CONOSCENZA E VERITÀ
SECONDO LA TEORIA DEL RIFLESSO

Zhang Enci

LA PRASSI È IL CRITERIO DELLA VERITÀ[1]

La concezione materialistica della verità afferma che la verità consiste in pensieri che riflettono correttamente la realtà oggettiva. Ma come possiamo sapere se il nostro pensiero la riflette correttamente? Per giudicarlo bene è necessario determinare un criterio della verità. Ciò che noi chiamiamo «criterio di verità» è la misura della verità e dell’errore del nostro pensiero; esso deve darci un solido appoggio per poter affermare tale distinzione. Ma qual è dunque il criterio sul quale ci si può basare per distinguere la verità dall’errore?

Nei tempi antichi come ai nostri giorni, in Cina come all’estero, molti sono stati i filosofi che non sono riusciti a mettere in chiaro questa questione. Essi hanno avanzato ogni sorta di criteri, ma nessuno è accettabile. Solo Marx, per la prima volta, ha risolto correttamente questa questione.

1. L’accordo tra il criterio della verità e la concezione della verità.

Il criterio della verità è uno dei punti centrali del di battito sulla teoria della verità. Le teorie sulla verità dei filosofi differiscono, e anche i loro criteri di verità differiscono; ma il criterio di verità che essi adottano va sempre di pari passo con la loro concezione della verità. La concezione idealistica della verità è soggettivistica e anche il suo criterio di verità è soggettivo. Il criterio oggettivo di verità della concezione materialistica e la concezione materialistica della verità (la prassi sociale) sono unite da un legame sostanziale. La concezione idealistica della verità non potrà mai adottare questo criterio della prassi, perché ogni teoria idealistica, ivi compresa la sua concezione della verità, non è che una finzione soggettiva che non può passare attraverso nessuna verifica pratica. Se riconoscesse la prassi come criterio di verità, verrebbe a negare sé stessa. Al contrario, la concezione materialistica della verità oggettiva non teme di essere verificata nella prassi; anzi, soltanto riconoscendo il criterio della prassi può svilupparsi fino alle sue ultime conseguenze. Se ci si allontana da questo criterio, si rischia di entrare in contraddizione con la teoria dell’oggettività della verità e anche di staccarsene completamente.

Ma perché la concezione materialistica della verità ha questo sostanziale legame con il criterio della prassi?

Per sua stessa definizione, la concezione materialistica della verità oggettiva, come corretto riflesso della realtà oggettiva nel pensiero, implica il rifiuto di un criterio soggettivo perché un tale criterio in nessun modo potrebbe costituire il metro per giudicare la giustezza di questo riflesso soggettivo dell’oggettività. Al contrario, questa definizione implica il riconoscimento di un criterio oggettivo: il criterio della prassi. In realtà, poiché la verità è l’accordo del pensiero con la realtà, il criterio di Verità dev’essere qualcosa che ci permetta di valutare questo rapporto, e questo non può essere che la pratica (prassi) sociale. Ecco perché si può dire che la concezione materialistica della verità racchiude sostanzialmente il riconoscimento del criterio della prassi; cioè, che essa è sostanzialmente unita al criterio della prassi.

Bisogna ben rilevare che se affermiamo che la concezione materialistica della verità ha questo sostanziale legame con il criterio della prassi, ciò non vuol dire che tutti i materialisti abbiano adottato coscientemente la prassi sociale come criterio di verità; ciò vuoI dire solo che il materialismo deve fare della prassi sociale il criterio della verità. Tuttavia ciò che deve essere è una faccenda, e la prassi sociale è un’altra faccenda. In realtà i materialisti premarxisti non hanno adottato coscientemente il criterio della prassi, ma per lo più un criterio soggettivo. Feuerbach è un celebre esempio di questo materialismo che adottava un criterio soggettivo di verità. Egli considerava che il criterio della verità era «l’accordo di molti» e il «consenso comune». La concezione materialistica della verità deve assumere la prassi come criterio di verità; se non fa suo questo criterio, non è conseguente. È evidente che questo criterio dell’«accordo di molti» era in contraddizione esplicita con la concezione della verità oggettiva che egli stesso affermava. Feuerbach, assumendo il materialismo come punto di partenza, non ha mai dubitato un solo istante dell’esistenza della verità oggettiva e affermava che la verità era il corretto riflesso della realtà oggettiva attraverso il pensiero. Il suo criterio soggettivo (non di uno ma di molti) di verità consisteva in ciò che chiamava «accordo di molti». Questo era ancora un criterio soggettivo di verità che non poteva costituire il metro dell’accordo del pensiero con l’oggettività. Fondarsi su questo criterio può, al contrario, portare a negare la verità oggettiva. In realtà, pensare di risolvere il problema della verità rimanendo nella sfera della soggettività equivale a negare l’oggettività della verità. Ecco perché assumere un criterio di ordine soggettivo è sostanzialmente incompatibile con la concezione materialistica della verità; solo il criterio della prassi si accorda pienamente con essa. Se i materialisti premarxisti non potevano adottare questo criterio e assume vano un criterio soggettivo, ciò vuol dire che la loro teoria della verità oggettiva non era conseguente. Il marxismo ha stabilito la prassi sociale come criterio della verità e perciò ha superato l’incoerenza della vecchia concezione materialistica della verità; l’ha sviluppata in una teoria perfettamente scientifica.

2. È sbagliato adottare un criterio soggettivo di verità.

I filosofi prima di Marx sostenevano ogni sorta di criteri di verità, il cui punto comune era la loro natura soggettiva, perciò questi criteri erano sbagliati. Consideriamone qualcuno, particolarmente esemplare, e proviamo ad analizzarne nella sostanza il loro carattere sbagliato.

Nella storia della filosofia c’è chi ha ritenuto che la verità non fosse altro che «il consenso comune», «l’accordo di molti» o «ciò che era riconosciuto da tutti». Non solo Feuerbach ma anche gli idealisti approvavano questo criterio. Anche nella vita di tutti i giorni c’è chi ne fa uso. A prima vista, può anche sembrare che questo criterio non sia di ordine soggettivo, poiché non è basato su una soggettività individuale, ma sull’accordo di tutti. Ma è proprio questo un modo sbagliato di comprenderlo; in realtà è completamente sbagliato considerare soggettivo qualcosa che indichi solamente questa o quella soggettività individuale. «Soggettivo» si applica ugualmente bene sia all’individuo che a più persone. La soggettività di un solo individuo è un limite ma anche la soggettività di più persone è un limite. Il che equivale a rifiutare l’oggettività come criterio di verità.

Siccome l’anzidetto criterio di verità è di ordine soggettivo, ciò che è riconosciuto da tutti», «l’accordo di molti» non potrebbe garantire una giusta e chiara distinzione tra l’errore e la verità. Secondo questo criterio, ogni pensiero può essere proclamato vero, purché abbia «l’accordo di tutti», che rifletta correttamente o no la realtà oggettiva: ed è qui la sostanza della questione. La vita presenta spesso delle circostanze in cui un piccolo numero di persone sbaglia, ma anche un grande numero di persone sbaglia. Si arriva al punto che errori radicali siano considerati da tutti come verità intoccabili e che proprio la verità sia considerata ufficialmente come errore. L’esempio classico di una situazione del genere è la religione.

Per molto tempo nel passato, il mito della creazione del mondo a opera di dio fu un atto di fede, non solo per una piccola minoranza, ma per un grandissimo numero di uomini. Se ci si basa sul criterio dell’«accordo di molti», bisognerebbe allora considerare come verità la religione, la dottrina della creazione del mondo e altre assurdità. Se consideriamo la storia delle scienze, salta agli occhi che questa verità inizialmente è scoperta solo da qualcuno e all’inizio la maggioranza delle persone non la capisce e arriva addirittura a negarla e a combatterla. La dottrina di Copernico ne è un esempio. Prima che avesse formulato la sua teoria, si riteneva che il globo terrestre fosse immobile, tutti credevano che fosse il sole a girare attorno alla terra. Copernico fu, nel suo tempo, il solo uomo a sostenere il contrario, e per molto tempo, anche dopo che le sue teorie furono pubblicate, ben lungi dall’essere condivise dalla maggioranza, continuarono a subire ogni sorta di attacco. Dov’era dunque la verità? Le concezioni della maggioranza erano false. Secondo il criterio del comune assenso, Copernico aveva torto! È chiaro che seguendo questo criterio di verità, non si può in nessun modo distinguere giustamente il vero dall’errore; ma, al contrario, si crea una gran confusione, fino a far passare il falso per il vero, il bianco per il nero.

Nella vita reale, una nuova concezione, prima di essere progressivamente acquisita dalla maggioranza, è molto spesso portata avanti da una minoranza; e all’inizio, prima di arrivare ad «essere riconosciuta da tutti», entra spesso in conflitto con l’opinione generale («l’accordo di molti»). La stessa cosa accade quasi sempre per le innovazioni scientifiche e tecniche. Se si adottasse il criterio dell’«accordo di molti», bisognerebbe respingere o soffocare le idee nuove e ostacolare le innovazioni e lo sviluppo scientifico e tecnico. E ciò apporterebbe il più grande danno all’edificazione socialista!

La verità alla fine trionfa sempre sulle idee errate; da «opinione di pochi» diventa «consenso comune», «riconosciuto da tutti». Ma ciò richiede sempre molto tempo e avviene attraverso un lungo processo storico. Ci sono voluti parecchi secoli perché la dottrina di Copernico divenisse una verità comunemente ammessa e riconosciuta da tutti. Ciò è particolarmente vero per quelle società dove esistono antagonismi di classe; sempre, quando il problema della verità mette in causa degli interessi di classe, le cose diventano ancora più complicate. A questo punto, infatti, ciò che viene «riconosciuto da tutti» diventa qualcosa di fondamentalmente impossibile, perché ciò che una classe considera come corretto, verità, per un’altra classe è sbagliato. Per parlare del marxismo-leninismo, è una verità oggettiva più volte verificata nella pratica della classe operaia e dalle masse lavoratrici e accettata dalla grande maggioranza del popolo. Ma la borghesia e tutti i reazionari hanno sempre negato il suo carattere di verità.

Prendere il «consenso comune», l’«accordo di molti», e «ciò che è riconosciuto da tutti», come criterio di verità, è completamente sbagliato; anzi, è dannoso. Ciò, infatti, non permette di distinguere correttamente il vero dal falso. Accettando questo criterio, si rischia di fare dell’errore la verità e della verità l’errore. Non si potrebbe garantire lo sviluppo delle scienze, anzi, non si farebbe che ostacolarlo. Il filosofo francese René Descartes (1596-1650) ha giustamente criticato questo criterio di verità. Egli ha scritto nel Discorso sul metodo:

Sebbene la nostra opinione si appoggi all’orientamento generale della gente, nelle circostanze in cui la verità è difficile da scoprire, le preferenze di molte persone non possono servire da testimoni della natura corretta della verità, ma chi scopre la verità è spesso una sola persona, non una moltitudine.[2]

Descartes era un filosofo razionalista, ha proposto un celebre criterio di verità. Considerava che il criterio fondamentale di verità fosse la chiarezza e la distinzione delle idee. Ma quanto al criterio di verità, non andò oltre la sfera della soggettività, perché la chiarezza e la distinzione sono fatti soggettivi. Questo criterio non è meno ingannevole di quello del «consenso comune». È evidente che quando si parla di chiarezza o di confusione, di distinzione o di mancanza di distinzione, è sempre a proposito di concetti e di conoscenze; nello stesso tempo, «chiarezza» e «distinzione» non sono realtà determinate. Ciò che è chiaro e distinto per uno può non esserlo per un altro; ciò che non è chiaro oggi può esserlo domani. È molto «chiaro e distinto», per esempio, che «4 x 5 = 20», chi potrebbe negarlo? Secondo il criterio di Descartes, la verità è questa. Come si potrebbe dubitare della giustezza e della sicurezza di questo criterio? E tuttavia nulla è meno sicuro. Basta riflettere un poco per scoprire che se «4x5 = 20»  è una verità chiara e distinta per l’uomo di oggi, al contrario, nei tempi primitivi, quando gli uomini non sapevano contare, era per essi estremamente difficile capire che «4 x 5 = 20». Allora per essi non era affatto una cosa chiara e distinta. Lo stesso vale per un bambino che non sa contare; non è una cosa facile capire che «4 x 5 = 20». E perciò che riguarda le conoscenze scientifiche specialistiche si deve temere che questo criterio sia ancora più problematico. Molte di queste conoscenze sono molto spesso relativamente chiare e distinte solo per qualcuno; spesso, la maggior parte delle, persone non ha che qualche nozione corrente e generica e a volte molto limitata. La teoria atomica ne è un esempio; tolto qualche specialista, sembra che la gente non abbia affatto una conoscenza chiara e distinta della struttura interna dell’atomo e delle leggi del suo movimento. E si deve temere, anzi, che la maggior parte delle persone non ne abbia alcuna nozione chiara. Se ci si basa sul criterio di Descartes per determinare e valutare queste verità, non si può arrivare che a questo risultato: una stessa questione sarà verità, per quelli che avranno un’idea chiara e distinta, sarà un errore per quelli che non ne avranno; per chi non ha le idee chiare e distinte oggi, ma può averle domani, l’errore diventerà verità. Ciò significherebbe che la verità non sarebbe più oggettiva, ma seguirebbe il movimento dell’apparizione delle idee chiare e distinte nella soggettività delle persone. Verità evidentemente oggettive, come «4x5= 20», la teoria atomica ecc., potrebbero dunque essere proclamate errori non essendo distintamente comprese. Nello stesso tempo, ciascuno potrebbe affermare come verità le più perfette assurdità che gli apparissero in modo chiaro e distinto. Basta riflettere un poco per rendersene conto: la vita offre numerosi esempi di concezioni chiare e distinte che sono degli errori. Tali sono l’esistenza di dio, il carattere inviolabile del sistema della proprietà privata, la perennità del sistema capitalistico ecc. Ci sono alcuni fenomeni «lampanti», come il fatto che il sole sorge all’est, tramonta all’ovest e gira intorno alla terra: è ciò che ciascuno può vedere tutti i giorni, ma è un errore di interpretazione. Se ci si basa sul criterio delle idee chiare e distinte, bisogna affermare che la teoria geocentrica è vera, il che significa far passare l’errore per verità. Lo sviluppo della scienza ha più di una volta rifiutato concezioni che apparivano perfettamente chiare e distinte.

Nella società divisa in classi, per la contraddizione che deriva dalle posizioni e dagli interessi di classe, ogni classe ha il suo proprio modo di valutare la chiarezza e la distinzione. Ciò che è chiaro e distinto per la borghesia non lo è per il proletariato. È perfettamente chiaro e distinto per il proletariato che la classe dei capitalisti esiste solo per lo sfruttamento che esercita su di esso, ma i capitalisti non riconoscono questa verità e giudicano, al contrario, che è la borghesia a far vivere il proletariato. Ecco perché se si adotta il criterio delle idee chiare e distinte, ci si allontanerà dalla verità oggettiva e si creerà la confusione tra il vero e il falso. In effetti questo criterio è il meno chiaro e il meno distinto.

Il marxismo riconosce senza dubbio che la chiarezza e la distinzione dei concetti sono cose necessarie e tanto più se i concetti devono avere un carattere di verità. Ma sarebbe un errore assumere la chiarezza e la distinzione come criterio di verità. Se i veri concetti devono essere chiari e distinti, la chiarezza e la distinzione dei concetti non sono necessariamente verità; insistere solo sulla chiarezza e la distinzione senza tener conto del contenuto dei concetti, senza differenziarli e senza considerare se riflettano correttamente la realtà oggettiva, significa imboccare una strada che porta alla confusione tra l’errore e la verità. Questa strada porta solo al soggettivismo e non è di nessun aiuto per lo sviluppo della verità e della scienza.

Il marxismo ritiene che la premessa essenziale di ogni verità è l’oggettività. La chiarezza e la distinzione sono elementi indispensabili per la verità dei concetti; esse danno maggiore rilievo alla verità oggettiva, ma non sono istanze determinanti. Ciò che è determinante è considerare se riflettono fedelmente la realtà oggettiva. In realtà, se i concetti non sono verità oggettive, la loro distinzione e la loro chiarezza sono illusorie; e, in ultima analisi, non sono né chiariti né distinti. Al contrario, se i concetti sono verità oggettive, possono contemporaneamente mancare di chiarezza e di distinzione, ma la chiarezza e la distinzione alla fine appariranno. Così possiamo dire che adottare la chiarezza e la distinzione come criterio di verità significa cominciare alla fine, significa allontanarsi dalla verità oggettiva.

Abbiamo visto che il criterio di verità dei filosofi utilitaristi era l’«utilità » e l’«efficacia» e si accordava perfettamente con la concezione utilitaristica della verità. Abbiamo spiegato la sua natura soggettiva. I filosofi utilitaristi prendono. infatti l’«Io» come perno e il criterio dell’utilità e dell’efficacia gira attorno all’«Io».. In altri termini, tutto ciò che mi è «utile» o «efficace» è verità, tutto ciò che mi è «inutile» o «inefficace» è errore. E così, secondo questo criterio, i desideri e i bisogni soggettivi dell’individuo sono l’unica misura della verità. Ogni individuo ha bisogni e desideri diversi e perciò ciascuno ha il suo criterio particolare di verità. È molto difficile trovare al mondo due individui i cui bisogni e desideri si accordino in ogni punto, perciò non c’è un unico criterio di verità; la verità è diversa secondo ciascuno; i diversi individui, stando alle differenze di interesse e di utilità, traggono da una stessa realtà conclusioni contrarie. Uno proclama vero ciò che gli è utile e di interesse, un altro dichiara sbagliato ciò che gli è inutile e senza interesse; e secondo il criterio di verità degli utilitaristi, le due opposte conclusioni possono essere ugualmente corrette perché in ogni aspetto ubbidiscono conformemente al criterio di utilità e di interesse. Perciò si può vedere come il criterio utilitarista, nel respingere un criterio oggettivo e unificato della verità, rifiuti in pratica di distinguere nettamente la verità dall’errore. Il criterio dell’utilitarismo non conduce logicamente che a questa conclusione: assurdità secondo la quale la verità oggettiva non esiste.

L’assurdità del criterio utilitaristico è evidente a prima vista: una qualsiasi fantasia può essere qualificata verità e una qualsiasi teoria scientifica può essere qualificata un’assurdità.

Una verità oggettiva è che il socialismo deve necessariamente sostituirsi al capitalismo, ma con il criterio della filosofia utilitaristica, si può negare questa verità perché non è «utile» a tutti; la borghesia, per esempio, la considera inutile. Poiché non serve i «miei interessi», non è una verità! Al contrario, ogni imbroglio o ogni assurdo sofisma che mi è utile, può essere una verità. Il criterio utilitaristico non è dunque un criterio di verità; è proprio il criterio della confusione, inversione di vero e falso, di bianco e nero e negazione della verità.

Il criterio utilitaristico della verità serve interamente gli interessi della borghesia reazionaria, è il nemico del proletariato. Sappiamo molto bene che gli, interessi della borghesia e quelli del proletariato sono antagonistici. I loro interessi non possono accordarsi in nulla; ciò che è utile e vantaggioso alla borghesia è inutile e nocivo per il proletariato, e viceversa, naturalmente. La filosofia utilitaristica è una filosofia «utile» all’imperialismo americano, ma per il proletariato e per le masse lavoratrici non è che una droga. La filosofia marxista è la «buona novella» della rivoluzione proletaria e la borghesia la considera «l’apocalisse». Tutti i dogmi religiosi, come l’immortalità dell’anima e altre simili mistificazioni, sono in realtà delle stravaganze, ma la borghesia reazionaria le propaganda come può e si ostina a presentarle come verità. A prima vista sembrerebbe che il criterio utilitaristico della verità possa essere conveniente ad ambedue le classi, e cioè che sia la borghesia che il proletariato possano servirsene e propagandare ugualmente i propri interessi di classe come verità. Ma non è così. Questa imparzialità è una delle cose più superficiali e più ingannevoli; sostanzialmente essa sta da cima a fondo al servizio della borghesia reazionaria. Sappiamo che il criterio utilitaristico della verità è puramente soggettivo e che le pretese verità che permette di ottenere sono tutte soggettive; ciò significa che nega necessariamente la verità oggettiva. Il criterio è certamente utile alla borghesia reazionaria che può servirsene per far passare il nero per bianco, confondere il vero con il falso, allo scopa di negare la verità oggettiva e opporsi agli obiettivi marxisti. Ciò è evidentemente nocivo per il proletariato. Gli interessi del proletariato esigono una netta distinzione della verità e dell’errore, conducono gli uomini alla conoscenza della verità oggettiva, e il marxismo è una verità oggettiva. Il proletariato non può adottare il criterio dell’utilitarismo; adottarlo significherebbe negare la verità oggettiva, rifiutare il marxismo. Il solo scopo dell’utilitarismo è opporsi alla teoria marxista, negare il carattere di verità oggettiva della scienza marxista, rompere così la fiducia del proletariato nella vittoria della rivoluzione e difendere la causa di tutte le teorie assurde, di tutte le manovre reazionarie della borghesia, come la religione, la filosofia idealista, l’oppressione del popolo lavoratore, l’aggressione ad altre nazioni, lo scoppio di guerre di aggressione ecc. Per tali motivi l’utilitarismo è una filosofia tipicamente imperialistica, impregnata del fetore di putrefazione che la borghesia reazionaria emana.

Qualcuno certamente domanderà: «Ma la verità non è utile?» I principi della matematica, della fisica, della chimica, del darwinismo, del marxismo e di tutte le scienze, non hanno alcuna utilità? Senza dubbio, la verità è utile. Essa gioca un ruolo molto importante nella pratica produttiva e nella pratica della lotta di classe; disconoscere questo punto non sarebbe corretto; ma il nostro problema non è per il momento quello dell’utilità della verità, ma di sapere qual è, in fin dei conti, il criterio della verità; se l’«utilità» può esserne la caratteristica principale. Il marxismo considera utile la verità, ma non considera l’«utile» come il criterio della verità. La verità è tale non perché è utile, ma perché riflette correttamente la realtà oggettiva; la sua utilità non è altro che questo riflesso corretto dell’oggettività. Dal punto di vista utilitaristico, l’utilità di una teoria non consiste nel fatto che deriva da una verità oggettiva, che riflette correttamente la realtà oggettiva, ma esattamente il contrario: il suo carattere di verità gli è conferito dalla sua utilità.

Gli utilitaristi dicono: «L’utile è la verità»; i marxisti dicono: «La verità è utile». Questi due principi si rassomigliano in apparenza; in realtà, sono fondamentalmente opposti. Gli utilitaristi spesso fan prendere lucciole per lanterne; William James ha detto della verità: «Si può dire: “è vero ciò che è utile”, e anche: “è utile ciò che è vero”; queste due frasi significano esattamente la stessa cosa»[3]. William James facendo questa confusione, cerca furtivamente di deformare il problema. Questo gioco di prestigio è inaccettabile sul piano teorico come sul piano logico e ciò che afferma James è falso. Il marxismo ritiene che i pensieri veri sono quelli che riflettono correttamente la realtà oggettiva e che perciò sono essi stessi utili alla pratica. In questo senso possiamo dire che l’utilità è una proprietà inerente alla verità; ciò significa che questo carattere di utilità deve riconoscere come premessa la stessa verità oggettiva. Ciò che il pragmatismo intende per «utilità» non è certamente l’utilità presa in questo senso: è l’utilità soggettiva rapportata al singolo individuo, è una «utilità» il cui senso è la negazione della realtà oggettiva. L’utilitarismo interpreta l’«utilità» in senso assolutamente idealistico. Nell’utilitarismo l’«utilità» non è una proprietà della verità oggettiva, ma il fondamento stesso della verità.

Ecco perché non si può in nessun modo confondere e assimilare la concezione utilitaristica con la concezione marxista della verità, e non è possibile sostituire la prima con la seconda.

In Materialismo ed empiriocriticismo, Lenin ha criticato a fondo il punto di vista che considera l’«utilità» come criterio di verità:

La conoscenza può essere biologicamente utile alla pratica umana, alla conservazione della vita, alla conservazione della specie, solo quando riflette una veda obiettiva, indipendente dall’uomo. Per il materialista, il «successo» della pratica umana dimostra la corrispondenza delle nostre idee con la natura obiettiva delle cose che noi percepiamo. Per il solipsista, il «successo» è tutto ciò che occorre all’io nella pratica, la quale può essere considerata indipendentemente dalla teoria della conoscenza.[4]

Questa critica di Lenin ha smascherato in modo decisivo l’errore del criterio di verità utilitaristico.

In Materialisrno ed empiriocriticismo Lenin ha criticato anche il criterio di verità che fa capo al «principio di economia del pensiero» del machismo.

Il cosiddetto «principio di economia del pensiero», chiamato anche principio del «minimo sforzo», significava che ciò che era «semplice» era la verità. Questo criterio non resiste affatto alla critica. Lenin ha indicato chiaramente la natura soggettivistica di questo «principio di economia del pensiero», colpendone il punto sensibile. Smascherando il sofisma delle teorie di Mach, ha dimostrato che la questione non consisteva affatto nello «sperpero» o nell’«economia del pensiero», ma nella possibilità di riflettere correttamente la realtà oggettiva. Solo quando il pensiero degli uomini riflette correttamente la realtà oggettiva, può essere «economizzato», e il criterio della correttezza di questo riflesso non è altro che la prassi sociale. Lenin scrive:

È più «economico» «pensare» che l’atomo è indivisibile oppure che è composto di elettroni positivi e negativi [...]. Basta porre la questione per vedere fino a qual punto è assurdo e soggettivo applicare qui la categoria dell’economia del pensiero.[5]

Sappiamo bene che quando la scienza deve risolvere un problema, può utilizzare alcuni metodi diversi, tra i quali molto spesso si sceglie il più semplice. In aritmetica, per esempio, per sapere quanto fa «4 x 4», si può utilizzare il metodo dell’addizione «4+4+4+4 = 16», o quello della moltiplicazione «4 x 4 = 16». I due metodi danno lo stesso risultato, ma la moltiplicazione è più semplice.

È chiarissimo che sul piano metodologico questa semplicità è una delle manifestazioni della verità, ma non concerne la natura stessa della verità. Il machismo isola questa manifestazione, la esagera facendone un assoluto, l’unica misura della verità. Questo significa seguire la stessa strada dell’idealismo. Il machismo ha confuso due problemi: l’uno è quello di sapere se una teoria riflette la realtà oggettiva, se è dunque una verità oggettiva; l’altro consiste nel sapere se il metodo da adottare concretamente per raggiungere la verità oggettiva è o no caratterizzato dalla semplicità. Sono due problemi differenti. È evidente che il problema metodologico non può sostituirsi a quello della verità; in realtà, se una teoria non riflette fedelmente la realtà oggettiva, non è una verità oggettiva. Ogni metodo semplice non porta certo a cogliere la verità. Ecco perché il machismo, che prende come criterio di verità il «principio di economia del pensiero», non fa che negare la verità oggettiva e si inerpica per i sentieri del soggettivismo e dell’idealismo, secondo il criterio per il quale la «semplicità» e l’«economia» sono la verità stessa; la questione di sapere se la realtà oggettiva è riflessa correttamente, diventa una cosa senza importanza. La teoria dell’indivisibilità dell’atomo è più semplice della teoria della sua divisione in elettroni positivi e negativi; così l’indivisibilità dell’atomo sarebbe una verità e la sua divisione sarebbe un’assurdità; ma una simile conclusione volterebbe le spalle alla scienza. Inoltre, secondo questo criterio, a poco a poco diventerebbe difficile distinguere l’errore e la verità e i dogmi e le altre mistificazioni della religione potrebbero passare per verità. Infatti, il mito della creazione del mondo da parte di dio è più «semplice», «meno dispendioso» e più «economico», per il pensiero, della concezione scientifica secondo la quale l’universo si forma nel corso di un lungo processo di sviluppo. È quindi evidente che il «principio dell’economia del pensiero» è anche un’assurdità.

Nella storia della filosofia ci sono stati altri sedicenti criteri di verità. Per esempio, nella storia della filosofia cinese, il filosofo Yang Xiong (53 a.C. - 18 d.C.) scrisse nella sua opera I discorsi modello [Fa Yan]:

Ognuno considera vero ciò che lui stesso ritiene tale e considera falso ciò che da lui è creduto tale. Su chi basarsi per fissare una norma corretta?

Yang Xiong pone qui il problema del criterio della verità, La sua risposta è questa:

Quando la natura è in disordine, è necessario rimettersi al cielo. Quando ciò che dice la gente è confuso, bisogna rimettersi alle parole dei saggi.

Ciò significa prendere la parola dei saggi come criterio del vero e del falso. È evidente che qui si tratta di un criterio di ordine soggettivo.

Li Zhi (1527-1602) ha avanzato un punto di vista molto audace: rifiutò il criterio proposto da Yang Xiong e osò dire che «non si poteva prendere per vero e falso ciò che era stato il vero e il falso per Confucio»; ma non seppe proporre un’interpretazione personale del criterio della verità e adottò il criterio di Wang Yangming. Quest’ultimo disse a questo proposito: «Considerare come vero e falso quello che è vero e falso nel mio spirito »; il che è un criterio soggettivistico.

In conclusione, questi filosofi assunsero tutti un criterio soggettivo di verità e rifiutarono un criterio di ordine oggettivo. I loro criteri non permettono di tracciare realmente una corretta linea di divisione tra la verità e l’errore e sono quindi errati. Sembrano presentare fra di loro qualche differenza, ma queste differenze stanno tutte nella sfera della soggettività e tutti rifiutano nello stesso modo il criterio dell’oggettività. Essi hanno sempre separato la verità dalla prassi, negando che la prassi sociale sia il criterio di verità.

Perché questo? Certamente le condizioni storiche e il limitato sviluppo della produzione nel loro tempo limitavano l’orizzonte di questi filosofi. Ma la ragione più profonda di questo soggettivismo è il fatto che tutti questi filosofi rappresentavano gli interessi delle classi sfruttatrici. Tenendosi lontani dal popolo e ignorando tutto della pratica produttiva, non comprendevano il ruolo della prassi nella conoscenza umana. Ai loro occhi la pratica produttiva era una cosa vile e bassa e solo la riflessione e il pensiero teorico sembravano loro un’attività eletta. Anche un grande filosofo materialista come Feuerbach, come dissero Marx ed Engels, «considerava degne di un uomo integro solo le attività teoriche»[6].

Per la prima volta nella storia, Marx ed Engels hanno risolta scientificamente il problema del criterio della verità sulla base della teoria della verità oggettiva. Essi hanno de terminato che la prassi sociale è il criterio della verità.

3. La prassi è il criterio della verità.

Marx ha scritto nelle Tesi su Feuerbach:

La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è questione di teoria, bensì una questione pratica. Nell’attività pratica l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non realtà di un pensiero che si isola dalla pratica è una questione meramente scolastica.[7]

Marx affermava che il criterio della prassi sociale è in perfetto accordo con la concezione marxista della verità. Egli ha superato la contraddizione tra la teoria della verità oggettiva del materialismo antico e i suoi criteri soggettivi di verità e sviluppato fino alle ultime conseguenze la teoria della verità oggettiva. Marx ha scoperto che, poiché la teoria della verità oggettiva considera la verità come l’accordo del pensiero con la realtà oggettiva, il criterio della verità deve essere qualcosa che permetta di verificare questo accordo, e che, di conseguenza, non potrebbe trovarsi nel campo della soggettività. In realtà, la soggettività fa parte del campo del pensiero ed è impossibile verificare attraverso il solo pensiero l’accordo di questo con la realtà. Continuando con questo metodo si finisce per perdersi nella filosofia Scolastica che va dal concetto al concetto. Marx ha saputo sottrarsi all’influenza delle concezioni che ricercavano il criterio della verità nella sfera soggettiva e scoprire che la prassi era il criterio della verità. È questo il risultato più importante della concezione marxista della verità che ha trasformato in senso rivoluzionario la teoria della verità oggettiva, eliminando tutti i sofismi che sostenevano un criterio soggettivo della verità.

Questa scoperta di Marx non è stata certamente il frutto di una semplice deduzione logica; essa ha delle profonde radici storiche e di classe. Ha la sua origine nell’allargamento considerevole della dimensione e della portata delle attività produttive e in particolare nel fatto che Marx ed Engels sono stati i pensatori del proletariato. Si sa infatti che il proletariato non è soltanto la classe più rivoluzionaria, ma anche quella che è più direttamente legata alla produzione. Quando si dice che il proletariato ha la responsabilità storica di trasformare il mondo, significa che non ha solamente bisogno di conoscere il mondo, ma anche di trasformarlo. Per questo la prassi ha un’importanza del tutto particolare per il proletariato.

Il proletariato che porta avanti tutti i giorni la lotta per la produzione, la lotta di classe e la sperimentazione scientifica, sperimenta quotidianamente il rapporto tra la conoscenza e la prassi, tra la verità e la prassi. In realtà il fatto che il pensiero e la conoscenza si accordino o no con la realtà oggettiva, ha una delle ripercussioni più efficaci nella prassi. Tutti i pensieri che si accordano con la realtà oggettiva permettono di ottenere dei successi, al contrario quelli che non si accordano con questa conducono al fallimento. Questo vuol dire che la prassi è stata presa da molto tempo come misura della verità del pensiero, in maniera spontanea, nelle attività pratiche. Questa è una cosa chiara nella vita stessa. Quando i proletari conducono una lotta contro la borghesia, se agiscono isolatamente o in maniera dispersiva, la loro lotta fallisce; vince se essi agiscono unanimemente e nell’unità. Per questo essi capiscono molto facilmente la verità della parola d’ordine: «Proletari di tutto il mondo unitevi». È così che si può giudicare costantemente, nella prassi, la verità e l’errore. Marx, come rivoluzionario e pensatore del proletariato, ha portato a un livello teorico questo criterio della prassi, utilizzato spontaneamente tante e tante volte dal proletariato, e ne ha fatto un criterio che permette di procedere coscientemente alla verifica della verità.

Una volta determinato questo criterio della prassi, si è avuto un metro per distinguere l’errore e la verità, una regola sicura per giudicare il vero e il falso. Il problema è adesso molto chiaro: la verità di un’idea o di una teoria non può essere determinata da chissà quale sentimento soggettivo, ma dal suo risultato oggettivo nella prassi sociale. Mao ha scritto:

Non c’è che una verità: sapere se la si è scoperta o no non dipende da vanterie soggettive, ma dalla prassi oggettiva. Solo la pratica rivoluzionaria di milioni di uomini è il metro per misurare la verità.[8]

La prassi è il nemico giurato di tutte le assurdità e di tutte le mistificazioni. I sofismi e le mistificazioni non resistono ai colpi inferti dalla verifica della prassi, come scrisse Engels:

Quelli che confutano nella maniera più decisiva le arguzie e le scappatoie di questi e d’altri filosofi, non sono altro che la prassi, la sperimentazione e il lavoro.[9]

Tutti gli idealisti si accaniscono con tutti i mezzi ad attaccare il criterio della prassi, manifestando così il loro terrore per la sua forza e la sua efficacia.

Ogni verità è provata dalla prassi; si può illustrarlo con alcuni esempi. In astronomia, dopo la scoperta di Urano alla fine del XVIII secolo, la sua posizione rivelata dall’osservazione e quella ottenuta con i calcoli non concordavano, e lo si cercò per più di quarant’anni. Numerosi astronomi pensavano che esistesse un altro pianeta al di là della sua orbita, e che la forza d’attrazione di questo pianeta lo facesse scostare dall’orbita corrispondente ai calcoli. Ma si trattava solo di un’ipotesi e non si poteva decidere in maniera definitiva se costituisse una verità oggettiva. Fu soltanto nel 1845 che l’astronomo francese Urbain Leverrier (1811-1877) calcolò la posizione di questo nuovo pianeta, scrivendone nel settembre 1846 al dottor Johann Galle (1812-1910) dell’Osservatorio di Berlino. La sera stessa del giorno in cui ricevette la lettera, Galle si mise a cercare questo pianeta. Trovò una stella la cui posizione non si allontanava più di un grado dalla longitudine calcolata da Leverrier. La sera seguente notò che si era un po’ spostata, il che dimostrava che si trattava senz’altro di un pianeta: veniva così scoperto Nettuno. Si era così ottenuta con la prassi una prova della conoscenza già acquisita di questo nuovo pianeta, e questa conoscenza era diventata una verità.

Si può prendere anche l’esempio del globo terrestre. Molto presto nell’antichità, alcuni supposero che la terra fosse sferica. Successivamente si accumularono nuovi argomenti in favore di questa teoria, quali il fatto che guardando arrivare da lontano una nave, questa non sorgeva tutta d’un colpo dalla linea dell’orizzonte, ma appariva a poco a poco. Ugualmente, allontanandosi, spariva progressivamente dietro la linea dell’orizzonte. Ci si accorse anche che volendo guardare lontano, in un vasto spazio dove l’orizzonte fosse libero, bisognava salire su una collina, su un grande albero o su qualunque altro luogo elevato. Ciò mostra la curvatura della terra senza la quale tali fenomeni sarebbero impossibili. Ma la teoria della sfericità del globo terrestre subì gli attacchi della religione perché era in compatibile con le concezioni religiose.

Prima che la sfericità della terra fosse provata, i difensori e i detrattori di questa concezione polemizzarono per un lunghissimo periodo. Bisognò aspettare che Magellano compisse, dal 1518 al 1522, il primo periplo attorno alla terra perché la teoria trovasse una prova definitiva. Da allora non fu più possibile dubitarne e la teoria della sfericità della terra divenne una verità oggettiva provata nella prassi.

Nelle scienze sociali, la prassi è ugualmente il criterio che permette di verificare la verità; il marxismo e il leninismo sono una verità oggettiva, e ciò è stato molte volte dimostrato nella prassi. Una prassi rivoluzionaria prolungata ha dimostrato che il pensiero di Mao Zedong era una verità oggettiva. Agli inizi potevano sussistere dubbi sul carattere di verità oggettiva del pensiero di Marx, di Lenin, o di Mao Zedong; ma è stato dimostrato dal corso stesso dello sviluppo della prassi sociale, e tutti i dubbi persero il minimo fondamento. Il pensiero di Mao Zedong dovette sopportare gli attacchi di ogni specie di opportunismi, ma fu la prassi che in fin dei conti risolse la questione. In effetti, la linea opportunistica causò ogni volta gravi danni alla rivoluzione cinese, mentre il pensiero di Mao Zedong la conduceva di vittoria in vittoria. Le grandi vittorie della rivoluzione di nuova democrazia, della rivoluzione socialista e della costruzione del socialismo, mostrano pienamente che il pensiero di Mao Zedong è una verità incrollabile.

Si può vedere attraverso questi esempi, si tratti di scienze della natura o delle scienze sociali, che ogni verità è ottenuta sulla base della prassi; ed è la prassi, che prova il loro carattere di verità, a spingere la verità verso uno sviluppo continuo.

Ma perché la prassi può essere il criterio di verità?

Ciò è determinato dal suo stesso carattere. Il materialismo considera che la verità sia l’accordo del pensiero con la realtà oggettiva e il criterio della verità deve poter sperimentare questo accordo, verificare necessariamente le caratteristiche del pensiero e della realtà; solo la prassi può farlo. La prassi sociale degli uomini è un fatto soggettivo in relazione all’oggetto; è l’attività che trasforma il mondo oggettivo. Le sue caratteristiche sono, da un lato, un’attività cosciente che si stabilisce degli obiettivi da raggiungere guidata da pensieri determinati; dall’altro lato, costituisce una trasformazione del mondo oggettivo. Cioè, la prassi sociale collega il pensiero al mondo oggettivo. La prassi sociale è guidata da pensieri determinati, e ciò costituisce il suo aspetto soggettivo. Nello stesso tempo il suo aspetto e i suoi risultati sono realtà oggettivamente esistenti e in ciò consiste il suo aspetto oggettivo. Se questa prassi, guidata dal pensiero, consegue i risultati oggettivi che si era prefissata, si manifesta immediatamente la correttezza del pensiero che lo dirige. In caso contrario, si manifesta l’erroneità di questo pensiero. Come ha detto Mao:

La verità di una conoscenza o di una teoria non è determinata da una valutazione soggettiva, ma dai risultati oggettivi della prassi sociale.[10]

Questa è una caratteristica esclusiva della prassi. Essa svolge il ruolo di unire completamente, in uno stesso processo, il pensiero e l’essere, la soggettività e l’oggettività. Questa funzione comprende due aspetti distinti e uniti tra loro: il primo è che i fenomeni, oggettivi nella pratica, si manifestano nel pensiero; il secondo è che i pensieri dell’uomo, verificati nella pratica, sono in accordo con i fenomeni oggettivi. Il primo significa che si conosce il mondo passando attraverso la pratica; il secondo significa che si verifica la conoscenza attraverso la pratica. Per queste ragioni possiamo dire che la pratica sociale è il fondamento della conoscenza e il criterio della verità. Ora trattiamo solo del criterio della verità, lasciando un po’ da parte il fondamento della conoscenza; ma non è certo di minore importanza.

Se diciamo che la prassi è un fatto soggettivo in relazione all’oggetto, perché diciamo anche che il criterio della prassi è un criterio oggettivo? Il discorso sembrerebbe contraddittorio, ma quando diciamo che la prassi sociale è il criterio della verità, indichiamo principalmente i risultati oggettivi della prassi. Tali risultati della prassi sono realtà esistenti oggettivamente. Che la prassi comporti per sua stessa natura un aspetto cosciente o soggettivo, non modifica la natura oggettiva dei suoi risultati. Ecco perché il criterio della prassi è il criterio oggettivo della verità.

Se c’è il criterio della prassi, c’è anche il criterio oggettivo di verità che permette di valutare e di distinguere correttamente la verità e l’errore. Il criterio della prassi offre le possibilità più ricche e più complete per estirpare radicalmente le teorie assurde e per sviluppare rapidamente la scienza. La prassi è imparziale e giusta; è l’arbitro implacabile che giudica le opinioni e le idee di tutti senza parzialità. Non parteggia né per il punto di vista della maggioranza, né per quello della minoranza; non si inchina di fronte «all’autorità del prestigio» e non disprezza l’opinione della gente comune. Rende giustizia a tutti; di fronte ad esso tutte le opinioni passano un esame rigoroso. L’opinione che non resiste all’esame è giudicata errata e poco importa chi l’abbia proposta. Quelle che passano vittoriosamente l’esame sono le sole giudicate degne del nome di verità.

È chiarissimo che questo criterio è molto importante per lo sviluppo, della scienza; in effetti, non solo testimonia la verità delle opinioni di molti o di pochi notabili, ma garantisce anche la verità delle opinioni che possono essere di una piccola minoranza o di un uomo comune. Lo sviluppo della scienza mostra proprio che le scoperte tecniche o la comparsa di nuove idee sono per lo più il risultato di una piccola minoranza o di uomini comuni.

La prassi è un criterio sicuro per verificare la verità. Ma la prassi stessa è in sviluppo, e in ogni fase di tale sviluppo contiene un aspetto limitato e relativo. Scrive Lenin:

Certo, non si deve dimenticare che il criterio della pratica, in sostanza, non può mai confermare o confutare completamente una rappresentazione umana qualunque essa sia. Anche questo criterio è talmente «indeterminato» da non permettere alle conoscenze dell’uomo di trasformarsi in un «assoluto»; ma nello stesso tempo è abbastanza determinato per permettere una lotta implacabile contro tutte le varietà dell’idealismo e dell’agnosticismo.[11]

In questo passaggio Lenin mostra l’aspetto relativo e l’aspetto assoluto del criterio della prassi. Il criterio della prassi è l’unità dell’assoluto e del relativo.

Il carattere relativo del criterio della prassi significa che la prassi, considerata nelle fasi del suo sviluppo, presenta in ogni momento determinati limiti. A causa di questi limiti, non può provare o negare in modo incondizionato e assolutamente completo le diverse concezioni e le diverse teorie. Nelle scienze numerosi esempi potrebbero mostrare questo carattere relativo della prassi. Ad esempio, la teoria atomica: fu proposta molto presto nella Grecia antica, ma non era possibile provarla, dato il livello troppo primitivo della pratica scientifica; solo nell’epoca moderna, attraverso lo sviluppo considerevole della produzione, è stato possibile provarla. Oggi, il problema dell’esistenza del genere umano su altri corpi celesti, oltre che sulla terra, non può essere risolto a causa del livello attuale della pratica. Così dunque, una teoria provata nella prassi è nello stesso tempo di natura relativa perché la sua prova è data da una prassi limitata. È molto importante riconoscere questo carattere relativo del criterio della prassi. Da un lato, ci può impedire l’ipostasi della conoscenza umana nell’assoluto — cioè la trasformazione di una verità sostanzialmente relativa in verità assoluta e immutabile — d’altro lato, ciò può prevenire l’atteggiamento che consiste nel negare, in modo semplicistico, verità che la prassi attuale non può provare, ma che la prassi futura potrà certamente dimostrare. in ogni caso, riconoscere questa relatività non può che giovare allo sviluppo della scienza; in effetti, ipostatizzare nell’assoluto conoscenze relative, oppure rifiutare nuove teorie che la prassi non può immediatamente provare, costituisce sempre un ostacolo al progresso scientifico. Abbiamo visto come le nuove teorie scientifiche siano spesso per lunghi anni nell’impossibilità di poter trovare la loro prova nella prassi, e come la prassi subisca molto spesso ripetuti fallimenti. Se del criterio della prassi se ne fa un assoluto e lo si considera in modo semplicistico, si potranno negare o rifiutare teorie nuove. Ciò è particolarmente vero nella prassi della lotta di classe. I successi della rivoluzione non dipendono solo dalla giustezza della teoria o della politica attuata; sono anche determinati dal rapporto delle forze di classe in campo. Se le forze della classe rivoluzionaria sono temporaneamente deboli, la rivoluzione probabilmente subisce delle sconfitte. Ma questi fallimenti temporanei non possono provare che la teoria e la politica rivoluzionaria sono errate. Mao ha indicato con profondità:

In generale è giusto ciò che riesce, sbagliato ciò che fallisce; questo è vero soprattutto nella lotta dell’uomo contro la natura. Nella lotta sociale, le forze che rappresentano la classe avanzata subiscono a volte delle sconfitte, non perché abbiano idee sbagliate, ma perché, nel rapporto delle forze in lotta, esse sono temporaneamente meno potenti delle forze della reazione; possono essere temporaneamente sconfitte, ma finiranno sempre per trionfare.[12]

Il marxismo indica chiaramente la relatività del criterio della prassi perché le nuove teorie vengano affrontate con tutta la serietà necessaria; se una nuova teoria ha fondamenti reali, non si tratta di approvarla o rifiutarla semplicemente con la prassi attuale.

Riconoscere la relatività del criterio della prassi non è in opposizione con il carattere assoluto del criterio di verità. La dialettica considera che il suo aspetto relativo e il suo aspetto assoluto siano inseparabili l’uno dall’altro. C’è l’assoluto nel relativo; non vederne che l’aspetto assoluto e negarne l’aspetto relativo, assolutizzare la conoscenza è nocivo. Ma non vederne che l’aspetto relativo e negarne l’aspetto assoluto può portare a negare la verità oggettiva e a sprofondare nell’idealismo e nell’agnosticismo; anche questo è nocivo. Il criterio della prassi, in una determinata fase, non sarebbe in grado di provare o rifiutare completamente tutte le concezioni. Ma tutte le concezioni non possono essere giudicate vere o false, e raggiungere la verità oggettiva, che attraverso la prova della prassi, e questa è una verità assoluta e incondizionata. Le verità provate dalla prassi hanno il loro aspetto relativo, ma implicano anche una parte irrefutabile di assoluto. La prassi, considerata nei limiti propri delle fasi del suo sviluppo, non è in grado di respingere o provare ogni concezione; ma, continuando a svilupparsi, può effettivamente respingere o provare ogni concezione.

Ciò significa che, se la prassi attuale non ha mezzi di provare la validità di una concezione, la prassi ulteriore lo potrà certamente fare. La verità viene verificata sempre nella prassi; al di fuori della prassi non potrebbe esistere verità oggettiva. Per questo possiamo dire che riconoscere il carattere assoluto del criterio della prassi significa, nello stesso tempo, riconoscere la stessa esistenza della verità oggettiva; e questo permette di tracciare una linea di demarcazione netta con ogni forma di idealismo e di agnosticismo.

È necessario comprendere dialetticamente il criterio del la prassi; solo una comprensione dialettica può permettere di distinguere chiaramente la verità e l’errore e garantire lo sviluppo delle verità scientifiche.

NOTE

[1] Traduzione italiana del II capitolo del libro di Zhang Enci: Conoscenza e verità redatta sull’edizione originale cinese, stampata a Pechino dalla Casa Editrice del popolo nel gennaio 1964 e ristampata nel maggio del 1972.

Tra le traduzioni esistenti citiamo:

Connaissance e verité, Nuoveau bureau d’édition, Paris

Conoscenza e verità, Collettivo editoriale 10/16 Milano

Conoscenza e verità secondo la teoria del riflesso, edizione Lavoro Liberato

[2] Descartes, Discorso sul metodo (parte II); Libreria editrice commerciale, Pechino, p. 13.

[3] L’utilitarismo, Libreria editrice commerciale, Pechino, p. 136.

[4] Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, Casa editrice del popolo, Pechino 1970, p. 13; «Opere scelte», Edizioni Progress, Mosca 1973, vol- III, p. 111 (c.II § 6).

[5] Ibidem, p. 164; ibidem, p. 137 (c- III, § 4).

[6] Marx-Engels, Opere complete, ed. cinese, voI. III, p. 3; «Scritti di Marx-Engels del primo periodo teorico-pratico 1843-1852, nella scelta del Partito comunista cinese », Tesi su Feuebach, Lavoro Liberato, Milano 1975, p. 84.

[7] Ibidem, pp. 3-4; ibidem, pp. 84-85.

[8] Mao Zedong, Sulla nuova democrazia, in «Opere scelte», Casa editrice in lingue estere, Pechino 1971, vol II, pp. 355-402.

[9] Marx-Engels, Opere scelte, ed. cinese, voI. Il, p. 368.

[10] Mao Zedong, Sulla pratica, in «Opere scelte», Casa editrice in lingue estere, Pechino 1969, vol. I, pp. 313-28; p. 315.

[11] Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, ed. cinese cit., p. 134; ed. di Mosca, p. 114 (c. II, § 6).

[12] Mao Zedong, Da dove provengono le idee giuste?, in «Antologia», Edizioni Oriente, Milano 1968, p. 439.