IL CAPITALE LIBRO III PREFAZIONE Finalmente mi è concesso di offrire al pubblico questo terzo Libro dell’opera principale di Marx, la conclusione della parte teorica. All’atto della pubblicazione del secondo Libro, nel 1885, pensavo che il terzo avrebbe presentato solo delle difficoltà tecniche, ad eccezione, tuttavia, di alcune sezioni molto importanti. E così era in realtà: però non avevo allora alcuna idea della difficoltà che appunto queste sezioni, che rappresentano le parti più importanti dell’opera, mi avrebbero riservato, né degli altri ostacoli che dovevano tanto ritardare la pubblicazione del libro. Innanzitutto e più di tutto mi disturbò una continua debolezza della vista, che per anni ridusse al minimo il tempo che potevo dedicare allo scrivere e tuttora solo eccezionalmente mi permette di adoperare la penna alla luce artificiale. Sopravvennero poi altri lavori dai quali non potevo esimermi: edizioni nuove e traduzioni di precedenti lavori di Marx e miei e quindi revisioni, introduzioni, integrazioni, che spesso richiedevano studi particolari, ecc. In primo luogo l’edizione inglese del primo Libro, del cui testo sono in ultima istanza personalmente responsabile, e che di conseguenza ha assorbito molto del mio tempo. Chi ha in qualche misura seguito il colossale sviluppo della letteratura socialista internazionale durante gli ultimi dieci anni e specialmente il numero delle traduzioni di prece denti lavori di Marx e miei, mi darà ragione se mi rallegro del fatto che è molto limitato il numero delle lingue per le quali io potevo essere utile al traduttore e avevo quindi il dovere di non sottrarmi a una revisione del suo lavoro. Lo sviluppo della letteratura socialista, però, era solo un sintomo del corrispondente sviluppo dello stesso movimento operaio internazionale. E questo mi impose nuovi doveri. Dai primi giorni della nostra attività pubblica, una buona parte del lavoro di contatto fra i movimenti nazionali dei socialisti e degli operai nei diversi paesi ricadde su Marx e su di me: questo lavoro aumentò col rafforzarsi del movimento nel suo complesso. Mentre però, anche in questo settore, Marx si era assunto, fino alla sua morte, l’onere maggiore, da allora In poi il lavoro sempre crescente ricadde solo su di me. È vero che frattanto i rapporti diretti fra i singoli partiti operai nazionali sono diventati la regola e lo diventano fortunatamente sempre di più; ciò nondimeno si ricorre tuttora al mio aiuto, molto più spesso di quanto non mi farebbe piacere nell’interesse dei miei lavori teorici. Chi, come me, è stato attivo per oltre cinquant’anni in questo movimento, considera i lavori che ne derivano un dovere irrecusabile e da compiere senza indugio. Come nel sedicesimo secolo, così nella nostra età movimentata, si trovano teorici puri nel campo degli interessi pubblici solo dalla parte della reazione ed appunto perciò questi signori non sono più dei veri teorici, ma semplici apologeti della reazione stessa. La circostanza che io abito a Londra comporta che tali rapporti di partito si svolgano durante l’inverno per lo più in forma epistolare, mentre d’estate, in gran parte, a mezzo di contatti per.. sonali. Di qui, e insieme dalla necessità di seguire gli sviluppi del movimento in un numero di paesi continuamente crescente e in un. complesso di organi di stampa in ancor più rapido aumento, è derivata per me l’impossibilità di compiere altro che in inverno, e specialmente nei primi tre mesi dell’anno, lavori che non tollerino interruzioni. Quando si sono lasciati indietro i settant’anni, le fibre cerebrali lavorano con una certa sgradevole lentezza: non si superano più, con la stessa facilità e prontezza di prima, interruzioni in difficili lavori teorici. Ne venne che il lavoro di un inverno, se non portato completamente a termine, era per la maggior parte da rifare ex novo nell’inverno seguente, ciò che si verificò specialmente per la più difficile sezione, la quinta. Come il lettore rileverà dalle informazioni seguenti, il lavoro di redazione fu essenzialmente diverso da quello fatto per il secondo Libro. Per il terzo infatti esisteva solo un primo abbozzo, per di più estremamente lacunoso. Normalmente la parte iniziale di ogni singola sezione era elaborata con una certa cura e rifinita anche stilisticamente. Però quanto più si procedeva, tanto più la stesura diventava lacunosa e frammentaria, tanto più conteneva digressioni su questioni collaterali emerse nel corso dell’indagine, per le quali la sistemazione definitiva veniva rimessa a un successivo riordinamento della materia, tanto più lunghi e intricati diventavano i periodi nei quali si esprimevano i pensieri scritti in statu nascendi. In più punti la grafia e l’esposizione tradiscono anche troppo chiaramente il sopravvenire e i graduali sviluppi di quelle crisi derivanti da eccesso di lavoro, che resero in un primo tempo il lavoro autonomo sempre più difficile per l’Autore e lo costringevano poi di quando in quando ad interromperlo totalmente. Né ci si deve meravigliare. Fra il 1863 e il 1867 Marx aveva non solo preparato in abbozzo i due ultimi libri del Capitale e in stesura definitiva il primo, ma anche svolto il lavoro gigantesco inerente alla fondazione e allo, sviluppo dell’Associazione internazionale degli operai. In conseguenza però già nel 1864 e ‘65 apparvero sintomi molto seri di quei disturbi cui si deve se Marx non ha potuto provvedere lui stesso alla stesura definitiva del II e del III Libro. Il mio lavoro si iniziò con la dettatura dell’intero manoscritto per trarne dall’originale, che spesso era difficile da decifrare anche per me, una copia leggibile, il che mi portò via abbastanza tempo. Solo dopo ciò poté cominciare il vero e proprio lavoro di redazione, che ho limitato all’indispensabile, mantenendo il più possibile il testo del primo abbozzo ovunque la chiarezza lo permetteva, ed evitando di eliminare singole ripetizioni ove esse, come di solito in Marx, affrontano la materia da altri lati oppure la riespongono in forma diversa. Dove i miei mutamenti e aggiunte non sono di carattere puramente redazionale, oppure dove ho dovuto rielaborare il materiale documentario fornito da Marx in conclusioni mie, seppure mantenute il più possibile nello spirito di Marx, tutto il passo è posto in parentesi quadre (in questo lavoro è racchiuso tra parentesi rotonde) e contrassegnato con le mie iniziali. Per le mie note a piè di pagina mancano, qua e là, le parentesi: dove però alla fine stanno le mie iniziali sono io il responsabile per tutta la nota. Nel manoscritto, come è naturale in un primo abbozzo, si trovano numerosi riferimenti a punti da svilupparsi in seguito, senza che queste promesse vengano sempre mantenute. Io li ho lasciati perché mostrano le intenzioni dell’Autore riguardo alla futura elaborazione. Ed ora in particolare. Per la prima sezione il manoscritto base era utilizzabile solo con grandi limitazioni. Subito all’inizio è esposto l’intero computo matematico del rapporto fra saggio del plusvalore e saggio del profitto (che costituisce il nostro capitolo 3): mentre la materia sviluppata nel nostro capitolo 1 vi è trattata solo in seguito e occasionalmente. In proposito furono di aiuto due inizi di un rifacimento, ciascuno di 8 pagine in folio: però anche questi non sono elaborati in modo de! tutto organico. Da essi è stato ricavato l’attuale capitolo 1. Il capitolo 2 è tratto dal manoscritto base. Per il capitolo 3 vi era tutta una serie di elaborazioni matematiche incomplete, ma anche un intero quaderno, quasi completo, scritto negli anni dopo il 1870, che espone mediante equazioni il rapporto tra saggio del plusvalore e saggio del profitto. Il mio amico Samuel Moore, che ha curato anche la maggior parte della traduzione inglese del primo Libro, si assunse l’elaborazione di questo quaderno in vece mia, lavoro per il quale, da vecchio matematico di Cambridge, era molto più adatto di me. Dal suo riassunto, e utilizzando saltuariamente il manoscritto base, io ho poi preparato il capitolo 3. Del capitolo 4 esisteva solo il titolo. Poiché però l’oggetto in esso trattato, Effetti della rotazione sul saggio del profitto, è di importanza determinante, l’ho elaborato io stesso, motivo per cui l’intero capitolo è nel testo posto tra parentesi. Ne risultò che, di fatto, la formula del capitolo 3 per il saggio del profitto doveva subire qualche modificazione per essere generalmente valida. A partire dal quinto capitolo il manoscritto base è l’unica fonte per il resto della sezione, benché anche qui si siano rese necessarie molte modificazioni e integrazioni. Per le tre sezioni che seguono potei attenermi quasi interamente, a prescindere dallo stile della stesura, al manoscritto originale. Singoli punti, per lo più riferentisi all’influsso della rotazione, dovettero essere elaborati in armonia con il capitolo 4 da me inserito: anch’essi sono posti fra parentesi e segnati con le mie iniziali. La sezione V, che tratta il soggetto più complicato dell’intero Libro, presentò le maggiori difficoltà. E proprio a questo punto Marx era stato sorpreso da una delle gravi crisi cui abbiamo accennato. Qui non esiste dunque un abbozzo completo e neppure uno schema i cui contorni fossero da completare, bensì solo un inizio di stesura che più di una volta sbocca in un disordinato cumulo di notizie, osservazioni, materiali in forma di estratto. Dapprima cercai di completare questa parte, come in certo qual modo mi era riuscito con la prima, riempiendo i vuoti ed elaborando i frammenti solo accennati, in modo che essa almeno offrisse approssimativamente quello che l’Autore aveva pensato di dare. Ho fatto almeno tre tentativi, tutti falliti, e il tempo così perso è una delle cause principali del ritardo. Finalmente mi accorsi che per questa via non sarei riuscito. Avrei dovuto rivedere tutta la voluminosa letteratura sull’argomento per ricavarne, alla fin fine, qualcosa che non sarebbe stato il libro di Marx. Non mi rimase altro che rassegnarmi ad un metodo sbrigativo, cioè limitarmi ad ordinare il più possibile quanto esisteva e ad aggiungere solo le integrazioni assolutamente indispensabili. E così nella primavera del 1893 terminai il lavoro principale per questa sezione. Dei singoli capitoli, quelli dal 21 al 24 erano nella loro parte essenziale elaborati. I capitoli 25 e 26 richiesero un vaglio della documentazione e l’interpolazione di materiale che si trovava in altri punti. I capitoli 27 e 29 poterono essere tratti quasi completamente dal testo del manoscritto, mentre il capitolo 28 dovette qua e là essere diversamente raggruppato. Con il capitolo 30 però cominciarono le vere e proprie difficoltà. Da qui in avanti si dovette mettere nel giusto ordine non solo il materiale di documentazione, ma altresì il filo conduttore del ragionamento, interrotto ogni momento da frasi incidentali, digressioni ecc. e spesso proseguito in altri punti del tutto incidentalmente. Così, per mezzo di spostamenti e di eliminazioni di punti, che furono utilizzati altrove, venne portato a termine il capitolo 30. Il capitolo 31 era di nuovo elaborato con maggiore coesione. Ma poi seguiva nel manoscritto un lungo pezzo intitolato La confusione, composto di semplici estratti dalle relazioni parlamentari sulle crisi del 1848 e 1857, dove le dichiarazioni di ventitré uomini d’affari e scrittori di questioni economiche, specialmente su denaro e capitale, deflusso dell’oro, superspeculazione ecc. sono raggruppate e qua e là commentate umoristicamente. Ivi, o dagli interpellanti o da chi replicava, sono rappresentate pressoché tutte le opinioni allora correnti sul rapporto tra denaro e capitale, e Marx intendeva trattare criticamente e satiricamente la « confusione », qui risultante, su tutto ciò che sul mercato monetario è il denaro e ciò che è il capitale. Dopo molti tentativi, mi sono convinto che la preparazione di questo capitolo è impossibile: il materiale, specialmente quello postulato da Marx, è stato usato là dove si trovò per esso una connessione. Segue a ciò, passabilmente in ordine, quanto da me collocato nel capitolo 32, ma subito dopo viene — mescolata con lunghe o brevi osservazioni dell’Autore — una nuova massa di estratti dalle relazioni parlamentari su tutti i possibili argomenti toccati in questa parte. Verso la fine gli estratti ed i commenti si concentrano sempre più sul movimento dei metalli monetari e del corso dei cambi e si concludono di nuovo con aggiunte di ogni genere. Il capitolo 36, Condizioni pre capitalistiche, era invece completamente elaborato. Con tutto questo materiale — dalla Confusione in avanti, utilizzando quelle parti che non erano ancora state collocate altrove — ho messo insieme i capitoli dal 33 al 35. Questo non poté naturalmente essere fatto senza notevoli interpolazioni da parte mia per stabilire il nesso. Tali interpolazioni, quando non abbiano natura del tutto formale, sono espressamente contrassegnate come mie. In questo modo mi è finalmente riuscito di inserire nel testo tutte le enunciazioni dell’Autore comunque attinenti alla materia: nulla è stato eliminato, eccetto una piccola parte degli estratti che o ripeteva solamente cose già esposte in altro modo, oppure toccava punti nel manoscritto sorvolati. La sezione concernente la rendita fondiaria era elaborata con molto maggior compiutezza, pur mancando di sistemazione organica, manchevolezza comprovata dal fatto che Marx stesso ritiene necessario riassumere in breve il piano dell’intera sezione nel cap. 43 (che nel manoscritto conclude la sezione dedicata alla rendita). Tale ricapitolazione risultò tanto più utile per la mia edizione, in quanto il manoscritto comincia con il cap. 37, cui fa seguire i capitoli 45-47, per riportare quindi i capitoli 38-44. Il lavoro maggiore lo diedero le tabelle sulla rendita differenziale tipo Il e la constatazione che nel cap. 43 non era stato esaminato il terzo caso di questo tipo di rendita, che colà avrebbe dovuto essere trattato. Per questa sezione relativa alla rendita fondiaria Marx aveva compiuto dopo il 1870 indagini speciali di un genere del tutto nuovo. Durante una serie di anni egli aveva studiato sui testi originali, facendone anche degli estratti, le rilevazioni statistiche resesi necessarie in Russia dopo la riforma del 1861 e le ulteriori pubblicazioni sulla proprietà fondiaria che amici russi gli mettevano a disposizione con la massima larghezza; era suo proposito di utilizzarle per un rifacimento della parte in questione. Per la molteplicità delle forme sia della proprietà fondiaria che dello sfruttamento dei produttori agrari, la Russia, nella parte dedicata alla rendita fondiaria, avrebbe dovuto assumere il ruolo tenuto dall’Inghilterra nel primo Libro per il lavoro salariato dell’industria. Purtroppo gli fu negato di dare esecuzione al suo programma. La settima sezione, infine, esisteva in stesura completa ma soltanto in forma di primo abbozzo; per una edizione a stampa, era necessario scomporne i periodi interminabili e intricati. Dell’ultimo capitolo esisteva solo l’inizio: ivi le tre grandi classi della società capitalistica giunta a maturità, proprietari fondiari, capitalisti e operai salariati, corrispondenti alle tre fondamentali forme di reddito — rendita fondiaria, profitto e salario —, e la lotta di classe che la loro esistenza necessariamente presuppone, dovevano essere presentate come il risultato effettivo del periodo capitalistico. Simili ricapitolazioni conclusive erano da Marx riservate al momento della redazione definitiva, alla vigilia della stampa, proprio al momento in cui gli ultimi avvenimenti storici gli avessero offerto, con immancabile regolarità, la riprova dei suoi sviluppi teorici nelle forme più attuali. Le citazioni e il materiale di documentazione sono in questo terzo Libro, come già nel secondo, notevolmente più scarse di quanto non fossero nel primo. I riferimenti a quest’ultimo sono fatti sulla base della 2a e 3a edizione. Là dove richiama formulazioni teoriche di precedenti economisti, il manoscritto indica per lo più solo il nome degli autori; i singoli passi dovevano essere riportati all’atto della redazione definitiva. Naturalmente ho dovuto lasciare le cose in questo stato. Quattro sole relazioni parlamentari hanno trovato utilizzazione, peraltro abbastanza larga. Le elenco di seguito: 1) Reports from Committees (della Camera dei Comuni) vol. VIlI, Commercial distress, vol. II, Parte I, 1847-48. Minutes of evidence (citati come: Commercial distress 1847-48). 2) Secret Committee of the House of Lords on commercial distress 1847. Repoirt printed 1848. Evidence printed 1857 (perché nel 1848 considerata troppo compromettente). Citato come: Commercial distress 1848-57. 3) Report: Bank Acts, 1857; Idem, 1858. Rapporti della Commissione della Camera dei Comuni sugli effetti dei Bank Acts del 1844 e 1845, corredati da dichiarazioni di testi. Sono indicati come: Bank Acts (talvolta anche Bank Committee) 1857, e rispettivamente 1858. All’edizione del quarto Libro — la storia della teoria del plusvalore — mi accingerò non appena mi sarà in qualche modo possibile. Nella prefazione del secondo Libro del Capitale dovetti trattare con quei signori che avevano allora sollevato gran rumore con la pretesa di aver scoperto in Rodbertus «la fonte segreta e un più grande predecessore di Marx ». Io offrii loro l’occasione di indicare «a che cosa può servire l’economia di Rodbertus»; e li sfidai a dimostrare « che non soltanto senza pregiudizio della legge del valore, ma piuttosto sul fondamento di essa, può e deve formarsi un uguale saggio medio di profitto. Quegli stessi signori, che allora, per motivi soggettivi od oggettivi, e in genere tutt’altro che scientifici, magnificavano il buon Rodbertus come una stella economica di primissima grandezza, sono ancora oggi senza eccezione debitori di una risposta. Al contrario altri hanno ritenuto che valesse la pena di occuparsi della questione. L’affronta, nella sua critica del secondo Libro (Conrads Jahrbucher, XI,5,1885, pp. 452-65) il prof. W. Lexis, senza intendimento peraltro di darle una diretta soluzione. Egli afferma: «La soluzione di quella contraddizione » (precisamente la contraddizione fra la legge del valore di Ricardo-Marx e l’uniformità del saggio medio del profitto) «è impossibile, se le varie specie di merci vengono considerate isolatamente e il loro valore viene posto uguale al loro valore di scambio e questo a sua volta uguale o proporzionale al loro prezzo». A suo parere la soluzione è possibile soltanto alle seguenti condizioni: «Che per le singole specie di merci si rinunci ad assumere a misura del valore il lavoro, che la produzione delle merci venga intesa nel suo complesso, e la sua distribuzione considerata per le classi dei capitalisti e degli operai nel loro complesso... Del prodotto complessivo la classe operaia non riceve che una certa parte....,. la parte rimanente — quella che tocca ai capitalisti — costituisce, nel pensiero di Marx, il plusprodotto e pertanto anche... il plusvalore. I membri della classe capitalistica si dividono fra di loro plusvalore, non già secondo il numero degli operai da essi impiegati, ma in proporzione del volume del capitale da ciascuno apportato, includendo nel computo del valore-capitale anche i beni fondiari ». I valori ideali di Marx, determinati dalle unità di lavoro incorporate nelle merci non corrispondono ai prezzi, ma possono «essere considerati come punto iniziale di uno spostamento, che conduce ai prezzi effettivi. I quali sono condizionati dalla regola che capitali di eguale grandezza esigono eguali retribuzioni». Donde, fra i capitalisti alcuni riceveranno per le loro merci prezzi più elevati, altri prezzi minori dei valori ideali. « Poiché però decurtazioni e aggiunte di plusvalore si compensano reciprocamente nell’interno della classe capitalistica, la grandezza complessiva del plusvalore è la medesima che se tutti i prezzi fossero proporzionati ai valori ideali delle merci». Come si vede la questione qui è ben lungi dall’essere risolta, ma nel complesso è posta rettamente, anche se in forma fiacca e piatta. In realtà è più di quanto fossimo in diritto di aspettarci da un autore, che, come il Nostro, si presenta con una certa fierezza come un « economista volgare»; la sua impostazione è addirittura sorprendente, se la si raffronta coi risultati a cui sono giunti altri economisti volgari di cui tratteremo più avanti. L’economia volgare dell’autore è veramente di natura particolare. Egli dice che il reddito del capitale potrebbe essere dedotto con il procedimento indicato da Marx, ma che nulla impone simile concezione. Al contrario. L’economia volgare offre una spiegazione per lo meno più plausibile: « i venditori capitalistici, ossia il produttore di materie prime, il fabbricante di manufatti, il commerciante all’ingrosso e quello al minuto, realizzano un utile nei loro affari, in quanto ciascuno vende a più caro prezzo di quanto comperi, cioè aumenta di una certa percentuale il prezzo di costo delle proprie merci. Soltanto l’operaio non è in grado di ottenere un simile supplemento di valore, ma, per effetto della sua posizione sfavorevole di fronte al capitalista, si trova nella necessità di vendere il suo lavoro per il prezzo che gli costa, vale a dire per l’importo dei mezzi di sussistenza indispensabili.., così che le maggiorazioni di prezzo conservano tutta la loro importanza nei confronti dei salariati compratori e determinano il trasferimento alla classe capitalistica di una parte del valore del prodotto complessivo». Non occorre un eccessivo sforzo per vedere che tale spiegazione del profitto del capitale svolta in termini di «economia volgare» sfocia praticamente negli stessi risultati della teoria del plusvalore di Marx; che secondo la tesi di Lexis gli operai si trovano esattamente nella stessa « sfavorevole situazione » postulata da Marx; che essi sono altrettanto defraudati, giacché non è dato loro ciò che è concesso al non lavoratore, di vendere al di sopra del prezzo; e che sulla base di siffatta teoria si può costruire un socialismo volgare per Io meno altrettanto plausibile di quello edificato qui in Inghilterra sulla base della teoria del valore d’uso e dell’utilità marginale di Jevons e Menger. Giungo perfino a supporre che se il signor George Bernard Shaw venisse a conoscenza di simile teoria del profitto, sarebbe capace di ghermirla a due mani e, congedando Jevons e Karl Menger, riedificare su quella pietra la chiesa fabiana dell’avvenire. In realtà la teoria di Lexis non è che una trascrizione di quella marxistica. Da quale fondo sono ricavati tutti questi aumenti sui prezzi? Dal «prodotto complessivo» degli operai. E ciò è dovuto al fatto che la merce « lavoro » o, come Marx dice, la forza-lavoro, deve essere venduta al di sotto del suo prezzo. Infatti, se la proprietà comune a tutte le merci è di avere un prezzo di vendita superiore al loro costo di produzione, e se il lavoro, unico fra le merci a far eccezione alla regola, è venduto sempre e soltanto al suo costo di produzione, allora il suo prezzo di vendita viene ad essere inferiore a quello che è di norma nel mondo dell’economia volgare. L’extra profitto che in conseguenza tocca al capitalista, o alla classe capitalistica, consiste precisamente in ciò, e in ultima analisi non può prodursi che per la circostanza che l’operaio, dopo aver prodotto l’equivalente del prezzo del proprio lavoro, deve produrre un’ulteriore quota di prodotto per la quale non viene pagato, plusprodotto, prodotto di lavoro non retribuito, plusvalore. Lexis è persona molto cauta nella scelta delle sue espressioni. In nessun luogo dice direttamente che la concezione esposta è la sua; se però così fosse, sarebbe evidente che qui non abbiamo a che fare con uno dei soliti economisti volgari che, come egli stesso ricorda, a parere di Marx « sono nella migliore delle ipotesi soltanto imbecilli senza speranza» , ma con un marxista travestito da economista volgare. Se il travestimento si sia prodotto consciamente oppure inconsciamente, è questione psicologica che in questa sede non ci interessa. Chi la volesse approfondire probabilmente ricercherà in pari tempo come sia stato possibile che a un dato momento un uomo di paglia, quale indubbia mente è Lexis, abbia potuto difendere ancor una volta un’assurdità come quella del bimetallismo. Il primo, che abbia effettivamente tentato di rispondere alla questione, fu il dott. Conrad Schmidt nel volume Die Durchschnitts profitrate auf Grundiage des Marxschen Wertgesetzes, Stoccarda, Dietz, 1889. Schmidt cerca di far concordare i particolari della formazione del prezzo di mercato sia con la legge del valore che con il saggio medio del profitto. Il capitalista industriale riceve nel suo prodotto, in primo luogo l’equivalente del capitale che ha anticipato, in secondo luogo un plusprodotto, per il quale non ha pagato nulla. Per ottenere però questo plusprodotto, egli deve anticipare nella produzione il suo capitale; cioè per appropriarsi il plusprodotto deve impiegare una determinata quantità di lavoro oggettivato. Per il capitalista questo suo capitale anticipato rappresenta dunque la quantità di lavoro oggettivato che è socialmente necessaria per procurargli il plusprodotto. Lo stesso vale per ogni altro capitalista industriale. Ora, dato che i prodotti, in virtù della legge del valore, si scambiano in proporzione del lavoro socialmente necessario per produrli e dato che il lavoro occorrente al capitalista per il conseguimento del plusprodotto è appunto il lavoro passato, accumulato nel suo capitale, ne consegue che i plusprodotti si scambiano in ragione dei capitali occorsi per la loro produzione e non già in proporzione del lavoro in essi effettivamente incorporato. La quota spettante a ciascuna unità di capitale è dunque eguale al totale di tutti i plusvalori prodotti diviso per il totale dei capitali impiegati allo scopo. Conseguentemente eguali capitali fruttano, in identici periodi di tempo, eguali profitti, risultato che si realizza in quanto il prezzo di costo del plusprodotto, cioè il profitto medio, calcolato nel modo suddetto, si cumula con il prezzo di costo del prodotto pagato e tale prezzo maggiorato diventa il prezzo di vendita del prodotto complessivo, pagato e non pagato. Il saggio medio del profitto si forma nonostante che, come ritiene Schmidt, i prezzi medi delle singole merci si determinino secondo la legge del valore. La costruzione è assai ingegnosa, conforme al metodo hegeliano; però ha in comune con la maggior parte delle costruzioni hegeliane di non essere esatta. Fra plusprodotto e prodotto pagato non c’è alcuna differenza: se la legge del valore dovesse avere immediata applicazione anche per i prezzi medi, il plusprodotto e il prodotto pagato dovrebbero essere venduti in ragione del lavoro socialmente necessario richiesto e consumato per la loro produzione. La legge del valore è a priori in opposizione con la tesi, derivata dalla concezione capitalistica, secondo cui il lavoro passato, accumulato, in cui consiste il capitale, non sarebbe semplicemente una determinata quantità di valore finito ma, in quanto fattore della produzione e del processo produttivo del profitto, anche generatore di valore, cioè fonte di ulteriore valore oltre quello che esso stesso rappresenta; la legge del valore afferma che tale proprietà spetta solo al lavoro vivente. È noto che i capitalisti si attendono profitti direttamente proporzionali alla quantità dei loro capitali e che quindi considerano le loro anticipazioni di capitale come una specie di prezzo di costo del loro profitto. Ma quando Schmidt ricorre a tale tesi per conciliare con la legge del valore i prezzi calcolati secondo il saggio medio del profitto, egli sopprime la legge stessa del valore, in quanto vi incorpora, come uno dei fattori determinanti, una concezione che è con essa in completa contraddizione. O il lavoro accumulato è creatore di valore al pari del lavoro vivente. E allora la legge del valore cade. Oppure tale proprietà gli manca. E in tale ipotesi la dimostrazione di Schmidt è incompatibile con la legge del valore. Schmidt fu portato fuori strada quando era già assai vicino alla soluzione, perchè credeva di dover trovare una formula possibilmente matematica che dimostrasse la concordanza del prezzo medio di ogni singola merce con la legge del valore. Se egli proprio in prossimità della meta prese una via sbagliata, altre parti della sua pubblicazione dimostrano peraltro con quale penetrazione egli abbia tratto ulteriori conclusioni dai primi due Libri del Capitale. A lui spetta l’onore di aver trovato per proprio conto l’esatta spiegazione data da Marx nella terza sezione di questo Libro in merito alla finora inesplicabile tendenza alla diminuzione del saggio del profitto; e sua è la derivazione del profitto commerciale dal plusvalore industriale, nonché tutta una serie di considerazioni sull’interesse e sulla rendita fondiaria, in cui sono anticipati argomenti, che Marx sviluppa nella quarta e quinta sezione di questo terzo Libro. In un successivo lavoro (Neue Zeit, 1892-93, nn. 3 e 4) Schmidt tenta la soluzione per un’altra via. La quale sbocca in questa proposizione: essere la concorrenza quella che determina il saggio medio del profitto, in quanto essa provoca il trasferimento di capitale da settori di produzione superiore con profitto inferiore al medio, a settori con profitto superiore, al medio. Che la concorrenza sia la grande livellatrice dei profitti, non è affermazione nuova. Ma Schmidt cerca di dimostrare ,che tale livellamento dei profitti si identifica con la riduzione del prezzo di vendita delle merci, prodotte in esuberanza, alla misura di valore che la società può per esse pagare secondo la legge del valore. La ragione per cui nemmeno questa via poteva condurre alla meta si ricava a sufficienza dalle considerazioni esposte da Marx in questo Libro. Dopo Schmidt, affrontò il problema P. Fireman (Conrads Jahrbucher, terza serie, [1892] III, p. 793). Io non mi addentrerò nelle considerazioni ivi esposte in merito a taluni lati della esposizione di Marx. Esse sono frutto dell’equivoco di aver supposto che Marx. volesse definire là dove invece si limitava, ad analizzare, e che in Marx si debbano in genere cercare definizioni belle e pronte, valide per ogni caso. Va da sé che là dove le cose e le loro reciproche relazioni sono concepite non fisse ma mutevoli, anche i loro riflessi mentali, i concetti, sono egualmente soggetti a mutamento e trasformazione; e che lungi dall’incapsularli in rigide definizioni bisogna svilupparli nel loro processo di formazione sia logico che storico. Apparirà quindi chiaro perchè Marx al principio del primo Libro — là dove parte dalla produzione semplice delle merci come premessa storica del capitale, per giungere poi da questa base al capitale — prenda le mosse appunto dalla merce semplice e non da una forma concettualmente e storicamente secondaria, cioè dalla merce già modificata in termini capitalistici; ciò che Fireman non può assolutamente comprendere. Noi lasceremo da parte questi ed altri punti secondari, che potrebbero dar motivo ad altre e varie obiezioni e andremo immediatamente al nocciolo del problema. Mentre la teoria insegna all’autore che, posto un determinato saggio del plusvalore, il plusvalore è proporzionale alla quantità delle forze-lavoro occupate, l’esperienza gli mostra che, posto un determinato saggio medio del profitto, il profitto è proporzionale al volume del capitale complessivo impiegato. Il fatto è spiegato da Fireman postulando che il profitto sia un fenomeno puramente convenzionale (ciò che per lui significa inerente ad una determinata formazione sociale, e che con questa viva e scompaia); la sua esistenza è puramente legata al capitale, il quale, se ha la forza bastante di assicurarsi un profitto, è costretto dalla concorrenza a estorcerlo ad un saggio identico per tutti i capi tali. Senza eguaglianza dei saggi del profitto non è per l’appunto possibile la produzione capitalistica; premesso tale sistema di produzione, per ogni singolo capitalista la massa del profitto dipende, essendo dato il saggio del profitto, dal volume del suo capitale. D’altra parte il profitto è costituito dal plusvalore, dal lavoro non pagato. E come avviene la trasformazione del plusvalore, il cui volume è in ragione dello sfruttamento del lavoro, in profitto, il cui volume è in rapporto al volume del capitale impiegato? «Per la semplice ragione che in tutti i rami di produzione, il cui rapporto tra.., capitale costante e capitale variabile è massimo, le merci sono vendute al di sopra del loro valore, mentre in quei rami di produzione il cui rapporto tra capitale costante e capitale variabile, ossia c/v, è minimo, le merci sono vendute al di sotto del loro valore, e soltanto quando il rapporto c/v tocca una determinata grandezza media, le merci vengono vendute al loro vero valore... Una tale divergenza di singoli prezzi dai loro rispettivi valori costituisce una contraddizione con il principio del valore? Niente affatto. Giacché, per il fatto che i prezzi di alcune merci superano il loro valore esattamente di tanto di quanto i prezzi di altre merci scendono al di sotto, la somma totale dei prezzi rimane eguale alla somma complessiva dei valori.., e “ in ultima istanza “ la divergenza scompare». La divergenza è un «fatto perturbatore»; «e nelle scienze esatte un fatto perturbatore calcolabile non è mai considerato tale che possa infirmare una legge». Si confrontino con questa spiegazione i passi del cap. IX dedicati all’argomento e si vedrà che effettivamente Fireman ha in tal modo messo il dito sul punto decisivo. Ma quanti altri sviluppi intermedi pur dopo quella scoperta fossero ancora necessari per mettere Fireman in grado di elaborare la piena, evidente soluzione del problema, lo dimostra la immeritata freddezza con cui fu accolto quello scritto così notevole. Quanti si interessarono al problema, tutti ebbero timore di bruciarsi le dita. E ciò si spiega non soltanto per la forma incompiuta in cui Fireman ha lasciato la sua scoperta, ma anche per le innegabili manchevolezze e della sua interpretazione della teoria di Marx e della critica generale da lui su tale base formulata. Quando si presenta l’occasione di far brutta figura in una questione difficile, il sig. professor Julius Wolf di Zurigo non manca mai di approfittarne. L’intero problema, egli ci racconta (Conrads Jahrbucher, terza serie, p. 352 sgg.), si risolve con il plusvalore relativo. La produzione del plusvalore relativo dipende dall’aumento del capitale costante in confronto a quello variabile. «Un accresci mento del capitale costante ha come presupposto un accrescimento della forza produttiva degli operai. Ma poiché questo aumento della forza produttiva (tramite la riduzione di prezzo dei mezzi di sussistenza) comporta un aumento del plusvalore, viene a stabilirsi un rapporto diretto fra un plusvalore crescente e una crescente partecipazione del capitale costante al capitale complessivo. Un incremento nel capitale costante corrisponde ad un incremento nella forza produttiva del lavoro. Pertanto, a capitale variabile immutato e a capitale costante in aumento, il plusvalore deve aumentare conforme all’insegnamento di Marx. Tale era il problema a noi dato da risolvere». Veramente in cento passi del primo Libro Marx dice proprio il contrario, e l’affermazione che, secondo Marx, il plusvalore relativo cresca, in caso di capitale variabile decrescente, nella proporzione in cui si accresce il capitale costante, è così strabiliante che riesce impossibile con un’espressione parlamentare. In ogni riga il sig. Julius Wolf mostra di non avere la minima nozione, né relativa né assoluta, di ciò che sia il plusvalore, sia assoluto, che relativo; egli stesso del resto confessa: « Si ha qui a prima vista l’impressione di trovarsi in un groviglio di assurdità », ciò che, incidentalmente, è l’unica osservazione veritiera di tutto il suo scritto. Ma che importa tutto questo? Il signor Julius Wolf è così fiero della sua geniale scoperta che non può tralasciare di tributare per ciò postuma lode a Marx e di esaltare questa sua personale imperscrutabile sciocchezza come «una nuova prova dell’acutezza e profondità, con cui Marx ha concepito la sua critica dell’economia capitalistica». Ma c’è ancora di meglio: il signor Wolf aggiunge: «Ricardo ha affermato sia: a eguale impiego di capitale, eguale plusvalore (profitto), che: a eguale impiego di lavoro, eguale plusvalore (nel totale). Di qui era sorto il problema: come si concilia l’una con l’altra proposizione? Marx non accettò il problema in quella forma. Indubbiamente egli ha dimostrato (nel. terzo volume) che il secondo enunciato non è un corollario incondizionato della legge del valore ma che anzi è con questa in contraddizione e perciò... è da ripudiare». E qui egli indaga chi di noi due — io o Marx — abbia sbagliato, non pensando affatto, naturalmente, di esser lui a vagare in pieno errore. Farei torto ai miei lettori e disconoscerei del tutto il comico della situazione, se volessi sciupare una sola parola su questo stupefacente passo. Soltanto aggiungo: con la stessa sfrontatezza con cui già a quel tempo sapeva annunciare ciò che « Marx aveva indubbiamente dimostrato nel terzo Libro », egli coglie l’occasione per riferire un preteso pettegolezzo da professori, secondo il quale il citato studio di Conrad Schmidt «sarebbe ispirato direttamente. da Engels». Signor Julius Wolf! Può essere consuetudine nel mondo in cui Lei vive e si agita, che una persona che abbia posto ad altri pubblicamente un problema ne comunichi in segreto la soluzione ai propri amici. Che Lei ne sia capace, posso facilmente crederlo. Ma che nel mondo in cui io mi muovo non occorra abbassarsi a simili miserie, glielo dimostra la presente prefazione. Marx era appena morto, che subito il signor Achille Loria pubblicava un articolo su di lui nella Nuova Antologia (aprile 1883): innanzitutto una biografia infarcita di dati inesatti, quindi una critica della sua attività pubblica, politica e letteraria. La concezione materialistica della storia di Marx è ivi falsata e deformata con una sicurezza che fa sospettare un ambizioso disegno. E questo disegno fu realizzato nel 1886, quando lo stesso signor Loria pubblicò un volume, La teoria economica della costituzione politica, in cui annunciava ai suoi sbalorditi contemporanei come sua personale scoperta la teoria marxista della storia così radicalmente e premeditatamente sfigurata nel 1883. La teoria marxista è ivi abbassata a un livello di notevole filisteismo; e le citazioni ed esemplificazioni storiche abbondano di spropositi, che non si lascerebbero passare ad uno scolaro di quarta; ma che importa tutto ciò? La scoperta che in ogni luogo e tempo le situazioni e gli eventi politici trovano la loro spiegazione nelle corrispondenti condizioni economiche, fu opera — ivi si dimostra — per nulla affatto di Marx nell’anno 1845, ma del signor Loria nel 1886. Questo, almeno egli è felicemente riuscito a dar ad intendere ai suoi compatrioti e anche — poiché il suo libro apparve in francese — a taluni francesi; sicché ora in Italia egli può andar tronfio come autore di una nuova teoria storica che fa epoca, finché i socialisti italiani non trovino il tempo di strappare all’illustre Loria le penne di pavone rubate. Ma questo non è che un piccolo esempio della maniera del signor Loria. Egli ci assicura che tutte le teorie di Marx poggiano su un consaputo sofisma che Marx non recede davanti a paralogismi, pur sapendoli tali e così via. E dopo che con tutta una sequela di simili grossolane barzellette ha fornito ai suoi lettori il necessario per considerare Marx come un arrivista alla Loria che mette in scena le sue medesime trovate con gli stessi scorretti mezzucci da ciarlatano del professore padovano, egli può confidar loro un importante segreto; ed eccoci così ricondotti al saggio del profitto. Il signor Loria dice: secondo Marx, la massa del plusvalore (che Loria qui identifica con il profitto) prodotta in un’impresa capitalistica industriale, dipende dal capitale variabile ivi impiegato, non producendo il capitale costante alcun profitto. Ma ciò è in contrasto con la realtà: giacché in pratica il profitto è in ragione non del capitale variabile, ma del capitale complessivo. E Marx stesso se ne avvede (I, cap. XI) e ammette che in apparenza i fatti contraddicono la sua teoria. Ma come risolve la contraddizione? Rinviando i suoi lettori ad un successivo volume non ancora apparso. A proposito del qual volume già in precedenza Loria aveva detto ai suoi lettori che non riteneva che Marx avesse mai pensato un solo istante di scriverlo; ed eccolo ora gridare trionfalmente: «Non a torto io ho affermato che questo secondo volume con cui Marx minaccia continuamente i suoi avversari senza che esso appaia, questo volume può essere un ingegnoso espediente ideato dal Marx a sostituzione degli argomenti scientifici». E chi non si è ancora convinto che Marx si trova sullo stesso piano di ciarlatanismo scientifico dell’illustre Loria, è davvero un incorreggibile senza rimedio. Questo dunque abbiamo imparato: secondo il signor Loria la teoria marxista del plusvalore è assolutamente inconciliabile con la realtà di un saggio generale ed uniforme del profitto. Apparve allora il secondo Libro, e con esso la questione da me pubblicamente posta proprio su questo stesso punto. Se il signor Loria fosse stato uno di noi timidi tedeschi, si sarebbe trovato in imbarazzo. Ma egli è un meridionale ardito, originario di un paese caldo, dove — come egli può testimoniare — la sfrontatezza è in un certo senso una condizione naturale. Il problema del saggio del profitto è pubblicamente posto. Il signor Loria lo ha pubblicamente dichiarato insolubile. E appunto per questo egli supererà se stesso dandone pubblicamente la soluzione. Tale miracolo fu compiuto con un articolo dedicato al citato scritto di Conrad Schmidt (Conrads Jahrbucher, nuova serie, XX, p. 272 sgg.). Avendo appreso da Schmidt come si determina il profitto commerciale, tutta la materia gli si è d’un colpo rischiarata. «Poiché la determinazione del valore mercé la durata del lavoro avvantaggia quei capitalisti che impiegano in salari una quota più larga dei loro capitali, il capitale improduttivo» (deve intendersi commerciale) «può esigere da questi capitalisti privilegiati un più elevato interesse» (deve intendersi profitto) «e portare l’eguaglianza fra i singoli capitalisti industriali... Così ad es., se i capitalisti industriali A, B, C, applicano alla produzione ciascuno 100 giornate lavorative e rispettivamente 0, 100, 200 unità di capitale costante, e se il salario di 100 giornate lavorative racchiude in sé 50 giornate lavorative, ogni capitalista riceve un plusvalore di 50 giornate lavorative, e i saggi del profitto sono del 100% per il primo capitalista, del 33,3% per il secondo, e del 20% per il terzo. Se poi un quarto capitalista D accumula un capitale improduttivo di 300, che estorce un interesse» (profitto) «del valore di 40 giornate lavorative da A e di 20 giornate lavorative da B, il saggio del profitto per i capita listi A e B precipiterà al 20% come quello del capitalista C, e D con un capitale di 300 riceverà un profitto di 60, ossia un saggio del profitto del 20%, al pari degli altri capitalisti». Con sorprendente destrezza l’illustre Loria risolve, in un batter d’occhio, quel medesimo problema che dieci anni prima aveva dichiarato insolubile. Purtroppo egli non ci ha svelato il segreto che dà al «capitale improduttivo il potere non soltanto di sottrarre agli industriali questo loro extraprofltto eccedente il saggio medio del profitto, ma anche di conservarlo, proprio come il proprietario terriero intasca sotto forma di rendita fondiaria l’eccedenza del pro fitto del fittavolo. In realtà, secondo la tesi in parola, i commercianti preleverebbero dagli industriali un tributo assolutamente analogo alla rendita fondiaria e determinerebbero in tal modo il saggio medio del profitto. Certo, come ognuno sa, il capitale commerciale è un fattore essenziale per la formazione del saggio generale del profitto. Ma soltanto un avventuriero della penna, che nel suo intimo si ride dell’economia intera, può permettersi di affermare che esso possegga il magico potere di assorbire in sé tutto il plusvalore eccedente il saggio generale del profitto, prima ancora che questo si sia formato, e di convertirlo in rendita fondiaria per se stesso, senza che occorra allo scopo una qualsiasi proprietà fondiaria. Non meno sorprendente è l’affermazione che il capitale commerciale sia capace di scoprire quegli industriali il cui plusvalore raggiunge solo il saggio medio del profitto, e sia fiero di alleviare in certo qual modo la sorte di tali infelici vittime della legge del valore di Marx, vendendo loro i prodotti gratuitamente, perfino senza provvigioni di sorta. Ci vuole un prestigiatore di razza per immaginarsi che Marx abbia bisogno di simili pietosi giochetti! Ma il nostro illustre Loria brilla in tutta la sua gloria solo nel raffronto con i suoi concorrenti nordici, per es. con il sig. Julius Wolf, che pure non è nato ieri. Che meschino schiamazzatore sembra costui pur con il suo grosso libro Sozialismus und kapitalistische Gesell schaftsordnung, accanto all’italiano! Come è goffo, quasi direi modesto, di fronte alla nobile audacia con cui il Maestro afferma come cosa naturale che Marx, come tutti gli altri, era un sofista, paralogista, fanfarone e ciarlatano dello stampo del sig. Loria stesso; e che, ogniqualvolta è a mal partito, usa dar ad intendere al pubblico di rimettere la conclusione delle sue teorie a un successivo volume, che ben sa in anticipo di non avere né la possibilità né l’intenzione di comporre ! Improntitudine illimitata, agilità da anguilla per sgusciare da situazioni insostenibili, eroico disdegno delle pedate ricevute; prontezza nell’appropriarsi prodotti altrui, sfrontata ciarlataneria pubblicitaria, organizzazione della fama per mezzo di consorterie compiacenti: chi lo supera in tutto questo? L’Italia è la terra della classicità. Dalla grande epoca in cui spuntò sul suo orizzonte l’alba della civiltà moderna, essa ha prodotto grandi caratteri, di classica ineguagliata perfezione, da Dante a Garibaldi.. Ma anche l’età della decadenza e della dominazione straniera le ha lasciato maschere classiche di caratteri, fra cui due tipi particolar mente elaborati: Sganarello e Dulcamara. La loro classica unità noi la vediamo impersonata nel nostro illustre Loria. Per finire devo condurre il lettore oltre oceano. A New York il medico George C. Stiebeling ha pure trovato una soluzione del problema, e straordinariamente semplice. Così semplice che nessuno né qui né là l’ha voluta accettare; il che ha provocato in lui una profonda collera e amare lagnanze su tanta ingiustizia, esposte in una lunga sequela di opuscoli e di articoli di rivista diffusi su ambedue le sponde dell’Atlantico. Gli si disse, é vero, nella Neue Zeit, che la sua soluzione si fonda su un errore di calcolo. L’obiezione non riuscì a turbarlo; anche Marx è incorso in errori di calcolo, è ciò nonostante ha ragione in molte cose. Esaminiamo dunque la soluzione di Stiebeling. « Si suppongano due fabbriche, che lavorano con lo stesso capitale e per identico tempo, ma con una diversa proporzione di capitale costante e di capitale variabile. Il capitale complessivo (c + v) sia posto eguale a y, e si indichi con la x la differenza nel rapporto del capitale costante col capitale variabile. Nella fabbrica I è y = c + v, nella fabbrica II é y = (c - x) + (v + x). Il saggio del plusvalore è quindi Pv : v nella fabbrica I e Pv : (v + x) nella fabbrica II. Si designi come profitto (p) il plusvalore complessivo (pv) di cui si accresce in un dato periodo di tempo il capitale complessivo y ossia c + v; dunque p = pv. Di conseguenza il saggio del profitto è p : y oppure Pv : (c + v) nella fabbrica I e ugualmente p : y oppure Pv : (c – x) + (v + x) vale a dire Pv : (c + v) nella fabbrica II. Il... problema si risolve dunque col porre in evidenza, in base alla legge del valore, che, impiegando per un identico spazio di tempo capitali eguali ma differenti quantità di lavoro vivente, si origina, dal mutamento del saggio del plusvalore, un eguale saggio medio del profitto »- (Das Wertgesetz und die Profitrate, New York, John Heinrich). Per quanto bello ed evidente possa essere il confronto sopra riportato, noi siamo costretti a porre una sola domanda al signor Dr. Stiebeling: come sa egli che la quantità di plusvalore prodotto nella fabbrica I è uguale, fino al centesimo, alla quantità del plusvalore prodotto nella fabbrica II? Egli ci dice esplicitamente che c, v, y, x — cioè tutti gli altri fattori del calcolo — hanno grandezze eguali per ambedue le fabbriche, ma nulla precisa per pv. Né l’ipotesi dell’eguaglianza si può ricavare dal semplice fatto che egli indica algebricamente con pv ambedue le quantità di plusvalore qui presenti; se mai proprio quest’eguaglianza deve essere dimostrata, dato che il signor Stiebeling identifica anche il profitto p con il plusvalore senz’altra spiegazione. Ora, due soltanto sono i casi possibili: o ambedue i p hanno lo stesso valore, e ogni fabbrica produce un’eguale quantità di plusvalore, e dunque con lo stesso capitale complessivo un identico profitto, e allora il signor Stiebeling ha presupposto a priori ciò che deve dimostrare. Oppure, al contrario, una fabbrica produce una quantità di plusvalore maggiore dell’altra, e allora tutto il suo calcolo cade. Il signor Stiebeling non si è risparmiato né fatica né spese per elevare, sulla base di questo suo errore di calcolo, intiere montagne di calcoli ed esporli quindi al pubblico. Da parte mia gli posso dare la tranquillizzante assicurazione che essi sono quasi tutti egualmente sbagliati e che, allorquando si dà una qualche eccezione alla regola, dimostrano cose del tutto diverse da ciò che l’A, intendeva. Cosi, facendo il confronto dei censimenti americani del 1870 e del 1880, egli effettivamente accerta la caduta del saggio del profitto, ma ne dà una spiegazione del tutto erronea e ritiene di dover rettificare sulla scorta della pratica la teoria di Marx di un saggio del profitto stabile, costantemente invariabile. Ora dalla terza sezione di questo terzo Libro risulta che un siffatto «saggio invariabile del profitto» attribuito a Marx è una pura fantasia, e che la tendenza alla caduta del saggio del profitto ha cause diametralmente opposte a quelle indicate dal Dr. Stiebeling. Il quale non dubito parli in perfetta buona fede; ma quando ci si vuole occupare di questioni scientifiche, si ha innanzitutto il dovere di imparare a leggere, nei termini esatti in cui l’autore le ha scritte, le opere che si intende utilizzare, senza vedervi cose che non vi si trovano. Risultato di tutto questo lavoro di ricerca: anche a proposito della questione in esame è ancora e soltanto la scuola di Marx che ha prodotto qualcosa. Sia Fireman che Conrad Schmidt, leggendo questo terzo Libro, potranno ciascuno per la sua parte sentirsi soddisfatti del loro lavoro. Londra, 4 ottobre 1894. F. Engels |
AVVERTENZA PER IL LETTORE Il testo del III libro del Capitale che viene qui riportato NON È UNA DELLE TRADUZIONI INTEGRALI DEL TESTO ORIGINALE che sono disponibili: esso infatti è una rivisitazione delle traduzioni esistenti (in italiano ed in francese) a cui sono state apportate le seguenti modifiche: 1 – non sono state riportate le note che Marx ed Engels richiamano nel testo (fatte salve alcune eccezioni); 2 – sono state introdotte delle modifiche per quanto riguarda gli esempi numerici in cui, per facilitare la lettura; a – sono state cambiate le unità di misura e le grandezze; b – diversi dati richiamati nella forma di testo sono stati trasformati in tabelle; c – in alcuni esempi numerici le cifre decimali sono state limitate a due e nel caso di numeri periodici, ad esempio 1/3 o 2/3, la cifra periodica è stata indicata con un apice (‘). Ci rendiamo conto che leggere un testo del Capitale in cui Marx formula esempi in Euro (€) invece che in Lire Sterline (Lst) o scellini potrebbe far sorridere e far pensare ad uno scherzo o ad una manipolazione che ha travisato il pensiero dell’Autore, avvertiamo invece il lettore che il testo è assolutamente fedele al pensiero originale e che ci siamo permessi di introdurre alcune “varianti” per consentire a coloro che non hanno dimestichezza con le unità di misura e monetarie inglesi di non bloccarsi di fronte a questa difficoltà e di facilitarne così la lettura o lo studio. In altre parti si sono invece mantenute le unità di misura e monetarie inglesi originali perchè la lettura non creava problemi di comprensione o per ragioni di fedeltà storica. Ci facciamo altresì carico dell’osservazione che Engels ha formulato nelle “considerazioni supplementari” poste all’inizio del III Libro, laddove, di fronte alle molteplici interpretazioni del testo che vennero fatte dopo la prima edizione, sostiene: “Nella presente edizione ho cercato innanzitutto di comporre un testo il più possibile autentico, di presentare, nel limite del possibile, i nuovi risultati acquisiti da Marx, usando i termini stessi di Marx, intervenendo unicamente quando era assolutamente necessario, evitando che, anche in quest’ultimo caso, il lettore potesse avere dei dubbi su chi gli parla. Questo sistema è stato criticato; si è pensato che io avrei dovuto trasformare il materiale a mia disposizione in un libro sistematicamente elaborato, en faire un livre, come dicono i francesi, in altre parole sacrificare l’autenticità del testo alla comodità del lettore. Ma non è in questo senso che io avevo interpretato il mio compito. Per una simile rielaborazione mi mancava qualsiasi diritto; un uomo come Marx può pretendere di essere ascoltato per se stesso, di tramandare alla posterità le sue scoperte scientifiche nella piena integrità della sua propria esposizione. Inoltre non avevo nessun desiderio di farlo: il manomettere in questo modo perchè dovevo considerare ciò una manomissione l’eredità di un uomo di statura così superiore, mi sarebbe sembrato una mancanza di lealtà. In terzo luogo sarebbe stato completamente inutile. Per la gente che non può o non vuole leggere, che già per il primo Libro si è data maggior pena a interpretarlo male di quanto non fosse necessario a interpretarlo bene — per questa gente è perfettamente inutile sobbarcarsi a delle fatiche”. Marx ed Engels non ce ne vogliano, ma posti di fronte alle molteplici “fughe” dallo studio da parte di persone che non possedevano una cultura accademica, fughe che venivano imputate alla difficoltà presentate dal testo, abbiamo deciso di fare uno “strappo” alle osservazioni di Engels, intervenendo in alcune parti avendo altresì cura di toccare il testo il meno possibile. Nel fare questo “strappo” eravamo tuttavia confortati dal fatto che, a differenza della situazione in cui Engels si trovava, oggi chi vuole accedere al testo “originale”, dispone di diverse edizioni in varie lingue. Coloro che volessero accostarsi al testo originale in lingua italiana si consigliano le seguenti edizioni:
Chi volesse accedere ad edizioni del Capitale e di altri testi di Marx in lingue estere, si propone di consultare il sito internet di seguito riportato:http://www.marxists.org/xlang/marx.htm |