IL CAPITALE LIBRO III SEZIONE VII I REDDITI E LE LORO FONTI CAPITOLO 49 PER L’ANALISI DEL PROCESSO DI PRODUZIONE Ai fini della seguente analisi si può fare astrazione dalla differenza fra il prezzo di produzione e il valore, poiché tale differenza scompare assolutamente, se, come nel presente caso, viene considerato il valore del prodotto complessivo annuo del lavoro, ossia del prodotto del capitale complessivo sociale. Il profitto (guadagno d’imprenditore più interesse) e la rendita non sono altro che forme particolari assunte da particolari parti del plusvalore delle merci. La grandezza del plusvalore limita la somma delle parti in cui esso si può suddividere. Il profitto medio più la rendita è dunque uguale al plusvalore. È possibile che una parte del pluslavoro contenuto nelle merci e quindi del plusvalore, non entri direttamente nel livellamento al profitto medio, così che una parte del valore delle merci non si trovi affatto espressa nel loro prezzo. Ma, innanzi tutto, si ha qui una compensazione, sia per il fatto che il saggio del profitto aumenta, se la merce venduta al di sotto del suo valore costituisce un elemento del capitale costante, sia per il fatto che il profitto e la rendita sono rappresentati da un prodotto maggiore, se la merce venduta al di sotto del suo valore entra come articolo del consumo individuale nella parte del valore che è consumata come reddito. In secondo luogo, poi, nella media del movimento questi fenomeni si eliminano. In ogni caso, anche quando una parte del plusvalore, non espressa nel prezzo della merce, non interviene nella formazione del prezzo, la somma formata dal profitto medio e dalla rendita nella loro forma normale può essere inferiore, ma mai superiore al plusvalore complessivo. La loro forma normale presuppone un salario corrispondente al valore della forza lavoro. Anche la rendita di monopolio, nella misura in cui non è una detrazione dal salario e quindi non costituisce una categoria particolare, deve costituire sempre, sia pure indirettamente, una parte del plusvalore se non una parte dell’eccedenza di prezzo sui costi di produzione della merce stessa, di cui essa costituisce un elemento, come nel caso della rendita differenziale, né una parte del plusvalore della merce stessa, di cui costituisce un elemento, in eccedenza su quella parte del plusvalore della merce che è misurata dal profitto medio (come nel caso della rendita assoluta), almeno una parte del plusvalore di altre merci, vale a dire delle merci che vengono scambiate con questa merce che ha un prezzo di monopolio. — La somma del profitto medio più la rendita fondiaria, non può mai essere maggiore della grandezza di cui essi sono parti e che è data già prima di questa suddivisione. Che tutto il plusvalore delle merci, ossia tutto il pluslavoro contenuto nelle merci, sia o no realizzato nel loro prezzo, è quindi irrilevante per la nostra analisi. Il pluslavoro non viene realizzato interamente non fosse altro perché, a causa del continuo mutar di grandezza del lavoro socialmente necessario per la produzione di una data merce, mutamento determinato dalle continue variazioni nella forza produttiva del lavoro, una parte delle merci deve essere sempre prodotta in condizioni anormali e quindi venduta al di sotto del suo valore individuale. In ogni caso la somma di profitto e rendita è uguale a tutto il plusvalore (pluslavoro) realizzato e ai fini dell’analisi di cui qui si tratta, il plusvalore realizzato può essere supposto uguale al plusvalore complessivo; poiché profitto e rendita sono plusvalore realizzato, quindi il plusvalore in generale, quale entra nel prezzo delle merci, dunque, in pratica, tutto il plusvalore, che forma un elemento di questo prezzo. D’altro lato il salario, che costituisce la terza forma particolare del reddito, è sempre uguale alla parte costitutiva variabile del capitale, ossia alla parte che non è spesa in mezzi di lavoro, ma in acquisto di forza-lavoro viva, nel pagamento di operai. (Il lavoro che viene pagato nella spesa di reddito è esso stesso pagato da salario, profitto o rendita e non costituisce quindi una parte di valore delle merci, con cui esso è pagato. Non è quindi preso in considerazione nell’analisi del valore delle merci e delle parti componenti questo valore). Il salario è l’oggettivazione di quella parte della giornata lavorativa complessiva degli operai, in cui viene riprodotto il valore del capitale variabile e quindi il prezzo del lavoro; la parte del valore delle merci in cui l’operaio riproduce il valore della sua propria forza-lavoro o il prezzo del suo lavoro. La giornata lavorativa complessiva dell’operaio si divide in due parti. Una parte è quella nella quale egli esegue la quantità di lavoro necessaria a riprodurre il valore dei suoi propri mezzi di sussistenza: è la parte retribuita del suo lavoro complessivo, la parte necessaria per la sua conservazione e riproduzione. Tutta la parte rimanente della giornata lavorativa, tutta la quantità di lavoro in eccedenza che egli esegue oltre il lavoro realizzato nel valore del suo salario, è pluslavoro, lavoro non pagato, rappresentato dal plusvalore della sua produzione di merci complessiva (e in conseguenza da una quantità eccedente di merci), plusvalore, che è a sua volta diviso in parti aventi una denominazione diversa, in profitto (guadagno d’imprenditore più interesse) e rendita. Dunque, l’intera parte di valore delle merci, in cui si realizza il lavoro complessivo degli operai aggiunto in un giorno o in un anno, il valore complessivo del prodotto annuo creato da questo lavoro, si scinde nel valore del salario, del profitto e della rendita. Infatti questo lavoro complessivo è diviso in lavoro necessario, per mezzo del quale l’operaio crea la parte di valore del prodotto con cui egli stesso viene pagato, in altre parole il salario e in pluslavoro non pagato, per mezzo del quale egli crea la parte di valore del prodotto che rappresenta il plusvalore e che si divide in seguito in profitto e in rendita. L’operaio non compie altro lavoro oltre a questo e non crea nessun valore oltre al valore complessivo del prodotto, che assume le forme di salario, profitto e rendita. Il valore del prodotto annuo, in cui si esprime il lavoro aggiunto ex novo durante l’anno, è uguale al salario o al valore del capitale variabile più il plusvalore, che a sua volta si scinde nelle forme di profitto e rendita. Tutta la parte di valore del prodotto annuo che l’operaio crea nel corso dell’anno, è dunque espressa dalla somma di valore annua dei tre redditi, dal valore del salario, del profitto e della rendita. Evidentemente, il valore della parte costante di capitale non è quindi riprodotto nel valore dei prodotti creato ogni anno, poiché il salario è semplicemente uguale al valore della parte variabile di capitale anticipata nella produzione e la rendita e il profitto sono semplicemente uguali al plusvalore, all’eccedenza di valore prodotta oltre il valore complessivo del capitale anticipato, che è uguale al valore del capitale costante più il valore del capitale variabile. Per la difficoltà che deve essere qui risolta, non ha importanza alcuna il fatto che una parte del plusvalore trasformata nella forma di profitto e di rendita non sia consumata come reddito, ma serva all’accumulazione. La parte, che è risparmiata come fondo di accumulazione, serve a formare capitale nuovo, addizionale, ma non a sostituire la parte del vecchio capitale spesa in forza-lavoro né quella spesa in mezzi di lavoro. Possiamo dunque supporre qui, per maggior semplicità, che i redditi entrino interamente nel consumo individuale. La difficoltà ha un duplice aspetto. Da un lato: il valore annuo, in cui vengono consumati questi redditi, salario, profitto, rendita, contiene una aliquota di valore uguale alla quota di valore della parte costante di capitale in esso assorbita. Contiene questa parte di valore, in aggiunta a quella che si risolve in salario e a quella che si risolve in profitto e in rendita. Il suo valore è dunque = salario + profitto + rendita + C, dove C rappresenta la sua parte di valore costante. Come può il valore prodotto annualmente, che è semplicemente = salario + profitto + rendita, acquistare un prodotto il cui valore è = (salario + profitto + rendita) + C? Come può il valore prodotto annualmente acquistare un prodotto, che ha un valore superiore al suo? D’altro lato: se facciamo astrazione dalla parte del capitale costante, che non è entrata nel prodotto e che quindi continua a esistere come prima, quantunque con un valore diminuito, dopo la produzione annua delle merci; se quindi facciamo astrazione per il momento dal capitale fisso impiegato, ma non consumato, la parte costante del capitale anticipato sotto forma di materie prime e di materie ausiliarie è stata completamente assorbita nel nuovo prodotto, mentre, per quanto concerne i mezzi di lavoro, una parte è stata completamente assorbita e un’altra utilizzata solo parzialmente e così solo una parte del suo valore è stata consumata nella produzione. Tutta questa parte del capitale costante consumata nella produzione deve essere sostituita in natura. Presupponendo invariate tutte le altre condizioni e in particolare la forza produttiva del lavoro, questa parte richiede per la sua sostituzione la medesima quantità di lavoro di prima, in altre parole deve essere sostituita con un equivalente in valore. Se così non fosse, la riproduzione non si potrebbe svolgere neppure secondo la vecchia scala. Ma chi deve compiere questi lavori e chi li compie? A proposito della prima difficoltà: chi pagherà e con che cosa pagherà, la parte costante di valore contenuta nel prodotto? Si suppone che il valore del capitale costante assorbito nella produzione riappaia come parte di valore del prodotto. Ciò non è in contraddizione con i presupposti della seconda difficoltà. Poiché abbiamo già dimostrato nel Libro I, cap. V (Processo lavorativo e processo di valorizzazione), che una semplice aggiunta di lavoro nuovo, quantunque non riproduca l’antico valore, ma crei semplicemente un’aggiunta ad esso, crei soltanto del valore addizionale, determina tuttavia al tempo stesso la conservazione del vecchio valore nel prodotto; che il lavoro però attua questa conservazione, non in quanto lavoro creatore di valore, ossia lavoro in generale, ma nella sua funzione di lavoro produttivo determinato. Non era perciò necessario un lavoro addizionale, per conservare il valore della parte costante nel prodotto, in cui è speso il reddito, ossia tutto il valore creato durante l’anno. Ma questo nuovo lavoro addizionale è necessario per sostituire il valore e il valore d’uso del capitale costante, consumato nel corso dell’anno precedente; poichè senza questa sostituzione la riproduzione non sarebbe assolutamente possibile. Ogni lavoro aggiunto ex novo è rappresentato nel valore creato ex novo durante l’anno; e questo lavoro a sua volta si risolve nei tre redditi: salario, profitto e rendita. Da un lato, non rimane dunque lavoro sociale eccedente per sostituire il capitale costante consumato, che deve essere ricostituito in parte in natura e secondo il suo valore, in parte solo secondo il suo valore (per semplice logorio del capitale fisso). D’altro lato il valore creato annualmente dal lavoro, valore che si scinde nelle forme di salario, profitto e rendita e deve essere speso in queste forme, non sembra sufficiente per pagare o acquistare la parte costante di capitale, che deve essere contenuta nel prodotto annuo oltre il suo proprio valore. Come si vede, il problema qui posto è già stato risolto quando abbiamo trattato la riproduzione del capitale complessivo sociale, Libro II, sez. III. Torniamo qui su questo argomento, innanzi tutto perché, là, il plusvalore non era ancora stato considerato sotto le sue forme di reddito: profitto (guadagno d’imprenditore più interesse) e rendita, quindi non poteva essere trattato in queste forme; in secondo luogo, perché proprio alla forma di salario, profitto e rendita, si collega l’incredibile errore di analisi che penetra tutta l’economia politica da A. Smith in poi. In quell’occasione abbiamo diviso tutto il capitale in due grandi classi: · la classe I, che produce i mezzi di produzione, e · la classe II, che produce i mezzi del consumo individuale. Il fatto che certi prodotti possano servire tanto per uso personale quanto come mezzi di produzione (un cavallo, grano ecc.) non inficia in alcun modo la esattezza assoluta di questa suddivisione. Non si tratta infatti di una ipotesi, ma unicamente della espressione di un fatto. Si prenda il prodotto annuo di un paese. Una parte del prodotto, qualunque possa essere la sua capacità di servire da mezzo di produzione, entra nel consumo individuale. E’ il prodotto in cui vengono spesi il salario, il profitto e la rendita. Questo prodotto è il prodotto di una determinata sezione del capitale sociale. E’ possibile che questo stesso capitale produca anche dei prodotti che appartengono alla classe I. In questo caso i prodotti consumati produttivamente, che spettano alla classe I, non sono forniti dalla parte di questo capitale consumata nel prodotto della classe II, un prodotto appartenente effettivamente al consumo individuale. Tutto questo prodotto II, che entra nel consumo individuale e per cui quindi il reddito è speso, è la forma di esistenza del capitale consumato in esso più l’eccedenza prodotta. È quindi, prodotto di un capitale investito esclusivamente, nella produzione di mezzi di consumo. E nello stesso modo la sezione I del prodotto annuo, che serve come mezzo di riproduzione, ossia materia prima e strumenti di lavoro, è prodotto di un capitale investito unicamente nella produzione di mezzi di produzione, qualunque sia in altro campo la capacità naturale di questo prodotto di servire da mezzo di consumo. La parte di gran lunga maggiore dei prodotti, che costituiscono il capitale costante esiste anche materialmente in una forma nella quale non può entrare nel consumo individuale. E anche quando ciò fosse possibile, se, per esempio, un contadino potesse mangiare il suo grano da semenza, macellare il suo bestiame da tiro, la barriera economica varrebbe per lui proprio allo stesso modo come se questa parte non fosse in una forma consumabile. Come si è già detto, facciamo astrazione, nelle due classi, dalla parte fissa del capitale costante, che continua a esistere in natura e secondo il valore, indipendentemente dal prodotto annuo di entrambe le classi. Nella classe II, nei prodotti della quale sono spesi salario, profitto e rendita e in breve vengono consumati i redditi, il prodotto si compone esso stesso, per quanto concerne il suo valore, di tre elementi. Un elemento è uguale al valore della parte costante di capitale consumata nella produzione; un secondo elemento, è uguale al valore della parte variabile di capitale anticipata nella produzione sotto forma di salario; in fine un terzo elemento è uguale al plusvalore prodotto, ossia al profitto più la rendita. Il primo elemento del prodotto della classe II, il valore della parte costante di capitale, non può essere consumato né dai capitalisti né dagli operai della classe II né dai proprietari fondiari. Esso non fa parte del loro reddito, ma deve essere sostituito in natura e a tal fine deve essere venduto. Gli altri due elementi di questo prodotto, invece, sono uguali al valore dei redditi prodotti in questa classe = salario + profitto + rendita. Nella classe I il prodotto, per quanto riguarda la forma, si compone degli stessi elementi. Ma l’elemento, che qui costituisce reddito, salario + profitto + rendita, in breve la parte variabile del capitale + il plusvalore, non viene qui con nella forma naturale dei prodotti di questa classe I, ma nei prodotti della classe II. Il valore dei redditi della classe I deve dunque essere consumato nella parte del prodotto della classe II, che forma il capitale costante di II da sostituire. La parte del prodotto di classe II, che deve sostituire il suo capitale costante, è consumata nella sua forma naturale dagli operai, dai capitalisti e dai proprietari fondiari della classe I. Essi spendono i loro redditi in questo prodotto II. D’altro lato il prodotto di I, nella misura in cui esso rappresenta il reddito della classe I, viene consumato produttivamente nella sua forma naturale dalla classe II, di cui sostituisce in natura il capitale costante. Infine la parte costante di capitale consumata della classe I viene sostituita con i prodotti di questa classe stessa, che si compongono precisamente di mezzi di lavoro, di materie prime e ausiliarie ecc., in parte mediante scambi reciproci tra i capitalisti della classe I, in parte per la possibilità data a una parte di questi capitalisti di reimpiegare direttamente il loro proprio prodotto come mezzo di produzione. Prendiamo lo schema precedente (Libro Il, cap. XX, II) della riproduzione semplice:
Secondo tale schema, in II, i produttori e i proprietari fondiari consumano come reddito 500v + 500pv = 1000: rimangono da sostituire 2000c. Ciò è consumato dagli operai, dai capitalisti e dai possessori di rendita di I, il cui reddito è uguale a 1.000v + 1 .000pv = 2000. Il prodotto consumato di II è consumato come reddito da I e la parte di reddito di I rappresentata in prodotto inconsumabile è consumata da II come capitale costante. Rimane dunque da rendere conto sui 4000c di I. Questi sono sostituiti con il prodotto stesso di I = 6000, o piuttosto = 6000 — 2000; poiché questi 2000 sono già stati convertiti in capitale costante per II. Si deve notare che le cifre sono state scelte a caso e che quindi il rapporto fra il valore del reddito di I e il valore del capitale costante di II appare arbitrario. Ma è evidente che, se il processo di riproduzione si svolge normalmente e senza che mutino le altre circostanze, quindi senza che si tenga conto dell’accumulazione, la somma del valore di salario, profitto e rendita della classe I deve essere uguale al valore della parte costante del capitale della classe II. Se non fosse così, la classe II non potrebbe sostituire il suo capitale costante, o la classe I non potrebbe convertire il suo reddito dalla forma non consumabile nella forma consumabile. Il valore del prodotto-merce annuo, precisamente come il valore del prodotto-merce di un singolo investimento di capitale e come il valore di ogni singola merce, si risolve, dunque, in due parti costitutive di valore: · A, che sostituisce il valore del capitale costante anticipato, e · B, che si presenta sotto la forma di reddito, ossia salario, profitto e rendita. Questa ultima parte costitutiva di valore B, si trova in opposizione rispetto ad A, in quanto questa, a parità di circostanze: 1) non assume mai la forma di reddito; 2) rifluisce sempre nella forma di capitale e precisamente di capitale costante. Ma anche l’altra parte costitutiva B contiene in se stessa un contrasto. Profitto e rendita hanno in comune con il salario questo: tutti e tre costituiscono forme di reddito. Vi è tuttavia una differenza sostanziale fra di essi, per il fatto che il profitto e la rendita rappresentano plusvalore, vale a dire lavoro non pagato, mentre il salario rappresenta lavoro pagato. La parte di valore del prodotto, che rappresenta il salario speso, ossia sostituisce il salario e che — in base a quanto abbiamo presupposto, ossia che la riproduzione si compia sulla stessa scala e nelle medesime condizioni — si ritrasforma di nuovo in salario, rifluisce innanzi tutto come capitale variabile, come una parte costitutiva del capitale, che deve di nuovo essere anticipato alla riproduzione. Questa parte costitutiva ha una duplice funzione. Essa esiste innanzi tutto nella forma di capitale e deve essere scambiata in quanto tale con la forza-lavoro. Nelle mani dell’operaio si trasforma in quel reddito che questi trae dalla vendita della sua forza- lavoro, viene trasformato e consumato in mezzi di sussistenza come reddito. Questo duplice processo si rivela tramite l’intervento della circolazione monetaria. Il capitale variabile è anticipato in denaro, pagato come salario. Ecco la sua prima funzione di capitale. Viene dato in cambio della forza-lavoro e trasformato nell’esplicazione di questa forza-lavoro, in lavoro. Questo è il processo quale si presenta ai capitalisti. In secondo luogo, però: con questo denaro gli operai acquistano una parte del loro prodotto-merce, che viene misurata da questo denaro e consumata da essi come reddito. Immaginiamoci che la circolazione monetaria non esista: una parte del prodotto dell’operaio si trova nelle mani del capitalista sotto forma di capitale esistente. Egli anticipa questa parte come capitale, la dà all’operaio in cambio di nuova forza-lavoro, mentre l’operaio la consuma come reddito, o direttamente, o mediante scambio con altre merci. La parte di valore del prodotto, quindi, che nella riproduzione è destinata a convertirsi in salario, in reddito per gli operai, ritorna in un primo tempo nelle mani del capitalista, sotto forma di capitale, più precisamente di capitale variabile. Che essa rifluisca in questa forma è una condizione essenziale affinché si riproducano continuamente il lavoro come lavoro salariato, i mezzi di produzione come capitale e il processo di produzione stesso come un processo capitalistico. Se si vogliono evitare inutili difficoltà, è necessario distinguere fra provento lordo e provento netto da una parte, reddito lordo e reddito netto dall’altra. Il provento lordo o prodotto lordo, è l’intero prodotto riprodotto. Ad eccezione della parte di capitale fisso impiegata ma non consumata, il valore del provento o prodotto lordo è uguale al valore del capitale anticipato e consumato nella produzione, del capitale costante e del capitale variabile più il plusvalore, che si risolve in profitto e rendita. Oppure, qualora non si consideri il prodotto del capitale individuale, ma il prodotto del capitale complessivo sociale, il provento lordo è uguale agli elementi materiali che costituiscono il capitale costante e il capitale variabile, più gli elementi materiali del plusprodotto in cui si trovano rappresentati il profitto e la rendita. Il reddito lordo è la parte di valore e la parte di prodotto lordo da essa misurata, che rimane dopo la detrazione della parte di valore e della parte di prodotto della produzione complessiva da essa misurata, che sostituisce il capitale costante anticipato e consumato nella produzione. Il reddito lordo è dunque uguale al salario (ossia alla parte del prodotto che è destinata a trasformarsi di nuovo in reddito dell’operaio) più il profitto, più la rendita. Il reddito netto è, invece, il plusvalore e quindi il plusprodotto, il quale rimane dopo la detrazione del salario e che rappresenta, dunque, in realtà il plusvalore realizzato dal capitale e che deve essere ripartito con il proprietario fondiario e il plusprodotto misurato da questo plusvalore. Si è visto che il valore di ogni singola merce e il valore di tutto il prodotto-merce di ogni singolo capitale si suddivide in due parti: una che sostituisce unicamente il capitale costante e l’altra che, quantunque una frazione di essa rifluisca come capitale variabile, quindi nella forma di capitale, è tuttavia destinata a trasformarsi totalmente in reddito lordo e ad assumere la forma del salario, del profitto e della rendita, la cui somma costituisce il reddito lordo. Si è inoltre visto che ciò vale anche nei riguardi del valore del prodotto complessivo annuo di una società. Sussiste solamente la differenza seguente fra il prodotto del singolo capitalista e quello della società: considerato dal punto di vista del singolo capitalista, il reddito netto si distingue dal reddito lordo in quanto questo include il salario e quello no. Considerando il reddito di tutta la società, il reddito nazionale si compone del salario più il profitto, più la rendita, quindi del reddito lordo. Ma anche ciò non è che una astrazione, nel senso che tutta la società, sulla base della produzione capitalistica, ha una concezione capitalistica e considera in conseguenza come reddito netto unicamente il reddito che si risolve in profitto e rendita. D’altro lato la fantastica concezione per es. di un Say, secondo cui il provento complessivo, il prodotto lordo complessivo, si risolve in provento netto per una nazione o non si distingue da esso, così che questa distinzione viene a scomparire dal punto di vista della nazione, è soltanto la necessaria e ultima espressione del dogma assurdo che penetra tutta l’economia politica da Smith in poi, ossia che il valore delle merci si risolve, in ultima istanza, interamente in salario, profitto e rendita[1]. Quando si tratta del singolo capitalista, è naturalmente molto facile da comprendere che una parte del suo prodotto deve ritrasformarsi in capitale, (anche indipendentemente dall’argomento della riproduzione o della accumulazione) e precisamente non soltanto in capitale variabile, che è destinato a diventare a sua volta un introito per gli operai, quindi una forma di reddito, ma in capitale costante, che non può mai trasformarsi in reddito. Ciò si vede chiaramente osservando semplicemente il processo di produzione. La difficoltà comincia solo quando si considera il processo di produzione nel suo insieme. Il fatto è che il valore di tutta la parte del prodotto consumata come reddito nella forma di salario, profitto e rendita (è a questo proposito del tutto indifferente che si tratti di consumo individuale o di consumo produttivo), in realtà nell’analisi si risolve interamente nella somma di valore costituita dal salario più il profitto più la rendita, vale a dire nel valore complessivo dei tre redditi. E tuttavia il valore di questa parte del prodotto contiene, al pari di quella che non entra nel reddito, una parte di valore uguale a C, uguale al valore del capitale costante che vi si trova contenuto e quindi prima facie non può essere limitata dal valore del reddito; vi è dunque, da una parte, un fatto praticamente innegabile, e, dal l’altra parte, una contraddizione teorica non meno innegabile. Per togliersi dalla difficoltà, la cosa più facile è certo l’affermare che il valore delle merci contiene soltanto in apparenza, dal punto di vista del singolo capitalista, un’altra parte di valore-merce, distinta dalla parte che esiste sotto forma di reddito. La frase, secondo cui ciò che appare reddito per l’uno, costituisce capitale per l’altro, risparmia ogni ulteriore riflessione. Ma come, in tal caso, il vecchio capitale può essere sostituito, se il valore di tutto il prodotto è consumabile sotto forma di reddito; e come il valore del prodotto di ogni capitale individuale può essere uguale alla somma di valore dei tre redditi più C, capitale costante, mentre la somma di valore dei prodotti di tutti i capitali addizionati può essere uguale alla somma di valore dei tre redditi più zero? Tutto ciò appare naturalmente come un enigma insolubile e per spiegarlo bisogna affermare che l’analisi è in generale incapace di scoprire gli elementi semplici del prezzo e deve accontentarsi del circolo vizioso e della progressione all’infinito. In tal modo, ciò che appare come capitale costante, può essere risolto in salario, profitto e rendita e i valori-merce, che rappresentano il salario, il profitto e la rendita, sono a loro volta nuovamente determinati dal salario, dal profitto e dalla rendita e così all’infinito[2]. Il dogma profondamente falso, che il valore delle merci si risolva in ultima istanza in salario + profitto + rendita, si esprime ancora nell’affermazione che il consumatore debba pagare in ultima istanza il valore complessivo del prodotto complessivo; o ancora che la circolazione monetaria tra produttori e consumatori debba in ultima istanza essere uguale alla circolazione monetaria fra i produttori stessi (Tooke); asserzioni che sono altrettanto false, quanto il principio su cui sono fondate. Le difficoltà, a cui porta questa analisi falsa e prima facie assurda, sono in breve le seguenti: 1. Non si comprende il rapporto fondamentale fra il capitale costante e il capitale variabile, né in conseguenza la natura del plusvalore e con ciò tutta la base del modo di produzione capitalistico. Il valore di ogni prodotto parziale del capitale, di ogni singola merce, contiene una parte di valore uguale al capitale costante, una parte di valore uguale al capitale variabile (convertita in salario per gli operai) e una parte di valore uguale al plusvalore (che più tardi si scompone in profitto e rendita). Come è quindi possibile che l’operaio con il suo salario, il capitalista con il suo profitto, il proprietario fondiario con la sua rendita, possano acquistare delle merci, ciascuna delle quali contiene non soltanto una di queste parti costitutive, ma tutte e tre le parti? E come è possibile che la somma di valore formata dal salario, dal profitto e dalla rendita, ossia le tre fonti di reddito unite, possano acquistare delle merci che entrano nel consumo generale di coloro che ricevono questi redditi, merci che, in aggiunta a queste tre parti costitutive di valore, contengono ancora una parte costitutiva di valore eccedente e cioè il capitale costante? Come possono essi acquistare un valore di quattro con un valore di tre?[3]. Abbiamo analizzato questo nel Libro II, sezione III 2. Non si comprende in quale modo il lavoro, aggiungendo neovalore, conservi il vecchio valore in una nuova forma, senza produrlo ex novo. 3. Non si comprende il nesso del processo di riproduzione, quale si presenta, non dal punto di vista del singolo capitale, ma da quello del capitale complessivo; la difficoltà consiste nel comprendere in qual modo il prodotto, in cui si realizza il salario e il plusvalore, vale a dire tutto il valore creato dal lavoro aggiunto ex novo durante l’anno, possa sostituire la parte costante del suo valore e al tempo stesso scomporsi in un valore limitato unicamente dai redditi: e come avviene che il capitale costante consumato nella produzione possa essere sostituito per la sostanza e per il valore da nuovo capitale, quantunque la somma complessiva del lavoro aggiunto ex novo non si realizzi che nel salario e nel plusvalore e trovi la sua piena espressione nella somma di valore di questi due elementi. È proprio qui che si trova la difficoltà principale: nell’analisi della riproduzione e del rapporto dei suoi diversi elementi, sia per quanto riguarda il loro carattere materiale, che per quanto riguarda i loro rapporti di valore. 4. Ma sopravviene una nuova difficoltà, che si aggrava non appena le diverse parti costitutive del plusvalore appaiono nella forma di redditi autonomi l’uno rispetto all’altro. E precisamente la difficoltà, che le determinazioni fisse di reddito e di capitale si scambiano e mutano il loro posto, così che esse sembrano essere semplicemente determinazioni relative dal punto di vista del singolo capitalista e scomparire quando si abbracci il processo di produzione complessivo. Il reddito degli operai e dei capitalisti della classe I, ad esempio, che produce il capitale costante, sostituisce il valore e la sostanza del capitale costante dei capitalisti della classe II, che produce mezzi di consumo. Si può quindi eludere la difficoltà, immaginando che ciò che è reddito per l’uno, sia capitale per l’altro e che queste determinazioni non abbiano nulla a che vedere con le effettive peculiarità delle parti costitutive di valore della merce. Inoltre: quelle merci, che in definitiva sono destinate a formare gli elementi materiali della spesa del reddito, ossia i mezzi di consumo, percorrono durante l’anno diversi stadi, come, ad esempio, filati di lana, tessuti. In una certa fase esse costituiscono una parte del capitale costante, nell’altra vengono consumate individualmente, entrando interamente nel reddito. Ci si può quindi immaginare con A. Smith che il capitale costante sia soltanto un elemento apparente del valore delle merci, che scompare nel processo d’insieme. Inoltre, si ha uno scambio fra capitale variabile e reddito. L’operaio compera con il suo salario la parte delle merci che costituisce il suo reddito. In tal modo egli ricostituisce al tempo stesso per il capitalista la forma monetaria del capitale variabile. Infine: una parte dei prodotti, che formano il capitale costante, viene sostituita, in natura o mediante scambio, dai produttori stessi del capitale costante; un processo questo, con il quale i consumatori non hanno nulla a che vedere. Quando si trascuri ciò, si crea l’impressione che il reddito dei consumatori sostituisca tutto il prodotto, quindi anche la parte costante del valore. 5. A prescindere dalla confusione che è dovuta alla trasformazione dei valori in prezzi di produzione, si crea un’ulteriore confusione con la trasformazione del plusvalore in diverse forme particolari del reddito, autonome l’una rispetto all’altra e riferite ai diversi elementi di produzione: ossia in profitto e rendita. Si dimentica che i valori delle merci sono alla base e che la determinazione del valore e la sua legge non viene modificata affatto dalla suddivisione di questo valore delle merci in parti costitutive separate, dallo svilupparsi di queste parti costitutive di valore in forme di reddito, dalla loro trasformazione in rapporti tra i diversi possessori dei diversi fattori della produzione e queste singole parti costitutive di valore, dalla loro distribuzione fra questi possessori in base a categorie e titoli determinati. E questa legge del valore non viene del pari modificata dal fatto che il livellamento del profitto, ossia la ripartizione del plusvalore complessivo fra i diversi capitali e gli ostacoli che in parte (nella rendita assoluta) la proprietà fondiaria frappone a questo livellamento determinano i prezzi medi regolatori delle merci in difformità con i loro valori individuali. Ciò influisce di nuovo soltanto sull’aggiunta del plusvalore ai diversi prezzi delle merci, ma non sopprime affatto il plusvalore stesso, né il valore complessivo delle merci, in quanto fonte di queste diverse parti costitutive del prezzo. Nel capitolo seguente tratteremo di questo quid pro quo, che si trova necessariamente collegato con l’illusione che il valore derivi dalle sue proprie parti costitutive. Innanzi tutto le diverse parti costitutive di valore delle merci assumono nei redditi forme autonome e in quanto redditi esse vengono messe in rapporto, come loro fonte, non con il valore della merce, ma con i particolari elementi materiali della produzione. Esse sono di fatto messe in rapporto con queste fonti, non come elementi del valore, ma come redditi, come parti costitutive di valore che toccano a queste categorie determinate di agenti della produzione, l’operaio, il capitalista, il proprietario fondiario. Ma ci si potrebbe immaginare che queste parti costitutive di valore, anziché derivare dalla scomposizione del valore- merce, formino al contrario questo valore tramite la loro unione. E si giunge così a quel bel circolo vizioso secondo cui il valore delle merci deriva dalla somma di valore di salario, profitto e rendita e il valore di salario, profitto e rendita è a sua volta determinato dal valore delle merci e così via[4]. Considerando la riproduzione nelle sue condizioni normali, una parte solamente del lavoro aggiunto ex novo è impiegata per la produzione e quindi per la sostituzione del capitale costante; ed è precisamente la parte che sostituisce il capitale costante assorbito nella produzione di mezzi di consumo, di elementi materiali del reddito. Ciò trova una compensazione nel fatto che questa parte costante della classe II, non costa lavoro addizionale. Ma il capitale costante — che (considerando il processo complessivo di riproduzione in cui quindi è compreso anche questo processo di compensazione fra classe I e classe II) non è prodotto del lavoro aggiunto ex novo, sebbene questo prodotto non potrebbe essere creato senza di esso — durante il processo di riproduzione è esposto, per quanto riguarda i suoi elementi materiali, ad avvenimenti fortuiti e a pericoli che lo possono decimare. (Può inoltre essere deprezzato anche per quanto riguarda il valore, in seguito ad una modificazione della forza produttiva del lavoro; ma ciò non interessa che il singolo capitalista). In conseguenza, una parte del profitto, quindi del plusvalore e perciò anche del plusprodotto, in cui è rappresentato soltanto il lavoro aggiunto ex novo (per quanto riguarda il valore) serve da fondo di assicurazione. A questo riguardo la sostanza della cosa non cambia se questo fondo di assicurazione è amministrato da società assicuratrici, formando oggetto di una attività specifica, oppure no. Questa è la sola parte del reddito che non viene consumata in quanto tale e non serve necessariamente da fondo di accumulazione. Se essa serva di fatto all’accumulazione o se copra semplicemente il deficit della riproduzione, dipende dal caso. É questa anche l’unica parte del plusvalore e del plusprodotto e quindi del pluslavoro, che, oltre alla parte che serve alla accumulazione, ossia all’allargamento del processo di riproduzione, dovrebbe continuare ad esistere anche dopo l’eliminazione del modo di produzione capitalistico. Ciò presuppone naturalmente che la parte regolarmente consumata dai produttori diretti non rimanga limitata al suo minimo attuale. A parte il pluslavoro in favore di coloro ai quali l’età non permette ancora o non permette più di partecipare alla produzione, non vi sarebbe più lavoro destinato a sostentare coloro che non lavorano. Se pensiamo agli inizi della società, troviamo che non esistono ancora mezzi di produzione prodotti, quindi un capitale costante, il cui valore entri nel prodotto e che, nella riproduzione sulla stessa scala, debba essere sostituito in natura dal prodotto, in una misura determinata dal suo valore. Ma la natura fornisce qui direttamente i mezzi di sussistenza, che non hanno bisogno di essere prodotti. Perciò la natura dà al selvaggio, che ha solo pochi bisogni da soddisfare, anche il tempo, non di utilizzare per una produzione nuova i mezzi di produzione che non esistono ancora, ma di trasformare, in aggiunta al lavoro richiesto per l’appropriazione dei mezzi di sussistenza che esistono in natura, altri prodotti naturali in mezzi di produzione, archi, coltelli di pietra, canoe, ecc. Considerato soltanto dal punto di vista materiale, questo processo che avviene presso i selvaggi corrisponde perfettamente alla ritrasformazione del pluslavoro in nuovo capitale. Nel processo di accumulazione, si attua ancora continuamente la trasformazione di tale prodotto di lavoro eccedente in capitale; e il fatto che ogni nuovo capitale scaturisca dal profitto, dalla rendita o da altre forme del reddito, ossia dal pluslavoro, conduce alla falsa concezione che tutto il valore delle merci derivi da un reddito. Questa ritrasformazione del profitto in capitale mostra al contrario, in una analisi più approfondita, che il lavoro addizionale — che si presenta sempre in forma di reddito — non serve alla conservazione, né alla riproduzione del vecchio valore-capitale, ma, al contrario, nella misura in cui non è consumato come reddito, alla creazione di nuovo capitale eccedente. Tutta la difficoltà deriva dal fatto che tutto il lavoro aggiunto ex novo, nella misura in cui il valore da esso creato non si risolve in salario, appare come profitto — inteso qui come forma generale del plusvalore, — ossia come un valore che non è costato nulla al capitalista e che quindi, di certo, non deve sostituire nulla che egli abbia anticipato, nessun capitale. Questo valore esiste dunque sotto forma di ricchezza addizionale disponibile, vale a dire, dal punto di vista del capitalista individuale, sotto forma del suo reddito. Ma questo lavoro creato ex novo può essere consumato produttivamente o individualmente, come capitale o come reddito. Già a causa della sua forma naturale esso deve, in parte, essere consumato produttivamente. E’ dunque chiaro che il lavoro annualmente aggiunto crea sia capitale sia reddito, come si dimostra poi anche nel processo di accumulazione. Ma la parte della forza-lavoro che è impiegata nella creazione di nuovo capitale (quindi, per analogia, la parte della giornata lavorativa impiegata dal selvaggio non per appropriarsi il nutrimento, ma per confezionate gli utensili, con cui appropriarsi il nutrimento) diventa invisibile, per il fatto che tutto il prodotto del pluslavoro si presenta in primo luogo in forma di profitto, determinazione questa, che non ha in realtà nulla a che vedere con il plusprodotto stesso, ma che si riferisce soltanto al rapporto privato tra il capitalista e il plusvalore che egli ha incassato. In realtà il plusvalore creato dall’operaio si suddivide in reddito e in capitale; ossia in mezzi di consumo e in mezzi di produzione addizionali. Ma il vecchio capitale costante rimasto dall’anno precedente (fatta astrazione dalla parte che è danneggiata e pro tanto distrutta, in breve il vecchio capitale costante, in quanto non deve essere riprodotto; e tali perturbazioni del processo di riproduzione sono coperte dall’assicurazione), per quanto riguarda il suo valore, non è riprodotto dal lavoro aggiunto ex novo. Inoltre vediamo che una parte del lavoro aggiunto ex novo è permanentemente assorbito dalla riproduzione e dalla sostituzione di capitale costante consumato, quantunque questo lavoro aggiunto ex novo non si risolva che in redditi, salario, profitto e rendita. Ma in tal modo non si tiene conto: 1) che una parte di valore del prodotto di questo lavoro non è il prodotto di questo lavoro aggiunto ex novo, ma capitale costante preesistente e consumato; che la parte di prodotto rappresentante questa parte di valore non si trasforma quindi in reddito, ma sostituisce in natura i mezzi di produzione di questo capitale costante; 2) che la parte di valore che presenta effettivamente questo lavoro aggiunto ex novo, non è consumata in natura come reddito, ma sostituisce il capitale costante in un’altra sfera, dove viene convertita in una forma naturale in cui può essere consumata come reddito, che però a sua volta non è il prodotto esclusivo di lavoro aggiunto ex novo. Nella misura in cui la riproduzione procede sulla medesima scala, ogni elemento consumato del capitale costante deve, se non per la quantità e per la forma, almeno per la sua capacità di rendimento, essere sostituito da un nuovo esemplare di tipo corrispondente. Se la forza produttiva del lavoro rimane invariata, questa sostituzione in natura implica la sostituzione del medesimo valore che il capitale costante aveva nella sua vecchia forma. Ma se la forza produttiva del lavoro aumenta, così che i medesimi elementi materiali possano essere riprodotti con un lavoro minore, una parte minore del valore del prodotto può sostituire integralmente la parte costante in natura. L’eccedenza può allora servire alla creazione di nuovo capitale addizionale, o può essere conferita la forma di mezzo di consumo a una parte maggiore del prodotto, oppure può venire ridotto il pluslavoro. Se invece la forza produttiva del lavoro diminuisce, una parte maggiore del prodotto deve essere usata per sostituire il vecchio capitale; il plusprodotto diminuisce. La ritrasformazione del profitto, o in generale di una forma qualsiasi del plusvalore, in capitale, mostra — se facciamo astrazione dalla forma economica storicamente determinata e la consideriamo unicamente come una semplice formazione di nuovi mezzi di produzione — che permangono sempre le condizioni per cui l’operaio, oltre il lavoro necessario all’acquisto dei mezzi di sussistenza immediati, impiega altro lavoro per produrre mezzi di produzione. Trasformare il profitto in capitale significa semplicemente impiegare una parte del lavoro eccedente per creare mezzi di produzione nuovi, addizionali. Che ciò avvenga nella forma di trasformazione di profitto in capitale, significa semplicemente che non è l’operaio, ma il capitalista a disporre di questo lavoro eccedente. Il fatto che questo lavoro eccedente debba innanzi tutto passare per uno stadio in cui appare come reddito (mentre ad esempio presso il selvaggio appare come lavoro eccedente rivolto direttamente alla produzione di mezzi di produzione), significa semplicemente che questo lavoro o il suo prodotto se lo appropria chi non lavora. Ma ciò che in realtà è convertito in capitale non è il profitto in quanto tale. Conversione di plusvalore in capitale significa semplicemente che il plusvalore e il plusprodotto non sono consumati individualmente come reddito del capitalista. Ciò che è realmente così convertito è il valore, lavoro oggettivato, ossia il prodotto in cui questo valore è direttamente rappresentato o con il quale viene scambiato dopo essere stato convertito in denaro. Anche quando il profitto è stato riconvertito in capitale, non è questa forma determinata del plusvalore, il profitto, che costituisce la fonte del nuovo capitale. Il plusvalore viene così semplicemente convertito da una forma in un’altra. Ma non è questo cambiamento di forma che ne fa capitale. È la merce e il suo valore che ora operano come capitale. Ma che il valore della merce non sia pagato — ed è soltanto in tal modo che diventa plusvalore — è del tutto irrilevante per la oggettivazione del lavoro, cioè per il valore stesso. L’equivoco si manifesta in diverse forme. Che le merci, ad esempio, di cui si compone il capitale costante, contengono ugualmente elementi di salario, di profitto e di rendita. Oppure che ciò che è reddito per l’uno è capitale per l’altro e i rapporti sono dunque puramente soggettivi. Così il filato del filandiere contiene una parte di valore, che rappresenta per lui un profitto. Acquistando il filato,. il tessitore realizza dunque il profitto del filandiere, ma per lui stesso questo filato è solo una parte del suo capitale costante. Ma, oltre a quello che si è già detto a proposito del rapporto tra reddito e capitale, si deve osservare qui: ciò che, considerato secondo il valore, entra unitamente al filato come elemento costitutivo nel capitale del tessitore, è il valore del filato. In qual modo le parti di questo valore si sono risolte per il filandiere stesso in capitale e in reddito, ossia in lavoro pagato e non pagato, non ha la minima importanza per la determinazione del valore della merce stessa (fatta astrazione dalle modificazioni apportate dal profitto medio). Dietro le quinte si nasconde sempre l’idea che il profitto, in generale il plusvalore, non sia che una eccedenza oltre il valore della merce, eccedenza che deriva unicamente da sovrapprezzo, frode reciproca, guadagno di alienazione. In quanto è pagato il prezzo di produzione o anche il valore della merce, vengono naturalmente pagate anche le parti costitutive di valore della merce, che per il loro venditore prendono la forma di reddito. Non ci riferiamo qui naturalmente ai prezzi di monopolio. In secondo luogo è perfettamente vero che le parti costitutive delle merci, di cui si compone il capitale costante, possono, come qualsiasi altro valore-merce, essere ridotte a parti di valore, che si risolverebbero per i produttori e i possessori dei mezzi di produzione in salario, profitto e rendita. Questa è semplicemente la forma capitalistica di esprimere il fatto che ogni valore-merce è unicamente la misura del lavoro socialmente necessario contenuto in una merce. Ma è già stato dimostrato nel Libro I che ciò non impedisce affatto di scomporre il prodotto-merce di ogni capitale in parti separate, di cui una rappresenta esclusivamente la parte costante del capitale, la seconda la parte variabile del capitale e una terza soltanto il plusvalore. Storch esprime anche l’opinione di molti altri, quando dice: « I prodotti vendibili, che costituiscono il reddito nazionale, devono essere considerati nell’economia politica in due modi diversi: in rapporto agli individui come valori e in rapporto alla nazione come beni; poiché il reddito di una nazione non è valutato, come il reddito di un individuo, secondo il suo valore, ma secondo la sua utilità o secondo il bisogno che può soddisfare » (Considérations sur la nature du revenu national, p. 19). È innanzi tutto una falsa astrazione considerare una nazione, il cui modo di produzione è fondato sul valore e per di più organizzata capitalisticamente, come un corpo collettivo che lavora unicamente per i bisogni nazionali. In secondo luogo, dopo che si è eliminato il modo di produzione capitalistico, conservando però la produzione sociale, la determinazione di valore continua a dominare, nel senso che la regolazione del tempo di lavoro e la distribuzione del lavoro sociale fra i diversi gruppi di produzione e infine la contabilità a ciò relativa, diventano più importanti che mai. NOTE [1] A proposito del superficiale Say, Ricardo fa la seguente ottima osservazione. Sul prodotto netto e sul prodotto lordo Say si esprime nel seguente modo: “ Il valore totale che stato prodotto è il prodotto lordo; questo valore, dopo che i costi di produzione sono stati detratti, costituisce il prodotto netto” ([Traité d’économie politique ecc.], vol. II, p. 491). Non vi può essere allora prodotto netto, poichè i costi di produzione, secondo il sig. Say, consistono di rendita, salari e profitti. A pagina 508 egli dice: il valore di un prodotto, il valore di un servizio produttivo, il valore dei costi di produzione sono tutti valori simili, se si lascia che le cose seguano il loro corso naturale”. Se si sottrae un tutto da un tutto, non rimane nulla (Ricardo, Principles, cap. XXII, p. 512, nota). Per altro, come vedremo più tardi, anche Ricardo non ha mai confutato la falsa analisi di Smith del prezzo delle merci, la sua riduzione alla somma di valore dei redditi. Egli non se ne occupa e nelle sue analisi l’accetta come corretta nel senso che “astrae” dalla parte costante di valore delle merci. Egli ricade di quando in quando nella stessa concezione. [2] “In qualsiasi società il prezzo di ogni merce si risolve in definitiva nell’una e nell’altra di queste tre parti, oppure in tutte e tre queste parti” (salario, profitto, rendita) ... Si potrebbe forse pensare che sia necessaria una quarta parte per sostituire il capitale dell’agricoltore o per compensare il logorio del suo bestiame da lavoro e degli altri strumenti agricoli. Ma ai deve considerare che il prezzo di un qualsiasi strumento agricolo, un cavallo da lavoro, ad esempio, si compone a sua volta di queste tre stesse parti: la rendita della terra sulla quale è stato allevato, il lavoro necessario per assisterlo e allevarlo e i profitti dell’agricoltore, che anticipa al tempo stesso la rendita della sua terra e il salario del suo lavoro. Quantunque, quindi, il prezzo del grano possa coprire al tempo stesso il prezzo e il mantenimento del cavallo, il prezzo complessivo si risolverà tuttavia, immediatamente o in definitiva, in queste stesse tre parti: rendita, lavoro (ossia salario) e profitto (A, SMITH [Wealth of Nations], Libro I, cap. 6, Ediz. Wakefield, Vol. I, p. 135 sgg.). Metteremo in evidenza più in là come lo stesso A. Smith senta la contraddizione e l’inadeguatezza di questo sotterfugio, poichè non è che un sotterfugio, da parte tua, l’inviare da Erode a Pilato, quantunque egli non ci mostri da nessuna parte il reale investimento del capitale, in cui il prezzo del prodotto si risolva ultimately in queste tre parti, senza residuo e senza ulteriore progressus. [3] Proudhon esprime la sua incapacità a comprendere ciò nella formula semplicistica: l’ouvrier ne peut pas racheter jos propre produit:, perchè in esso si trova contenuto l’interesse, che è aggiunto al prix-de-revient. Ma come lo corregge il signor Eugène Forcade? “Se l’obiezione di Proudhon fosse vera, essa colpirebbe non solo i profitti del capitale, ma annullerebbe la possibilità stessa di esistenza dell’industria. Se l’operaio è costretto a pagare 100 quello per cui ha ricevuto solo 80, se il salario potesse ricomprare in un prodotto solamente il valore che vi ha messo, sarebbe come dire che l’operaio non può ricomprare nulla, che il salario non può pagare nulla. Di fatto, nel prezzo di fabbricazione vi è sempre qualche cosa di più del salario dell’operaio e nel prezzo di vendita qualche cosa di più del profitto del l’imprenditore, ad esempio il prezzo della materia prima, spesso pagato all’estero. Proudhon ha dimenticato l’accrescimento continuo dei capitale nazionale, ha dimenticato che questo accrescimento si verifica per tutti i lavoratori, tanto per gli imprenditori quanto per gli operai” (Revue des deux Mondes, 1848, vol. 24, p. 998). Ecco l’ottimismo della superficialità borghese, nella forma di saggezza che meglio le corrisponde. Innanzi tutto Forcade crede che l’operaio non potrebbe vivere, qualora non ricevesse, in aggiunta al valore che egli produce, un valore superiore, mentre al contrario il modo di produzione capitalistico sarebbe impossibile se l’operaio ricevesse effettivamente il valore che egli produce. In secondo luogo egli, giustamente, generalizza la difficoltà che Proudhon ha espresso soltanto sotto un punto di vista limitato. Il prezzo della merce contiene non soltanto un’eccedenza sul salario, ma anche un’eccedenza sul profitto, precisamente la parte di valore costante. Secondo il ragionamento di Proudhon neppure il capitalista potrebbe quindi ricomprare la merce con il suo profitto. E come risolve l’enigma Forcade? Mediante una frase senza senso: l’accrescimento del capitale. Quindi l’accrescimento continuo del capitale dovrà fra l’altro essere constatato anche per il fatto che l’analisi del prezzo delle merci, che l’economista politico si trova nella impossibilità di fare con un capitale di 100, diventa superflua nel caso di un capitale di 10.000. Che cosa si direbbe di un chimico che alla domanda: come si spiega che il prodotto del suolo contiene più carbonio del suolo? rispondesse: ciò si spiega col continuo accrescimento della produzione del suolo. La buona volontà di scoprire nei mondo borghese il migliore di tutti i mondi possibili sostituisce nell’economia volgare qualsiasi necessità di coltivare l’amore della verità e la ricerca scientifica. [4] “Il capitale circolante impiegato in materiali, materie prime e prodotti finiti si compone esso stesso di merci il cui prezzo necessario è formato dai medesimi elementi; di modo che, considerando la totalità delle merci in un paese, il comprendere questa parte del capitale circolante fra le parti costitutive del prezzo necessario (du prix nécessaire) significherebbe considerare due volte il medesimo elemento ” (Storch, Cours d’économie politique, II, p. 140). Per questi elementi del capitale circolante Storch intende la parte di valore costante (il capitale fisso è unicamente una forma diversa del circolante).“ E’ vero che il salario dell’operaio, al pari di quella parte di profitto dell’imprenditore, che consiste di salari, se questi si considerano come una parte dei mezzi di sussistenza, si compone ugualmente di merci acquistate al prezzo corrente, che a loro volta comprendono salari, rendite di capitale, rendite fondiarie e guadagni d’imprenditore... questa constatazione serve soltanto a provare che è impossibile scomporre il prezzo necessario nei suoi elementi più semplici ” (ivi, nota). Nelle sue Considération sur la nature du revenu national (Parigi, 1824), Storch, nella sua polemica contro Say, riconosce, è vero, l’assurdità alla quale conduce l’analisi sbagliata che risolve il valore delle merci in semplici redditi e denuncia giustamente l’insulsaggine di questi risultati — non dal punto di vista del singolo capitalista, ma da quello della nazione —; ma, per quanto lo riguarda, non progredisce di un passo nell’analisi del prix nécessaire, a proposito del quale nel suo Cours egli dichiara che è impossibile risolverlo nei suoi elementi effettivi anziché in una fittizia progressione all’infinito. “ È chiaro che il valore del prodotto annuo si divide in capitale da un lato e in profitto dall’altro e che ciascuna di queste parti di valore del prodotto annuo acquisterà regolarmente i prodotti di cui la nazione ha bisogno, sia per conservare il suo capitale che per rinnovare il suo fondo di consumo ” (pp. 134-135). ... Può essa (una famiglia di coltivatori diretti) abitare nei propri granai o nelle proprie stalle, mangiare le proprie sementi e foraggi, vestirsi del proprio bestiame da tiro, divertirsi con i propri arnesi? Secondo la tesi del sig. Say a tutte queste questioni bisognerebbe rispondere con un “ sì ” (pp. 135- 136) e “ ... Se si ammette che il reddito di una nazione è uguale al suo prodotto lordo, ossia che nessun capitale deve essere detratto da esso, bisogna anche ammettere che una nazione può spendere improduttivamente l’intero valore del suo prodotto annuo, senza danneggiare minimamente il suo reddito futuro ” (p. 147). “ I prodotti che costituiscono il capitale di una nazione, non sono consumabili” (p. 150). |
AVVERTENZA PER IL LETTORE Il testo del III libro del Capitale che viene qui riportato NON È UNA DELLE TRADUZIONI INTEGRALI DEL TESTO ORIGINALE che sono disponibili: esso infatti è una rivisitazione delle traduzioni esistenti (in italiano ed in francese) a cui sono state apportate le seguenti modifiche: 1 – non sono state riportate le note che Marx ed Engels richiamano nel testo (fatte salve alcune eccezioni); 2 – sono state introdotte delle modifiche per quanto riguarda gli esempi numerici in cui, per facilitare la lettura; a – sono state cambiate le unità di misura e le grandezze; b – diversi dati richiamati nella forma di testo sono stati trasformati in tabelle; c – in alcuni esempi numerici le cifre decimali sono state limitate a due e nel caso di numeri periodici, ad esempio 1/3 o 2/3, la cifra periodica è stata indicata con un apice (‘). Ci rendiamo conto che leggere un testo del Capitale in cui Marx formula esempi in Euro (€) invece che in Lire Sterline (Lst) o scellini potrebbe far sorridere e far pensare ad uno scherzo o ad una manipolazione che ha travisato il pensiero dell’Autore, avvertiamo invece il lettore che il testo è assolutamente fedele al pensiero originale e che ci siamo permessi di introdurre alcune “varianti” per consentire a coloro che non hanno dimestichezza con le unità di misura e monetarie inglesi di non bloccarsi di fronte a questa difficoltà e di facilitarne così la lettura o lo studio. In altre parti si sono invece mantenute le unità di misura e monetarie inglesi originali perchè la lettura non creava problemi di comprensione o per ragioni di fedeltà storica. Ci facciamo altresì carico dell’osservazione che Engels ha formulato nelle “considerazioni supplementari” poste all’inizio del III Libro, laddove, di fronte alle molteplici interpretazioni del testo che vennero fatte dopo la prima edizione, sostiene: “Nella presente edizione ho cercato innanzitutto di comporre un testo il più possibile autentico, di presentare, nel limite del possibile, i nuovi risultati acquisiti da Marx, usando i termini stessi di Marx, intervenendo unicamente quando era assolutamente necessario, evitando che, anche in quest’ultimo caso, il lettore potesse avere dei dubbi su chi gli parla. Questo sistema è stato criticato; si è pensato che io avrei dovuto trasformare il materiale a mia disposizione in un libro sistematicamente elaborato, en faire un livre, come dicono i francesi, in altre parole sacrificare l’autenticità del testo alla comodità del lettore. Ma non è in questo senso che io avevo interpretato il mio compito. Per una simile rielaborazione mi mancava qualsiasi diritto; un uomo come Marx può pretendere di essere ascoltato per se stesso, di tramandare alla posterità le sue scoperte scientifiche nella piena integrità della sua propria esposizione. Inoltre non avevo nessun desiderio di farlo: il manomettere in questo modo perchè dovevo considerare ciò una manomissione l’eredità di un uomo di statura così superiore, mi sarebbe sembrato una mancanza di lealtà. In terzo luogo sarebbe stato completamente inutile. Per la gente che non può o non vuole leggere, che già per il primo Libro si è data maggior pena a interpretarlo male di quanto non fosse necessario a interpretarlo bene — per questa gente è perfettamente inutile sobbarcarsi a delle fatiche”. Marx ed Engels non ce ne vogliano, ma posti di fronte alle molteplici “fughe” dallo studio da parte di persone che non possedevano una cultura accademica, fughe che venivano imputate alla difficoltà presentate dal testo, abbiamo deciso di fare uno “strappo” alle osservazioni di Engels, intervenendo in alcune parti avendo altresì cura di toccare il testo il meno possibile. Nel fare questo “strappo” eravamo tuttavia confortati dal fatto che, a differenza della situazione in cui Engels si trovava, oggi chi vuole accedere al testo “originale”, dispone di diverse edizioni in varie lingue. Coloro che volessero accostarsi al testo originale in lingua italiana si consigliano le seguenti edizioni:
Chi volesse accedere ad edizioni del Capitale e di altri testi di Marx in lingue estere, si propone di consultare il sito internet di seguito riportato:http://www.marxists.org/xlang/marx.htm |