0,8, ossia, in termini percentuali, pari allo 80%. Questa disparità dei saggi profitto promuoverà la CONCORRENZA tra gli imprenditori agricoli per accaparrarsi le terre migliori , come aveva osservato Anderson, spingendo l’uguaglianza del profitto unitario su tutte le terre in uso al livello più basso. Quando i saggi di profitto si sono uniformati al valore più basso di quelli possibili (80%). la prima terra sarà in grado di presentare una eccedenza, rispetto ai redditi distribuiti come salari e come profitti pari a 50 – 40 = 10 qli di grano che afferisce ai proprietari delle terre più fertili come reddito differenziale. La rendita sorge dunque come effetto che dell’aumento dei costi di produzione per unità di grano prodotta: nel caso di messa in coltura delle terre meno fertili essa risulta pari a : 100 unità di lavoro/ 90 qli di grano = 1,11 unità di lavoro per qle di grano prodotto. A questo valore, che rappresenta il nuovo prezzo di mercato del grano, si vende naturalmente anche il grano prodotto sulle terre di prima qualità che tuttavia costa soltanto di 1 unità di lavoro per qle di grano prodotto. La differenza tra i due valori che rappresentano la differenza tra prezzi di mercato e costi di produzione rappresenta la rendita unitaria. Lo sviluppo di questo processo sulle stesse linee produce la situazione rappresentata in tabella. Si suppone terre di uguale estensione e di fertilità decrescente (dalla terra A alla terra C) su cui lavorano 100 persone ad un salario unitario invariato.
Si conferma il principio secondo cui il costo di produzione, che regola il prezzo, dipende dal lavoro speso in produzione; il costo di produzione rilevante è quello sostenuto sulla terra meno fertile che verrà denominata “terra marginale”. Per Ricardo il principio che il prezzo normale di un prodotto è uguale al suo costo marginale assume una valenza generale (anche se ciò è dimostrabile che non è vero). Scrive Ricardo: “ Il valore di scambio di qualsiasi merce – sia essa prodotta da una manifattura, da una miniera o dalla terra – non viene mai regolato sulla base della più piccola quantità di lavoro necessaria per la produzione in circostanze estremamente favorevoli, e, dunque, in condizioni che costituiscono una sorta di privilegio. Il suo valore, al contrario, dipende da quel massimo di quantità di lavoro che sono costretti ad impiegare tutti coloro che non godono della suddetta fertilità e che per produrre debbono lottare contro le circostanze sfavorevoli”. La terra marginale non dà rendita e non costituisce una componente del prezzo. La propagazione del processo mostra altresì che il ricorso progressivo a terre di peggiore qualità determina un incremento della massa della rendita ed una contrazione del profitto dato che i salari restano costanti e la produttività per anno uomo si riduce all’espandersi della quantità di lavoro impiegata e perciò della produzione globale.. Per Ricardo la rendita ha dunque il significato di un trasferimento, essendo una parte del prodotto complessivo in precedenza andato ai capitalisti. Per Ricardo dunque la rendita non viene concepita in termini di contribuzione produttiva della terra, ma piuttosto in termini di risparmio di lavoro che si rende possibile nelle più favorevoli condizioni di produzione sulle terre infra marginali, la cui traduzione in rendita è resa possibile dal meccanismo della concorrenza. La rendita sopra descritta viene definita estensiva, poichè deriva dall’allargamento della produzione ad un numero crescente di terre via via meno fertili sulle quali vengono applicate medesime quantità di lavoro e mezzi di produzione. Ricardo considera anche un altro tipo di rendita che definisce intensiva, che sorge quando la produzione viene accresciuta su una stessa terra applicandovi un’ulteriore quantità di lavoro e di mezzi di produzione. La rendita intensiva viene fatta derivare dall’azione della “legge della produttività decrescente” per la quale si vuole che applicazioni successive di uguali combinazioni di lavoro e capitale alla stessa terra diano luogo a incrementi di prodotto decrescenti. Per Ricardo infine il progresso tecnico in generale tende a ridurre le rendite. Seguendo lo schema sopra richiamato, immaginiamo che nel passaggio dalla prima alla seconda fase di sviluppo, si rendano disponibili miglioramenti nelle tecniche colturali che, sulle terre di prima qualità già in uso, consentano ad ogni lavoratore una produttività doppia (sicchè si dimezza il costo per unità di prodotto), il risultato sarebbe che se le terre di seconda qualità fossero già in uso, il progresso tecnico consentirebbe di ritirarle, facendo aumentare i profitti ed annullare le rendite. In questo caso i proprietari terrieri tendono a contrastare l’introduzione del progresso tecnico, preferendo l’estensione della coltivazione sulle terre meno fertili con conseguenti aumenti del costo di produzione. Per quanto la rendita appaia come prezzo per l’uso della terra, anche per Ricardo, come gli altri economisti classici, l’origine è nel processo di trasferimento di reddito dai percettori di profitto ai proprietari delle risorse naturali impiegate nella produzione. La rendita non rappresenta dunque creazione di nuova ricchezza dato che essa attinge a profitti pre esistenti. LA RENDITA NELL’ANALISI MARGINALISTICA DEGLI ECONOMISTI DELLO 800 La concezione degli economisti classici della rendita come reddito derivato, viene respinta dagli economisti della scuola marginalista e neo classica i quali elaborano una concezione del sistema economico nella quale l’elemento principale è ritenuto lo scambio individuale di beni e servizi e non la produzione in vista della creazione di un “sovrappiù”. Nel passaggio dell’analisi dei classici a quella dei marginalisti, si abbandona l’ottica secondo la quale le merci sono generalmente riproducibili ( per cui sono le condizioni di produzione delle merci a regolarne i prezzi), per adottare un’ottica di scarsità dei beni economici, per cui i valori nella sfera dello scambio sono regolate dalle scarsità relative dei beni. In questa ottica l’esigenza di una spiegazione separata della rendita viene meno in quanto l’attenzione è rivolta non ai gruppi o classi soggetti della distribuzione sociale, bensì ai fattori della produzione la cui utilità si valuta con i servizi produttivi che essi sono in grado di offrire. Scopo dei marginalisti è dimostrare che se la rendita è il prezzo per i servizi della terra, non c’è motivo per ritenere che essa non debba entrare nei costi di produzione e se la terra costituisce un “fattore di produzione” come tutti gli altri, non c’è motivo di interpretare il reddito ad essa connesso con criteri diversi da quelli con i quali si spiegano i profitti ed i salari. Per i marginalisti le transazioni nel mercato hanno luogo perchè le merci rivestono una utilità per gli individui ed il loro valore d’uso è la base del loro valore di scambio. Prevalendo l’ottica micro economica dell’allocazione delle risorse, si dissipa la distinzione classica tra la terra e gli altri fattori della produzione e quindi non è più possibile individuare alcun ruolo specifico della rendita nel processo di formazione dei costi. STUART MILL In Principi di economia politica (1848), Stuart Mill afferma che la posizione di Ricardo sulla rendita è lecita solo nel caso in cui la terra marginale sia specializzata in un solo uso (ad esempio il grano). Se la terra è invece impiegata nella produzione di merci diverse, si può allora concepire una situazione in cui la terra marginale dà una rendita. Se una terra che è capace di dare rendita quando è impiegata in agricoltura, viene allocata nel settore industriale, ad esempio come area edificabile, allora tale rendita deve entrare nel costo di produzione dei beni industriali. Detto costo rappresenta infatti il pagamento che deve essere effettuato per trattenere i fattori di produzione di una produzione particolare. Per quanto riguarda la rendita della terra essa deve essere pagata anche dal produttore marginale dato che egli deve impedire che i concorrenti gli sottraggano l’uso della terra per un impiego alternativo. JOHANN von TÜNEN Sin dal 1824 l’economista tedesco, nella su opera “Lo stato isolato in riferimento all’economia agricola e all’economia nazionale (1826)” cercò di costruire una teoria della localizzazione regionale delle culture appoggiandosi sul ragionamento marginalistico. L’idea che le differenze di ubicazione del terreno possano essere trattate come differenze di fertilità e quindi dare luogo a rendite, è pienamente ripresa da Thünen che sviluppa la teoria della rendita di posizione. Egli considera un aggregato urbano ubicato al centro di una superficie omogenea, nella quale il solo elemento che distingue i vari poderi agricoli in cui viene suddivisa, è costituito dai costi di trasporto, crescenti con la distanza dal mercato. La localizzazione in riferimento al mercato rappresenta dunque un vantaggio differenziale dato che , a parità di prezzo di vendita per ogni specifico prodotto agricolo, i coltivatori più distanti dal mercato sopporteranno maggiori costi di trasporto; conseguentemente, dati costi di produzione, la rendita di posizione è maggiore nei luoghi più vicini al mercato. Thünen ha altresì argomentato che la rendita di posizione agisce sulla distribuzione spaziale delle attività economiche. In particolare ritiene che le attività agricole di sostegno dei centri urbani si sarebbero organizzate in anelli concentrici, in ciascuno dei quali la localizzazione delle coltivazioni si sarebbe attuata in funzione dei differenziali nei costi e nei tempi di trasporto. Così ad esempio la produzione di merci deperibili o producibili su limitate porzioni di suolo si sarebbero collocate negli anelli più vicini al centro, mentre le produzioni di quelle merci per le quali i costi di trasporto svolgono un ruolo minore si sarebbero allocate nei poderi più distanti. MARSHALL Alfred Marshall ( 1842 / 1924 ) fu l’economista inglese che creò il sistema degli equilibri parziali , nel quale si conciliano (opera di mediazione) la tradizione classica ricardiana e la teoria marginalistica. Egli ha dato il via alla degradazione della nozione classica di rendita, affermando che la rendita della terra è semplicemente una specie particolare di un ampio genere e che ogni guadagno differenziale può essere considerato una forma di rendita. Su questa base, sono state introdotte varie forme di rendite personali, o rendite di abilità, afferenti a imprenditori, lavoratori o artisti, dotati di capacità particolari. “Per Marshall, nei Principi di economia (1890), la rendita è la remunerazione che ogni fattore percepisce in condizioni di equilibrio normale di lungo periodo quando la concorrenza e la mobilità delle risorse consentono di uguagliare i rendimenti marginali dei fattori in tutti gli impieghi. Per contro, nel breve periodo, un fattore può ottenere una remunerazione più elevata della normale perché la sua offerta è temporaneamente inferiore alla domanda e il suo prezzo d’uso tende perciò a superare quello che prevarrebbe in condizioni di equilibrio. Ad esempio, il capitale investito in un edificio o in una macchina, quando aumenta la domanda e quindi il prezzo d’uso per i loro servizi, può ottenere una remunerazione superiore al rendimento medio del capitale in altri impieghi e tale differenziale può permanere finché i capitali si siano spostati dagli impieghi meno remunerativi a quelli più redditizi. Per tale eccedenza, destinata a sparire via via che l’offerta del fattore si adegua alla domanda, Marshall ha proposto il termine “quasi rendita” per distinguerla dalle rendite permanenti delle risorse naturali” Marshall considerò alla stregua di una legge naturale il fatto che l’agricoltura si caratterizzi per i rendimenti decrescenti , mentre l’industria per quelli crescenti ( in virtù del progresso tecnico ) . Marshall, riprendendo parte del lavoro di Mill, sostiene che dal punto di vista del singolo imprenditore, la terra è soltanto una forma particolare di capitale il cui uso comporta un pagamento che necessariamente deve riflettersi nei costi e, perciò, nei prezzi dei prodotti finali. Dalla macro economia l’analisi si sposta a livello della micro economia dell’allocazione delle risorse. Per quanto riguarda il fatto se la rendita debba o meno costituire una componente dei costi, Marshall tiene una posizione incerta dato che talvolta afferma una cosa, ossia che la rendita per usi particolari del suolo deve necessariamente costituire una componente dei costi di produzione e una volta l’esatto opposto. Questa ambiguità viene spiegata col fatto che Marshall, sotto l’aspetto metodologico, alterna il livello di analisi individuale (ricorrendo al concetto di costo opportunità) con quello aggregato (la rendita in quanto elemento della distribuzione sociale). Nel ragionamento marshalliano il concetto di rendita cambia a seconda che venga studiato sotto il capitolo dei prezzi o sotto quello della distribuzione. Infatti, mentre nell’analisi dei prezzi le singole rendite vengono concepite come elementi di un costo opportunità, nel senso che il pagamento necessario per l’uso del suolo per una singola impresa sarebbe regolato dalla remunerazione che il suolo può spuntare in qualche altra attività, le rendite come complesso risultano pur sempre prive di ogni connotazione di costo. Marshall dunque accetta come valida, a livello del singolo produttore, la tesi che la rendita a livello del singolo produttore sia un elemento del costo e che pertanto influisca sul prezzo e esclude invece che essa sia una componente dei costi sociali quando porta l’analisi a livello del sistema nel suo insieme. Mentre nel primo caso viene abbandonata la distinzione tra la terra e gli altri fattori della produzione, nel secondo tale distinzione deve invece essere introdotta. Infine occorre ricordare che Marshall, seguendo l’approccio di von Thünen, non trascura il fattore spazio nello studio del valore dei terreni urbani impiegati in attività industriali e commerciali. In tale contesto egli tratta le rendite di posizione in connessione con l’analisi delle “economie esterne”, osservando che i “valori di situazione” derivano dagli sviluppi della popolazione o dall’apertura di mezzi di comunicazione e rappresentano “l’influenza più evidente che i mutamenti dell’ambiente industriale esercitano sul costo di produzione”. JEVONS Jevons prendendo le mosse, in analogia con Ricardo, dalla situazione in cui un dato fondo di lavoro viene prestato in diversi apprezzamenti di terre di qualità differente, ritiene che la legge generale della rendita appaia con maggiore evidenza quando, in un medesimo appezzamento, s’impiegano “dosi” successive di lavoro. In tal modo il prodotto sarebbe destinato ad aumentare in proporzione minore degli incrementi di lavoro a causa della “legge dei rendimenti decrescenti”. Per i marginalisti tale legge avrebbe valenza universale. “Nella Teoria dell’economia politica (1871) viene fornita una rappresentazione grafica di tale legge (Fig.1).
Fig. 1 Sull’asse orizzontale, OL, sono indicate le “dosi” di lavoro impiegate su una data quantità di terra omogenea, mentre sull’asse verticale, OQ, è indicata la produzione associata a ciascuna singola dose di lavoro. Quando s’impiega una sola dose di lavoro, OL1 il prodotto associato ad essa sarà OQ1, mentre una seconda dose di lavoro, L1L2 contribuirà alla produzione complessiva in una proporzione minore della precedente, OQ2. Riducendo l’ampiezza delle dosi di lavoro, l’istogramma della figura 1 si trasforma nella curva continua AB presentata da Jevons . I valori in ordinata designano il prodotto marginale del lavoro. Dato che ogni dose di lavoro, in condizioni di concorrenza e per l’operare del jevoniano principio d’indifferenza, deve essere remunerata allo stesso saggio, ad ogni dose inframarginale andrà il prodotto unitario rappresentato dal segmento LNB associato all’impiego di LN dosi infinitesimali di lavoro. Il prodotto totale sarà pari all’area OABLN, del quale l’area OQNBLN rappresenta la remunerazione complessiva del lavoro, mentre l’area QNAB rappresenta la rendita totale. Tale rappresentazione, mentre può essere fatta servire a una spiegazione della remunerazione del lavoro in base al principio della produttività marginale, non sembra invece spiegare la rendita, che appare infatti come un reddito residuale. L’aspetto residuale della rendita, misurata da un’area mistilineare, a fronte del salario del lavoro, misurato dall’area di un rettangolo di altezza pari al prodotto marginale del lavoro, giustifica in qualche misura il trattamento separato della terra e della rendita.” [1] WICKSTEEDAlla base dell’analisi di Wicksteed sta la concezione che uno strumento produttivo o un bene finale hanno valore non perchè la sua fonte è il lavoro (come sostengono gli economisti della scuola classica) ma perchè riflettono o l’utilità per il consumatore o il vantaggio per il produttore. In The Common Sense of Political Economy (1910) Wicksteed si pone l’obiettivo di superare le incertezze mostrate da Marshall nella definizione della rendita arrivando a conciliare la definizione di rendita come pagamento effettuato dalla singola impresa per l’uso della terra con la definizione di rendita come reddito ricevuto dai proprietari della terra, riducendo la prima al problema dell’allocazione delle risorse e la seconda all’analisi della distribuzione in base al metodo marginale. Per Wicksteed la domanda di terra deriva dalla domanda dei prodotti finali che si ottengono grazie al suo impiego produttivo. In condizione di concorrenza perfetta la rendita di una dose di terra deve essere pari al prezzo del prodotto finale moltiplicato per la produttività marginale fisica della terra, e, in equilibrio, essa è uguagliata in tutti gli usi. La rendita è quindi tanto più elevata quanto maggiore è la produttività marginale fisica della terra, (ossia quanto maggiore è il suo grado di scarsità in relazione agli altri fattori) e quanto maggiore è il prezzo del bene finale ( ossia la domanda) “Il contributo di Wicksteed al perfezionamento della teoria marginale consiste nella dimostrazione che la residualità della rendita è soltanto apparente e non dipende da particolarità o da specifiche caratteristiche della terra, bensì dal fatto che, nel ragionamento jevoniano, la terra viene considerata fissa, mentre si sono fatte variare in successione le dosi di lavoro. Si è, in tal modo, determinata la remunerazione del fattore variabile, mentre la remunerazione del fattore fisso si determina residualmente. Per rendersi conto del fatto che tale residualità deriva soltanto dal modo in cui si considerano i fattori produttivi, quali cioè vengono ritenuti variabili e quali fissi, e non da diversità oggettive dei fattori stessi, è sufficiente rovesciare l’approccio di Jevons, considerando in altri termini una data quantità di lavoro alla quale vengono applicate dosi successive di terra (Wicksteed) [ 550-74]. In tal modo, si mostrerà che anche la rendita viene determinata secondo il principio della produttività marginale della terra. Nella figura 2 si fa variare l’impiego di terra, sull’asse orizzontale OD, tenendo fissa la quantità di lavoro, per cui è ora l’area residuale ABC che rappresenta la remunerazione del lavoro, mentre l’area AOCD, determinata sulla base del prodotto marginale della terra, DC, moltiplicato per le dosi di terra impiegate, OD, rappresenta la rendita globale. Il principio marginale, in quanto dipendente dal criterio delle proporzioni variabili, consente di porre sullo stesso piano la terra e il lavoro, come anche l’americano John B. Clark aveva già intravisto (J. B. Clark). Da parte sua, Wicksteed ha in aggiunta argomentato che tale similitudine non è solamente formale, fornendo una complessa dimostrazione del fatto che la rendita determinata mediante il principio residuale (fig. 1) ha lo stesso valore quando venga determinata con il metodo marginale (fig. 2) (Wicksteed) [ 550-74].
Fig.2 Di tale dimostrazione è possibile presentare la seguente formulazione geometrica, adattata da Sydney J. Chapman (Chapman; Stigler, 178 sg.). Consideriamo che il settore agricolo sia costituito da T poderi di terra omogenea e di uguale estensione su ognuno dei quali opera uno stesso ammontare di lavoro (si omette sempre la considerazione del capitale). Nella figura 3 l’impiego di lavoro per ogni unità di terra è rappresentato sul l’asse orizzontale, mentre sull’asse verticale sono riportati i prodotti marginali del lavoro. Con un impiego di lavoro pari a OH, il prodotto si associato ad ogni unità di terra è rappresentato dall’area OFGH. Se ogni unità di lavoro è remunerata con il suo prodotto marginale, HG, l’area OEGH è la remunerazione del lavoro operante su ogni unità di terra, mentre l’area residuale, EFG, rappresenta la rendita per unità di terra.
Fig. 2 Osserviamo che il prodotto complessivo del settore è pari a OFGH x T, essendo T il numero delle dosi di terra in uso. Se ora aggiungiamo al sistema una dose di terra, lasciando inalterato il fondo di lavoro complessivo, l’incremento di prodotto totale che si ottiene è, per definizione, il prodotto marginale della terra. Poiché nella nuova situazione si riduce la dotazione di lavoro su ogni dose di terra (mutano le proporzioni tra i fattori), poniamo che sia, ad esempio, OH’ questa nuova quantità di lavoro. Ogni unità di terra in uso nella situazione iniziale deve cedere una quantità di lavoro pari a H’H all’unità di terra aggiuntiva e, dato che ogni terra ha la medesima dotazione di lavoro, deve essere H’H x T = OH’. Nella nuova situazione in cui operano T +1 dosi di terra, il prodotto complessivo del settore è pari a OFG’H’ x (T +1) = OFG’H’ x T + OFG’H’ mentre il prodotto assicurato da T dosi di terra era, nella precedente situazione, OFGH x T = OFG’H’ x T + H’G’GH x T. L’incremento nel prodotto totale è pari a OFG’H’ x T + OFG’H’ — OFG’H’ x T — H’G’GH x T = OFG’H’— H’G’GH x T. L’ispezione della figura 3 mostra, d’altra parte, che OFG’H’ = E’FG’+OE’G’H’. Si osservi, inoltre, che H’G’GH x T = H’G’MH x T— G’MG x T, mentre vale anche la relazione OE’G’H’ = H’G’GH x T, dato che la remunerazione del lavoro è la stessa su ogni terra. Pertanto, l’incremento nel prodotto dovuto all’aggiunta di una dose di terra (il prodotto marginale della terra) è pari a E’FG’+ + G’MG x T, dove il termine G’MG x T tende a zero al ridursi della dimensione della dose di terra (quando, in altri termini, T è molto grande e la dose di terra è infinitesima). In tal modo, si mostra il risultato di Wicksteed che la rendita unitaria, rappresentata nella figura 3 dall’area residuale E’FG’, è misurata dal contributo marginale della terra.”[2] In conclusione Wicksteed può quindi affermare che la terra si comporta esattamente come gli altri fattori produttivi e la rendita perviene ai suoi proprietari allo stesso titolo in base al quale i capitalisti percepiscono un interesse ed i lavoratori un salario. BIBLIOGRAFIAHenri Denis, Storia del pensiero economico, Oscar Mondadori Maurizio Zenezini, La rendita. Dizionario di Economia Politica diretto da Giorgio Lunghini, Vol 6 Boringhieri Editore, 1983 NOTE |