IL CAPITALE LIBRO III SEZIONE VI TRASFORMAZIONE DEL PLUSPROFITTO IN RENDITA FONDIARIA CAPITOLO 47 GENESI DELLA RENDITA FONDIARIA CAPITALISTICA I. OSSERVAZIONI INTRODUTTIVE Si deve aver ben chiaro in che cosa consista propriamente la difficoltà nell’analisi della rendita fondiaria dal punto di vista dell’economia moderna, in quanto espressione teorica del modo di produzione capitalistico. Ciò non è stato ancora compreso perfino da un gran numero di scrittori più recenti, come dimostra ogni rinnovato tentativo di trovare una «nuova» spiegazione della rendita fondiaria. La novità consiste in questi casi quasi sempre nel ricadere in concetti da tempo superati. La difficoltà non consiste nello spiegare in generale il plusprodotto e il plusvalore ad esso corrispondente creato dal capitale agricolo. Questa questione è risolta invece dall’analisi del plusvalore, che tutto il capitale produttivo produce, in qualsiasi sfera sia investito. La difficoltà consiste nel dimostrare da dove, dopo che il plusvalore si è livellato tra i diversi capitali al profitto medio, cioè a una parte proporzionale, corrispondente alla loro grandezza relativa, del plusvalore complessivo che il capitale sociale nel suo insieme ha prodotto in tutte le sfere di produzione, da dove, dopo questo livellamento, dopo che sembra essere già avvenuta la ripartizione di tutto il plusvalore che è in generale da ripartire, da dove dunque venga fuori ancora la parte eccedente di questo plusvalore che il capitale investito nella terra paga al proprietario fondiario sotto forma di rendita fondiaria. Fatta completa astrazione dai motivi pratici, che stimolavano gli economisti moderni, in quanto portavoce del capitale industriale contro la proprietà fondiaria a indagare questo problema — motivi che noi indicheremo più chiaramente nel capitolo riguardante la storia della rendita fondiaria, il problema era di interesse decisivo per loro in quanto teorici. Ammettere che l’apparire della rendita per il capitale investito nell’agricoltura provenisse da una particolare azione della stessa sfera di investimento, da peculiari qualità della crosta terrestre, significava rinunciare al concetto stesso di valore, quindi rinunciare ad ogni possibilità di conoscenza scientifica in questo campo. Anche la semplice osservazione che la rendita è pagata dal prezzo del prodotto del suolo — il che si verifica perfino quando la rendita è pagata in natura, se l’affittuario deve trarne il suo prezzo di produzione — dimostrava l’assurdità del tentativo di spiegare l’eccesso di questo prezzo sul prezzo usuale di produzione, in altre parole di spiegare il relativo caro-prezzo dei prodotti dell’agricoltura con l’eccedenza della produttività naturale dell’industria agricola sulla produttività degli altri rami d’industria; al contrario quanto più produttivo è il lavoro, tanto più a buon mercato è ogni parte aliquota del suo prodotto, essendo di altrettanto più grande la massa dei valori d’uso in cui si rappresenta la stessa quantità di lavoro, quindi lo stesso valore. Tutta la difficoltà nell’analisi della rendita consisteva dunque nello spiegare l’eccedenza del profitto agricolo sul profitto medio, non il plusvalore ma il plusvalore eccedente proprio di questa sfera di produzione, quindi non il «prodotto netto», ma l’eccedenza di questo prodotto netto sul prodotto netto degli altri rami di industria. Il profitto medio è esso stesso un prodotto, una formazione del processo sociale di vita che si muove per conto proprio sotto rapporti storici di produzione ben determinati, un prodotto che, come abbiamo visto, presuppone una mediazione molto lunga. Per poter parlare in generale di una eccedenza sul profitto medio, questo stesso profitto medio deve già esistere quale misura e, in generale, come avviene nel modo di produzione capitalistico, quale regolatore della produzione. Nelle forme sociali, quindi, in cui non esiste ancora il capitale, che compie la funzione di spremere tutto il pluslavoro e di appropriarsi di prima mano tutto il plusvalore, forme sociali nelle quali il capitale non si è ancora sottomesso il lavoro sociale, o lo ha fatto solo sporadicamente, non può assolutamente esistere una rendita nel senso moderno della parola, una rendita come eccedenza sul profitto medio, cioè sulla parte proporzionale, spettante a ogni capitale singolo, del plusvalore prodotto dall’intero capitale sociale. L’ingenuità ad esempio del signor Passy (vedi più sotto) si dimostra già quando, a proposito della società primitiva, egli parla di rendita come di eccedenza sul profitto — su una forma sociale storicamente determinata del plusvalore, forma che dunque secondo il sig. Passy può quasi esistere anche senza società. Per i vecchi economisti, che in generale sono appena all’inizio dell’analisi del modo di produzione capitalistico, ai loro tempi non ancora sviluppato, l’analisi della rendita o non presentava difficoltà alcuna, oppure presentava difficoltà di tutt’altra natura. Petty, Cantillon ed in generale gli scrittori che sono più vicini ai tempi feudali, sostengono in generale che la rendita fondiaria è la forma normale del plusvalore, mentre il profitto per essi è ancora vagamente confuso con il salario, o al massimo appare loro come una parte di questo plusvalore estorta dal capitalista al proprietario fondiario. Questi scrittori partono quindi da una condizione, in cui in primo luogo la popolazione agricola costituisce ancora la parte di gran lunga preponderante della nazione ed in cui, in secondo luogo, il proprietario fondiario appare ancora come l’individuo che si appropria di prima mano il lavoro eccedente dei produttori diretti tramite il monopolio della proprietà fondiaria, in cui quindi la proprietà fondiaria appare ancora come la condizione fondamentale della produzione. Per essi poteva ancora non esistere una problematica che, al contrario, cerca di investigare dal punto di vista del modo di produzione capitalistico come accade che la proprietà fondiaria riesca a strappare al capitale una parte del plusvalore prodotto da esso (cioè estorto ai produttori diretti) e già appropriato di prima mano. Per i fisiocratici la difficoltà è già di altra natura. Essendo di fatto i primi portavoce sistematici del capitale, essi cercano di analizzare la natura del plusvalore in generale. Tale analisi coincide per essi con l’analisi della rendita, l’unica forma in cui per essi esiste il plusvalore. Perciò il capitale che frutta rendita, o capitale agricolo, è per essi l’unico capitale che produce plusvalore, ed il lavoro agricolo da esso posto in movimento è il solo lavoro che apporta plusvalore, quindi, del tutto giustamente dal punto di vista capitalistico, il solo lavoro produttivo. La produzione di plusvalore è per loro del tutto giustamente la cosa determinante. A parte gli altri meriti, che mostreremo nel Libro IV, essi hanno innanzitutto il grande merito di risalire dal capitale commerciale, che esercita la sua funzione esclusivamente nella sfera della circolazione, al capitale produttivo, in contrapposizione al sistema mercantilistico, che col suo grossolano realismo costituisce la vera e propria economia volgare di quel tempo, respingendo fra le quinte con i suoi interessi pratici gli inizi delle analisi scientifiche di Petty e dei suoi successori. Di passaggio, in questa critica del sistema mercantilistico, ci si riferisce solo alle sue concezioni di capitale di plusvalore. È stato già precedentemente messo in rilievo che il sistema monetario giustamente proclama come premessa e condizione della produzione capitalistica la produzione per il mercato mondiale e la trasformazione del prodotto in merce, quindi in denaro. Nel suo svilupparsi nel sistema mercantilistico, non è più la trasformazione del valore-merce in denaro, bensì la produzione del plusvalore che decide, ma dal punto di vista superficiale della sfera di circolazione e al tempo stesso in modo tale che questo plusvalore si presenta come denaro eccedente, come eccedenza della bilancia commerciale. Ma la cosa che esattamente caratterizza i commercianti e i fabbricanti interessati di quel periodo, e che giustamente corrisponde al periodo dello sviluppo capitalistico da essi rappresentato, è che nella trasformazione delle società agricole feudali in società industriali, e nella corrispondente lotta industriale delle nazioni sul mercato mondiale, il loro scopo principale è uno sviluppo accelerato del capitale, che si deve raggiungere non per la cosiddetta via naturale, ma attraverso mezzi coercitivi. Vi è un’enorme differenza se il capitale nazionale si trasforma gradualmente e lentamente in capitale industriale, oppure se questa trasformazione viene affrettata mediante l’imposta rappresentata dai dazi protettivi con cui essi colpiscono soprattutto proprietari fondiari, contadini medi e piccoli e artigiani, mediante l’espropriazione accelerata dei produttori autonomi diretti, mediante una violenta ed accelerata creazione e concentrazione dei capitali, in breve mediante un’accelerata introduzione delle condizioni del modo di produzione capitalistico. Vi è al tempo stesso una enorme differenza nello sfruttamento capitalistico ed industriale della forza produttiva naturale dalla nazione. Il carattere nazionale del sistema mercantilistico non è quindi una semplice frase sulla bocca dei suoi portavoce. Con il pretesto di occuparsi semplicemente della ricchezza della nazione e delle risorse dello Stato, essi praticamente proclamano gli interessi della classe capitalistica e l’arricchimento in generale come fine ultimo dello Stato e proclamano la società borghese contro l’antico Stato sovrannaturale. Ma al tempo stesso essi sono consci del fatto che lo sviluppo degli interessi del capitale e della classe capitalistica, della produzione capitalistica, è diventato il fondamento della potenza nazionale e della preponderanza nazionale nella società moderna. I fisiocratici hanno ragione, inoltre, quando affermano che in realtà ogni produzione di plusvalore, quindi anche ogni sviluppo del capitale, ha per sua base naturale la produttività del lavoro agricolo. Se gli esseri umani non sono in generale capaci di produrre in una giornata di lavoro una quantità maggiore di mezzi di sussistenza, quindi, nel senso stretto, una maggiore quantità di prodotto agricolo di quanto ogni lavoratore abbia bisogno per la sua propria riproduzione, se la spesa giornaliera di tutta la sua forza lavoro è sufficiente solamente a produrre i mezzi di sussistenza indispensabili per il suo bisogno individuale, non si potrebbe in generale parlare né di plusprodotto, né di plusvalore. Una produttività del lavoro agricolo superiore al bisogno individuale del lavoratore, è la base di ogni società ed è soprattutto la base della produzione capitalistica, che separa da una parte continuamente crescente della società dalla produzione dei mezzi di sussistenza diretti e, come dice Steuart, li trasforma in free hands (mani libere), rendendoli disponibili per lo sfruttamento in altre sfere. Ma che cosa si deve dire dei più recenti scrittori di economia, come Daire, Passy, ecc., che, al tramonto di tutta l’economia classica, addirittura al suo letto di morte, ripetono le più primitive concezioni sulle condizioni naturali del pluslavoro e quindi del plusvalore, e con ciò credono di dire qualche cosa di nuovo e di convincente sulla rendita fondiaria, dopo che questa rendita fondiaria si è da tempo sviluppata come forma particolare e parte specifica del plusvalore? E’ appunto una caratteristica dell’economia volgare ripetere cose che erano nuove, originali, profonde e giustificate in un certo grado di sviluppo oramai superato e ripeterle in un periodo in cui esse sono diventate banali, ammuffite e sbagliate. Essa dimostra così di non avere neppure un’idea dei problemi che hanno preoccupato l’economia classica. Essa li scambia con problemi che potevano essere posti solamente a un livello più basso dello sviluppo della società borghese. Allo stesso modo si comporta quando rumina senza fine e piena di autocompiacimento le tesi fisiocratiche sul libero scambio. Queste tesi hanno da lungo tempo perduto qualsiasi interesse teorico, nonostante che possano interessare praticamente questo o quello Stato. Nella economia naturale vera e propria, quando nessuna parte del prodotto agricolo, o solo una parte insignificante, entra nel processo di circolazione, ed ancora soltanto una porzione relativamente insignificante della parte del prodotto che rappresenta il reddito del proprietario fondiario, come per esempio, in molti latifondi dell’antica Roma, nelle ville di Carlo Magno e più o meno durante l’intero Medioevo (vedi VINCARD, Histoire du Travail [1845]) il prodotto ed il plusprodotto dei grandi possessi non consiste semplicemente dei prodotti del lavoro agricolo. Comprende anche i prodotti dell’artigianato industriale. Lavoro agricolo domestico e lavoro manifatturiero, come collaterali dell’agricoltura, che costituisce la base, sono la condizione di quel modo di produzione su cui si fonda questa economia naturale nell’antichità e nel Medioevo europei, come ancora oggi nelle comunità indiane, là dove la loro organizzazione tradizionale non è stata ancora distrutta. Il modo di produzione capitalistico dissolve completamente questo legame, processo questo che si può studiare su larga scala in Inghilterra precisamente durante l’ultimo terzo del XVIII secolo. Cervelli che si erano sviluppati in società più o meno semifeudali, ad esempio Herrenschwand, consideravano ancora alla fine del XVIII secolo questa separazione della manifattura dall’agricoltura come una temeraria avventura sociale, come un modo di esistenza estremamente rischioso. E perfino nelle economie agricole dell’antichità che mostrano maggiori analogie con l’agricoltura capitalistica, Cartagine e Roma, la somiglianza è maggiore con il sistema delle piantagioni che con la forma corrispondente dell’effettivo modo di sfruttamento capitalistico . Una analogia formale che però in tutti i punti essenziali appare una pura e semplice illusione a chi abbia compreso il modo di produzione capitalistico e non scopra, come fa il sig. Mommsen , il modo di produzione capitalistico in ogni economia monetaria — una analogia formale che in generale non si trova durante l’antichità nell’Italia continentale, ma soltanto fino a un certo grado in Sicilia, poichè questa isola serviva come una terra tributaria agricola per Roma, così che la sua agricoltura era essenzialmente rivolta all’esportazione. Qui si trovano affittuari nel senso moderno. Una concezione erronea della natura della rendita è basata sul fatto che la rendita nella sua forma naturale, in parte nelle decime per la Chiesa, in parte come curiosità perpetuata da vecchi contratti, si è trascinata dall’economia naturale del Medioevo, assolutamente in contrasto con le condizioni del modo di produzione capitalistico, fino ai tempi moderni. Ciò crea l’impressione che la rendita non derivi dal prezzo del prodotto agricolo ma dalla sua massa, quindi non dai rapporti sociali, ma dalla terra. Abbiamo già precedente mente messo in rilievo che, quantunque il plusvalore si presenti in un plusprodotto, viceversa un plusprodotto, nel senso di un semplice accrescimento della massa del prodotto, non rappresenta un plusvalore. Può rappresentare un minusvalore. Altrimenti l’industria cotoniera del 1860, confrontata con quella del 1840 dovrebbe presentare un enorme plusvalore, mentre al contrario il prezzo del filo è diminuito. La rendita può accrescersi enormemente in seguito ad una serie di anni di raccolto cattivo perché il prezzo del grano si accresce, quantunque questo plusvalore si presenti in una massa assolutamente decrescente di grano più caro. Viceversa, in seguito ad una serie di anni favorevoli, la rendita può diminuire, perché il prezzo diminuisce, quantunque la rendita diminuita sia rappresentata da una massa maggiore di grano a buon mercato. Si deve innanzitutto osservare, a proposito della rendita in prodotti, che essa è una semplice tradizione, tramandata da un modo di produzione sorpassato, e che trascina la sua esistenza come una rovina, la cui contraddizione con il modo di produzione capitalistico si mostra nel fatto che essa è scomparsa spontaneamente dai contratti privati e che è stata eliminata a forza come una incongruenza, là dove la legislazione è potuta intervenire, come in Inghilterra è accaduto per le decime ecclesiastiche. In secondo luogo, poi, dove essa ha continuato ad esistere, sulla base del modo di produzione capitalistico, non era altro e non poteva essere altro che una espressione travestita in foggia medioevale della rendita in denaro. Ad esempio, il quintale di grano costa 480 €. Una parte di questo quintale deve sostituire il salario in esso contenuto e deve essere venduta al fine di poter essere spesa di nuovo; un’altra parte deve essere venduta per pagare la sua quota di tasse. Sementi ed anche una parte del concime stesso entrano come merce nel processo di riproduzione, dovunque è sviluppato il modo di produzione capitalistico e con esso la divisione del lavoro sociale, devono dunque essere comperati come sostituzione e di nuovo una parte del quintale deve essere venduta, al fine di avere denaro per queste cose. Nella misura in cui non devono essere acquistati effettivamente come merce ma sono presi in natura dal prodotto stesso, per entrare di nuovo come condizioni di produzione nella sua riproduzione — il che si verifica non solo nell’agricoltura, ma in molti rami di produzione che producono capitale costante essi entrano nei calcoli come moneta di conto e vengono detratti come parte integrante del prezzo di costo. Il logorio del macchinario e del capitale fisso in generale deve essere sostituito in denaro. Infine viene il profitto che è calcolato in base alla somma di questi costi espressi in denaro effettivo o in moneta di conto. Questo profitto è rappresentato da una parte determinata del prodotto lordo, che è determinata dal suo prezzo. E la parte che rimane in più, costituisce la rendita. Se la rendita in prodotti stipulata per contratto è maggiore di questo resto determinato dal prezzo, essa non è una rendita, ma una detrazione dal profitto. Già a causa di questa possibilità la rendita in prodotti che non segue il prezzo del prodotto, ma che può ammontare a più o meno della rendita effettiva e che quindi può costituire non solo detrazione dal profitto, ma anche dalle parti costitutive della sostituzione di capitale, costituisce una forma antiquata. In realtà questa rendita in prodotti, nella misura in cui è una rendita non solamente di nome, ma di fatto, è determinata esclusivamente dall’eccedenza del prezzo del prodotto sui suoi costi di produzione. Solo che presuppone come costante questa grandezza variabile. Ma è una idea così simpatica pensare che il prodotto in natura è sufficiente, in primo luogo a mantenere il lavoratore, in secondo luogo a lasciare all’affittuario capitalista più nutrimento di quanto ne abbia bisogno e che l’eccedenza su questo costituisce la rendita naturale. Precisamente come se un fabbricante di cotonati ne fabbrica 200.000 m. Questi metri bastano non solo a vestire i suoi operai e a vestire più che abbondantemente sua moglie, tutta la sua discendenza e lui stesso, ma ancora a lasciare tessuto per la vendita e finalmente a pagare una forte rendita in tessuti. La cosa è così semplice! Si sottragga il costo di produzione dai 200.000 m. di cotonati ed una eccedenza di cotonati deve rimanere come rendita. Ma è in realtà una concezione ingenua sottrarre i costi di produzione supponiamo di 2.400.000 €. da 200.000 metri di cotonati, senza conoscere il prezzo di vendita dei cotonati, sottrarre denaro dai cotonati, detrarre da un valore d’uso in quanto tale un valore di scambio, e poi determinare l’eccedenza dei metri di cotonati sugli Euro. È peggio della quadratura del circolo, che almeno è fondato sul concetto dei limiti, in cui rette e curve si fondono. Ma questa è la ricetta del sig. Passy. Si sottragga denaro dai cotonati prima che i cotonati siano stati convertiti in denaro, nel vostro cervello o in realtà! L’eccedenza è la rendita, che però deve essere presa naturaliter (vedi ad esempio Karl Arnd) e non con diavolerie «sofistiche». Tutta questa restaurazione della rendita in natura proviene da questa sciocchezza, consistente nel detrarre il prezzo di produzione da tante e tante moggia di grano e nel sottrarre una somma di denaro da una misura di capacità. II. LA RENDITA IN LAVORO. Se si considera la rendita fondiaria nella sua forma più semplice, quella della rendita in lavoro, nella quale il produttore diretto coltiva durante una parte della settimana, con strumenti di lavoro (aratro, bestiame, ecc.) che gli appartengono di fatto o di diritto, il terreno che egli possiede di fatto, e lavora durante i restanti giorni sul fondo del proprietario, per il proprietario, senza compenso alcuno, la cosa è qui ancora del tutto chiara, identificandosi qui rendita e plusvalore. La rendita, non il profitto, è la forma in cui qui si esprime il pluslavoro non pagato. Fino a quale punto il lavoratore (self-sustaining serf, il servo della gleba che provvede da sé al suo sostentamento) possa qui guadagnare una eccedenza oltre i suoi mezzi indispensabili di sussistenza, quindi una eccedenza oltre ciò che nel modo di produzione capitalistico chiameremmo il salario, dipende, a parità di altre circostanze, dal rapporto in cui il suo tempo di lavoro si divide in tempo di lavoro per se stesso e in tempo di lavoro gratuito per il proprietario. Questa eccedenza oltre i mezzi necessari di sussistenza, il germe di ciò che appare come profitto nel modo di produzione capitalistico, è dunque completamente determinato dalla entità della rendita fondiaria, che in questo caso non soltanto è direttamente pluslavoro non pagato, ma appare anche come tale; è pluslavoro non pagato per il «proprietario» delle condizioni di produzione, che qui coincidono con la terra e, là dove differiscono dalla terra, sono un suo semplice accessorio. Che il prodotto del lavoratore a corvées debba essere qui sufficiente a sostituire oltre la sua sussistenza le sue condizioni di lavoro, è un fatto che rimane invariato in tutti modi di produzione, non essendo il risultato della loro forma specifica, ma una condizione naturale di ogni lavoro continuativo e riproduttivo in generale, di qualsiasi produzione prolungata, che è sempre al tempo stesso riproduzione, quindi anche riproduzione delle sue proprie condizioni di azione. È inoltre evidente che in tutte le forme in cui il lavoratore diretto rimane « possessore » dei mezzi di produzione delle condizioni di lavoro necessarie alla produzione dei propri mezzi di sussistenza, il rapporto di proprietà deve al tempo stesso affermarsi come un rapporto diretto di signoria e servitù, il produttore diretto quindi non è libero; una mancanza di libertà che può oscillare dalla servitù della gleba con corvées fino al puro e semplice obbligo tributario. Il produttore diretto, secondo la nostra premessa, si trova qui in possesso dei propri mezzi di produzione, delle condizioni di lavoro oggettivamente necessarie per la realizzazione del suo lavoro e la produzione dei suoi mezzi di sussistenza; egli coltiva il suo campo ed esercita in modo autonomo l’industria domestica rurale connessa a questa coltivazione. Questa autonomia non è annullata dal fatto che questi piccoli agricoltori possono formare fra di essi, all’incirca come avviene in India, una comunità di produzione più o meno naturale, poiché qui si tratta soltanto di autonomia rispetto al proprietario nominale della terra. In tali condizioni il pluslavoro per il proprietario nominale della terra può essere estorto loro soltanto con una coercizione extra economica, qualsiasi forma essa possa assumere . Ciò differisce dall’economia schiavistica o di piantagione, in quanto lo schiavo lavora qui con condizioni di produzione appartenenti ad altri e non in modo autonomo. Sono quindi necessari rapporti personali di dipendenza, mancanza di libertà personale, non importa fino a che punto, ed esser legato alla terra come suo accessorio, una servitù nel vero e proprio senso della parola. Se non sono i proprietari fondiari privati, ma è, come in Asia, lo Stato che si contrappone ad essi direttamente come proprietario fondiario e contemporaneamente come sovrano, rendita e tasse coincidono, o piuttosto non vi è tassa che differisca da questa forma della rendita fondiaria. In tali casi il rapporto di dipendenza, sia politico che economico, non deve necessariamente avere una forma più dura di quella che è comune a tutti i sudditi nei confronti di questo Stato. Lo Stato è qui il supremo proprietario fondiario, la sovranità è qui la proprietà terriera concentrata su scala nazionale. Ma d’altro lato non esiste proprietà privata della terra, sebbene vi sia il possesso e l’uso tanto privato che comune della terra. La specifica forma economica, in cui il pluslavoro non pagato è succhiato ai produttori diretti, determina il rapporto di signoria e servitù, come esso è originato dalla produzione stessa e da parte sua reagisce su di essa in modo determinante. Ma su ciò si fonda l’intera configurazione della comunità economica che sorge dai rapporti di produzione stessi e con ciò insieme la sua specifica forma politica. E’ sempre il rapporto diretto tra i proprietari delle condizioni di produzione e i produttori diretti — un rapporto la cui forma ogni volta corrisponde sempre naturalmente ad un grado di sviluppo determinato dei modi in cui si attua il lavoro e quindi della sua forza produttiva sociale — in cui noi troviamo l’intimo arcano, il fondamento nascosto di tutta la costruzione sociale e quindi anche della forma politica del rapporto di sovranità e dipendenza, in breve della forma specifica dello Stato in quel momento. Ciò non impedisce che la medesima base economica — medesima per ciò che riguarda le condizioni principali — possa manifestarsi in infinite variazioni o gradazioni, dovute a numerose e diverse circostanze empiriche, condizioni naturali, rapporti di razza, influenze storiche che agiscono dall’esterno ecc.: variazioni e gradazioni che possono essere comprese soltanto mediante un’analisi di queste circostanze empiriche date. Per quanto riguarda la rendita in lavoro, la più semplice e originaria forma della rendita, è fino qui evidente: la rendita è qui la forma originaria del plusvalore e coincide con esso. Inoltre però il coincidere del plusvalore con il lavoro altrui non pagato non richiede di essere analizzato qui, in quanto esso esiste ancora nella sua forma visibile, tangibile, poiché il lavoro del produttore diretto per se stesso è ancora separato spazialmente e temporalmente dal suo lavoro per il proprietario fondiario e poiché quest’ultimo lavoro appare direttamente nella forma brutale di lavoro forzato a vantaggio di un terzo. Nel medesimo modo la «qualità» che la terra ha di fruttare una rendita è qui ridotta ad un segreto manifestamente svelato, poiché alla natura che fornisce la rendita appartengono anche la forza-lavoro umana incatenata al terreno ed il rapporto di proprietà che costringe il proprietario della forza-lavoro a spremerla ed a mantenerla attiva oltre la misura che sarebbe richiesta per il soddisfacimento dei propri bisogni essenziali. La rendita consiste direttamente nell’appropriazione, da parte del proprietario fondiario, di questo dispendio eccedente di forza-lavoro, poiché il produttore diretto non gli paga alcun’altra rendita. In questo caso in cui non soltanto plusvalore e rendita sono identici, ma il plusvalore possiede ancora tangibilmente la forma di pluslavoro, le condizioni o i limiti naturali della rendita sono ben visibili, perché lo sono in generale quelli del pluslavoro. In primo luogo, il produttore diretto deve possedere sufficiente forza-lavoro e in secondo luogo le condizioni naturali del suo lavoro, quindi anzitutto il terreno da lui coltivato deve essere abbastanza fertile, in una parola, la produttività naturale del suo lavoro deve essere abbastanza grande da lasciargli la possibilità di lavoro eccedente oltre il lavoro necessario per il soddisfacimento dei suoi propri bisogni essenziali. Non è questa possibilità che crea la rendita, ma soltanto la coercizione che fa della possibilità una realtà. Ma la possibilità stessa è legata a condizioni naturali soggettive e oggettive. Anche in questo non vi è assolutamente nulla di misterioso. Se la forza-lavoro è esigua e le condizioni naturali del lavoro povere, allora il pluslavoro è esiguo, ma sono anche esigui da un lato i bisogni dei produttori, e d’altro lato il numero relativo degli sfruttatori del pluslavoro e infine il plusprodotto in cui si realizza questo pluslavoro poco redditizio per questo esiguo numero di proprietari sfruttatori. Infine la rendita in lavoro implica di per se stessa che, presupponendo che rimangano invariate tutte le altre circostanze, dipenderà interamente dal relativo ammontare del pluslavoro o della corvée fino a qual punto il produttore diretto sarà capace di migliorare la sua posizione, di arricchirsi, di produrre una eccedenza sui mezzi di sussistenza indispensabili o, se vogliamo anticipare il modo capitalistico di esprimersi, se e fino a qual punto egli può produrre un profitto per se stesso, ossia una eccedenza oltre il suo salario da lui stesso prodotto. La rendita è qui la forma normale del pluslavoro, forma che tutto assorbe, e, per così dire, è legittima ed è ben lungi dall’essere una eccedenza sul profitto, ossia in questo caso su una qualsiasi altra eccedenza oltre il salario. Al contrario, non soltanto il volume di un tale profitto, ma anche la sua esistenza, dipende, restando invariate le altre circostanze, dal volume della rendita, ossia del pluslavoro da fornirsi forzatamente al proprietario. Alcuni storici hanno espresso la loro meraviglia perché, essendo il produttore diretto non proprietario ma soltanto possessore e appartenendo in realtà tutto il suo pluslavoro de jure al proprietario fondiario, è stato in generale in queste condizioni uno sviluppo autonomo di patrimoni e, relativamente parlando, di ricchezza da parte dei prestatori di corvées o servi della gleba. È, tuttavia, evidente che la tradizione deve avere una parte preponderante in queste condizioni naturali e non sviluppate, su cui si fondano questo rapporto sociale di produzione e il modo di produzione ad esso corrispondente. E inoltre chiaro che qui, come sempre, è nell’interesse della parte dominante della società di sanzionare come legge l’ordine esistente e di fissare come legali i suoi limiti dati dall’uso e dalla tradizione. Fatta astrazione da ogni altra cosa, ciò del resto si attua di per se stesso, allorché la costante riproduzione della base dell’ordine esistente, del rapporto che è alla base di esso, prende con l’andare del tempo una forma regolata e ordinata; e tale regola e ordine sono essi stessi un elemento indispensabile di ogni modo di produzione che deve acquisire stabilità sociale e rendersi indipendente dal puro caso o dall’arbitrio. Essi sono appunto la forma della sua stabilizzazione sociale e quindi della loro relativa emancipazione dal puro arbitrio e dal puro caso. Essi assumono questa forma mediante condizioni di stagnazione sia del processo di produzione, sia dei rapporti sociali ad esso corrispondenti, mediante la pura e semplice reiterata riproduzione di se stessi. Se ciò continua per un certo tempo, questo ordine si consolida come uso e tradizione, e viene infine sanzionato come una legge espressa. Poiché la forma di questo pluslavoro, il lavoro gratuito, si fonda sulla mancanza di sviluppo di tutte le forze produttive sociali del lavoro, sulla rozzezza dello stesso modo di lavoro, essa deve naturalmente assorbire una parte aliquota del lavoro complessivo dei produttori diretti molto più piccola di quella che viene assorbita in modi di produzione sviluppati e in particolare nella produzione capitalistica. Supponiamo ad esempio che il lavoro gratuito per i proprietari terrieri sia stato originariamente di due giorni alla settimana. Questi due giorni alla settimana di lavoro gratuito sono fissi, sono una grandezza costante, regolata legalmente mediante il diritto consuetudinario o scritto. Ma la produttività dei rimanenti giorni della settimana, di cui dispone il produttore diretto stesso, è una grandezza variabile, che deve svilupparsi nel corso della sua esperienza, così come i nuovi bisogni che impara a conoscere, così come l’espansione del mercato per il suo prodotto, la crescente sicurezza con cui egli dispone di questa parte della sua forza-lavoro, tutto ciò lo spingerà ad una più intensa applicazione della sua forza-lavoro: a proposito di ciò non si deve dimenticare che l’impiego di questa forza-lavoro non è affatto limitato all’agricoltura ma include l’industria domestica rurale. É qui ammessa la possibilità di un certo sviluppo economico, naturalmente in dipendenza dal favore delle circostanze, dal carattere razziale innato, ecc. III. LA RENDITA IN PRODOTTI. La trasformazione della rendita in lavoro nella rendita in prodotti, dal punto di vista economico, non cambia in nulla l’essenza della rendita fondiaria. Questa essenza, nelle forme che qui abbiamo considerato consiste nel fatto che la rendita è la sola forma predominante e normale del plusvalore e del pluslavoro; si esprime pure dicendo che la rendita è l’unico pluslavoro o l’unico plusprodotto che il produttore diretto, il quale si trova in possesso delle condizioni di lavoro necessarie per la sua propria riproduzione, deve fornire al proprietario della terra, che in questa situazione è la condizione di lavoro che comprende tutto il resto; e dicendo che d’altra parte è soltanto la terra che si contrappone a lui come condizione di lavoro che si trova in proprietà di altri, resa autonoma nei suoi confronti e personificata nel proprietario fondiario. Nella misura in cui la rendita in prodotti è la forma predominante e più largamente sviluppata della rendita fondiaria, essa è ancora, del resto, sempre più o meno accompagnata da sopravvivenze della forma precedente, cioè dalla rendita che deve essere corrisposta direttamente in lavoro, ossia con lavoro gratuito e ciò avviene ugualmente, che il proprietario fondiario sia un privato oppure lo Stato. La rendita in prodotti presuppone un più elevato stato di incivilimento del produttore diretto, quindi un più elevato grado di sviluppo del suo lavoro e della società in generale; e si distingue dalla forma precedente per il fatto che il pluslavoro non deve essere più compiuto nella sua forma naturale, quindi anche non più sotto la sorveglianza diretta e la coercizione del proprietario fondiario o dei suoi rappresentanti; il produttore diretto è spinto dalla forza delle circostanze, anziché dalla diretta coercizione, e dalla norma giuridica anziché dalla frusta, ad eseguire il pluslavoro sotto la sua propria responsabilità. La plusproduzione, nel senso di produzione oltre i bisogni indispensabili del produttore diretto, fuori e dentro il campo di produzione che gli appartiene di fatto, del terreno da lui stesso sfruttato invece che come prima sul fondo signorile accanto e al di fuori del suo, è già diventata una regola che va da sè. In questo rapporto il produttore diretto dispone più o meno dell’impiego di tutto il suo tempo di lavoro, sebbene come prima una parte di questo tempo di lavoro, originariamente all’incirca l’intera parte eccedente di esso, vada al proprietario fondiario senza compenso alcuno; soltanto che il proprietario fondiario non la riceve più direttamente nella forma naturale sua propria, ma nella forma naturale del prodotto in cui essa si realizza. La molesta interruzione provocata dal lavoro per i proprietari fondiari (vedi Libro I, cap. VIII, 2, Fabbricante e boiardo ) che interviene ogni volta disturbano più o meno la produzione del servo, secondo il modo in cui è regolato il lavoro servile, scompare là dove la rendita in prodotti è allo stato puro, o almeno è ridotta a brevi intervalli durante l’anno, laddove continuano a sussistere certe prestazioni gratuite accanto alla rendita in prodotti. Il lavoro del produttore per se stesso e il suo lavoro per il proprietario non sono più manifestamente separati nel tempo e nello spazio. Questa rendita in prodotti, nella sua forma pura, sebbene si possa prolungare sporadicamente in modi e rapporti di produzione più altamente sviluppati, presuppone come prima una economia naturale, cioè che le condizioni di produzione dell’azienda siano completamente, o almeno per la maggior parte, prodotte nell’azienda stessa, sostituite e riprodotte direttamente dal suo prodotto lordo. Presuppone inoltre l’unione d’industria domestica rurale e agricoltura; il plusprodotto, che costituisce la rendita, è il prodotto di questo lavoro familiare agricolo ed industriale insieme, sia che la rendita in prodotti includa più o meno prodotti industriali, come spesso avviene nel Medioevo, sia che venga fornita solamente nella forma del prodotto della terra propriamente detto. In questa forma di rendita non è affatto necessario che la rendita in prodotti, in cui si rappresenta il pluslavoro, debba esaurire l’intero lavoro eccedente della famiglia rurale. In confronto con la rendita in lavoro è dato al produttore un più vasto campo per guadagnare tempo per lavoro eccedente il cui prodotto appartiene a lui stesso, così come il prodotto del suo lavoro che soddisfa i suoi bisogni essenziali. Del pari con questa forma sorgono maggiori differenze nella situazione economica dei singoli produttori diretti. Per lo meno vi è la possibilità che ciò avvenga e la possibilità che questo produttore diretto abbia acquistato i mezzi per sfruttare a sua volta egli stesso direttamente lavoro altrui. Tuttavia ciò qui non ci riguarda, dato che abbiamo a che fare con la forma pura della rendita in prodotti. Noi non possiamo addentrarci nelle infinite diverse combinazioni in cui le diverse forme della rendita si uniscono, si alterano e si mescolano. A causa della forma della rendita in prodotti connessa ad un tipo determinato del prodotto e della produzione stessa, a causa della unione ad essa indispensabilmente di agricoltura e industria domestica, a causa della quasi completa autosufficienza che la famiglia contadina acquista in tal modo, a causa della sua indipendenza dal mercato e dal movimento produttivo e storico della parte della società al di fuori di essa, in breve a causa del carattere dell’economia naturale in generale, questa forma è la più adatta a diventare la base di condizioni sociali stazionarie, come vediamo ad esempio in Asia. Qui, come nella forma precedente della rendita in lavoro, la rendita fondiaria è la forma normale del plusvalore e quindi del pluslavoro, ossia dell’intero lavoro eccedente che il produttore diretto deve fornire senza contropartita di fatto, quindi forzatamente — quantunque questa costrizione non gli si presenti più dinanzi nell’antica forma brutale — al proprietario della sua condizione di lavoro più essenziale, la terra. Il profitto, se noi, falsamente anticipando, così chiamiamo quella porzione dell’eccedenza del lavoro del produttore diretto oltre il lavoro necessario e che egli stesso si appropria, tanto poco determina la rendita in prodotti, che esso cresce piuttosto alle spalle della rendita e trova il suo confine naturale nel volume della rendita in prodotti. Quest’ultima può avere un volume che mette seriamente in pericolo la riproduzione delle condizioni di lavoro, dei mezzi di produzione stessi, che rende più o meno impossibile l’ampliamento della produzione e costringe i produttori diretti al minimum fisico di mezzi di sussistenza. Ciò si verifica in particolare là dove questa forma è scoperta e sfruttata da una nazione commerciale onquistatrice, come per esempio dagli inglesi in India. IV. LA RENDITA IN DENARO. Per rendita in denaro intendiamo qui — a differenza della rendita fondiaria industriale e commerciale che si fonda sul modo di produzione capitalistico e che è soltanto un’eccedenza sopra il profitto medio — la rendita fondiaria che deriva da una semplice metamorfosi della rendita in prodotti, la quale a sua volta è soltanto una modificazione della rendita in lavoro. Invece di consegnare il prodotto, il produttore diretto deve qui pagare al suo proprietario fondiario (che può essere lo Stato o un individuo privato) il prezzo corrispondente. Un’eccedenza di prodotti nella sua forma naturale non è più sufficiente; deve essere convertita dalla sua forma naturale nella forma monetaria. Quantunque il produttore diretto continui a produrre egli stesso come prima per lo meno la maggior parte dei suoi mezzi di sussistenza, una certa parte del suo prodotto deve ora essere convertita in merce, deve essere prodotta come merce. Il carattere dell’intero modo di produzione viene allora più o meno modificato. Esso perde la sua indipendenza, non è più staccato dal flesso sociale. La proporzione dei costi di produzione, che comprendono ora in misura più o meno grande esborsi in denaro, diventa ora un fattore determinante. Per lo meno assume un’importanza determinata l’eccedenza di quella parte del prodotto lordo che deve essere convertita in denaro su quella parte che deve servire da un lato come mezzo di riproduzione, dall’altro come mezzo diretto di sussistenza. Tuttavia la base di questo tipo di rendita, sebbene si approssimi al suo dissolvimento, rimane la stessa della rendita in prodotti, che rappresenta il punto di partenza. Il produttore diretto rimane ancora il possessore della terra o per eredità, o per qualche altro diritto tradizionale, e deve eseguire per il proprietario della terra, in quanto proprietario di questa sua essenziale condizione di produzione, lavoro forzato addizionale, ossia lavoro non pagato, lavoro fornito senza equivalente alcuno, nella forma di plusprodotto convertito in denaro. La proprietà delle altre condizioni di lavoro che non siano la terra, come strumenti agricoli ed altre cose mobili, passa ai produttori diretti già nelle precedenti forme di rendita, prima di fatto poi legalmente e tale stato di cose costituisce a maggior ragione una premessa per la forma della rendita in denaro. La trasformazione della rendita in prodotti in rendita in denaro che si verifica prima sporadicamente, poi su una scala più o meno nazionale, presuppone già un considerevole sviluppo del commercio, dell’industria urbana, della produzione di merci in generale e con ciò della circolazione monetaria. Presuppone inoltre che il prodotto abbia un prezzo di mercato e che esso sia venduto più o meno al suo valore, il che non era affatto necessario nelle forme precedenti. Nell’Europa Orientale noi possiamo ancora vedere, in parte, verificarsi questa trasformazione sotto i nostri occhi. In quale scarsa misura essa possa essere realizzata senza un certo sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro, lo dimostrano diversi falliti tentativi di introdurre questa trasformazione ai tempi degli imperatori romani, tutti finiti con il ritorno alla rendita in prodotti, dopo che si era cercato di convertire in rendita monetaria almeno quella parte della rendita in prodotti che doveva essere pagata come imposta allo Stato. La stessa difficoltà della transizione, si riscontra ad esempio in Francia nel periodo pre rivoluzionario, quando la rendita in denaro era inquinata e falsata con residui delle forme precedenti. La rendita in denaro, come forma modificata e antitetica della rendita in prodotti, è la forma ultima e insieme la forma sotto la quale avviene la dissoluzione di quel tipo di rendita fondiaria che noi abbiamo fino ad ora considerato, cioè della rendita fondiaria come forma normale del plusvalore e del pluslavoro non pagato che deve essere fornito al proprietario delle condizioni di produzione. Nella sua forma pura questa rendita, come la rendita in lavoro e la rendita in prodotti, non rappresenta una eccedenza oltre il profitto. Nel suo concetto stesso è compreso il profitto. Nella misura in cui il profitto sorge di fatto come una parte a sé del lavoro eccedente accanto alla rendita, la rendita in denaro, come pure la rendita nelle sue forme precedenti, è pur sempre ancora il limite normale di questo profitto embrionale, che può solo svilupparsi in rapporto alle possibilità di sfruttamento sia del lavoro eccedente proprio, sia del lavoro altrui, che rimane dopo che è stato compiuto il pluslavoro rappresentato dalla rendita in denaro. Se un profitto sorge effettivamente accanto a questa rendita, questo profitto non costituisce quindi un limite per la rendita, ma è viceversa la rendita che costituisce un limite a questo profitto. Ma, come abbiamo già detto sopra, la rendita in denaro è al tempo stesso la forma sotto la quale avviene la dissoluzione della rendita fondiaria che noi abbiamo sin qui esaminato, di quella rendita che prima facie coincide con il pluslavoro e con il plusvalore, della rendita fondiaria come forma normale e dominante del plusvalore. Nel suo ulteriore sviluppo la rendita in denaro deve portare — facendo astrazione da tutte le forme intermediarie, come, per esempio, quella del piccolo contadino affittuario — alla trasformazione della terra in proprietà libera del contadino oppure alla forma propria del modo di produzione capitalistico, alla rendita pagata dall’affittuario capitalista. Con l’avvento della rendita in denaro il rapporto tradizionale, sancito dal diritto consuetudinario, tra il proprietario della terra e i suoi sudditi che possedevano e lavoravano una parte delle sue terre, si trasforma in un puro rapporto monetario contrattuale regolato da rigide norme del diritto positivo. Colui che possiede il terreno e lo coltiva diventa in sostanza un semplice affittuario. Questa trasformazione serve, da un lato, se i rapporti generali di produzione lo permettono dagli altri punti di vista, ad espropriare gradualmente i vecchi contadini possessori e a mettere al loro posto un affittuario capitalista: d’altro lato porta al riscatto del vecchio possessore, tributario della rendita, e alla sua trasformazione in contadino indipendente, con tutti i diritti di proprietà sul terreno da lui coltivato. Inoltre, la trasformazione della rendita in natura in rendita in denaro non è soltanto necessariamente accompagnata, ma perfino preceduta dalla formazione di una classe di giornalieri nullatenenti che prestano la loro opera per denaro. Durante il periodo in cui questa classe si viene formando, quando essa appare ancora soltanto sporadicamente, si sviluppa necessariamente presso i più agiati tra i contadini tributari di rendita la consuetudine di sfruttare gli operai agricoli per proprio conto, precisamente come nei tempi feudali i servi della gleba più ricchi usavano impiegare servi per loro conto. Essi acquistano in tal modo gradualmente la possibilità di accumulare un certo patrimonio e di trasformare se stessi in futuri capitalisti. Fra i vecchi possessori del terreno lavoranti in proprio sorge così un vivaio di affittuari capitalisti, il cui sviluppo è condizionato dallo sviluppo generale della produzione capitalistica al di fuori della campagna vera e propria. Questa classe si accresce molto rapidamente quando favorevoli circostanze vengono in suo aiuto, come si verificò nel XVI secolo in Inghilterra, periodo in cui la progressiva svalutazione del denaro l’arricchì a spese del proprietario fondiario, grazie ai tradizionali contratti di affitto a lunga scadenza. Inoltre non appena la rendita assume la forma di rendita in denaro e con ciò il rapporto fra il contadino che paga la rendita e il proprietario fondiario diventa un rapporto contrattuale — trasformazione questa che non è possibile, a meno che il mercato mondiale, il commercio e la manifattura abbiano raggiunto un livello relativamente alto di sviluppo — fa necessariamente la sua comparsa l’affitto della terra a capitalisti, i quali fino a questo momento erano rimasti al di fuori dei confini della campagna e che ora trasferiscono nella campagna e nell’agricoltura capitali guadagnati nelle città e i metodi di gestione capitalistici già sviluppati, cioè la creazione del prodotto nella forma di una semplice merce e come un semplice mezzo di appropriarsi plusvalore. Questa forma può diventare la regola generale soltanto nei paesi che dominano il mercato mondiale durante il passaggio dal modo di produzione feudale a quello capitalistico. Quando l’affittuario capitalista si interpone fra il proprietario fondiario e il contadino che effettivamente lavora la terra, tutti i rapporti derivanti dal vecchio modo di produzione esistente nella campagna sono spezzati. L’affittuario diventa l’effettivo comandante di questi lavoratori agricoli e l’effettivo sfruttatore del loro plusvalore, mentre il proprietario fondiario mantiene dei rapporti diretti, e precisamente dei semplici rapporti monetari e contrattuali, ormai soltanto con questo affittuario capitalista. Ciò trasforma anche la natura della rendita non soltanto di fatto o occasionalmente, come già si era verificato in parte sotto le forme precedenti, ma normalmente nella sua forma riconosciuta e dominante. Da forma normale del plusvalore e del pluslavoro essa si riduce ad eccedenza di questo pluslavoro oltre la parte che il capitalista sfruttatore si appropria sotto forma di profitto; così come questi estrae ora direttamente tutto il pluslavoro — profitto ed eccedenza oltre il profitto — lo incamera e lo monetizza nella forma del plusprodotto totale. Ed è solamente una parte eccedente di questo plusvalore da lui estratto in forza del suo capitale, mediante lo sfruttamento diretto del lavoratore agricolo, che egli cede al proprietario fondiario come rendita. L’importo maggiore o minore che egli cede è determinato, in media, come limite, dal profitto medio che il capitale frutta nelle sfere di produzione non agricole e dai prezzi di produzione non agricoli regolati da questo profitto medio. Da forma normale del plusvalore e del pluslavoro la rendita si è ora trasformata in un’eccedenza — propria di una particolare sfera di produzione, quella agricola — sulla parte del pluslavoro rivendicata dal capitale come spettantegli a priori e normaliter. Invece della rendita, il profitto è ora diventato la forma normale del plusvalore, e la rendita non è più ormai che una forma, autonomizzata in particolari condizioni, non del plusvalore in generale, ma di una determinata propaggine dello stesso, del plusprofitto. Non è necessario indagare ulteriormente come a questa trasformazione corrisponda una trasformazione graduale del modo di produzione. Ciò è dimostrato dal semplice fatto che la cosa normale per l’affittuario capitalista è produrre il prodotto del suolo come merce e che, mentre precedentemente soltanto l’eccedenza sopra i suoi mezzi di sussistenza era convertita in merce, ora soltanto una parte relativamente piccola di queste merci si trasforma per lui in mezzi di sussistenza. Non è solamente la terra, ma il capitale che ha sottomesso direttamente a sè e alla propria produttività il lavoro agricolo. Il profitto medio e il prezzo di produzione da esso regolato, si forma, al di fuori dei rapporti propri della campagna, nella sfera del commercio cittadino e della manifattura. Il profitto del contadino tributario di rendita non entra in esso come un elemento livellatore, poiché il suo rapporto verso il proprietario fondiario non è capitalistico. Se egli consegue un profitto, ossia realizza un’eccedenza sopra i suoi mezzi di sussistenza necessari, sia mediante il proprio lavoro, sia sfruttando il lavoro di altri, ciò avviene al di fuori del rapporto normale. A parità di circostanze, la misura di questo profitto non determina la rendita, ma al contrario, è determinata dalla rendita quale suo limite. L’elevato saggio del profitto nel Medioevo non è dovuto solo alla composizione inferiore del capitale, in cui predomina il capitale variabile, investito in salari. È dovuto anche alla truffa esercitata ai danni della campagna, all’appropriazione di una parte della rendita del proprietario e del reddito dei suoi sudditi. Mentre la campagna nel Medioevo sfrutta politicamente la città, là dove il feudalesimo non è stato spezzato da un eccezionale sviluppo delle città, come in Italia, la città d’altro lato, dappertutto e senza eccezione, sfrutta la campagna economicamente, con i suoi prezzi di monopolio, il suo sistema fiscale, la sua organizzazione corporativa, la sua frode commerciale diretta e la sua usura. Ci si potrebbe immaginare che il semplice avvento dell’affittuario capitalista nella produzione agricola dia la dimostrazione che il prezzo dei prodotti sulla terra, che avevano sempre fornito una rendita in una forma o nell’altra, dovesse superare i prezzi di produzione della manifattura, almeno al tempo di questo avvento: e ciò perché il prezzo di tali prodotti aveva raggiunto il livello di un prezzo di monopolio, o perché era aumentato fino a toccare il valore dei prodotti stessi, ed il loro valore di fatto superava il prezzo di produzione regolato dal profitto medio. Se così non fosse stato, l’affittuario capitalista non avrebbe potuto realizzare innanzitutto il profitto medio dal prezzo di questi prodotti, dati i prezzi esistenti dei prodotti della terra, ed ancora pagare con questo stesso prezzo un’eccedenza sui suo profitto sotto forma di rendita. Si potrebbe dedurre da ciò che il saggio generale dei profitto, che guida l’affittuario capitalista nei suo contratto con il proprietario della terra, era formato senza includere la rendita e perciò, quando questo saggio generale del profitto interviene nella produzione agricola come elemento regolatore, trova questa eccedenza già pronta e la paga al proprietario della terra. È in questo modo tradizionale che, ad esempio, il sig. Rodbertus spiega la questione. Ma: Primo. Questo avvento dei capitale come forza autonoma e dirigente nell’agricoltura non si verifica in una volta e in generale, ma gradualmente e in particolari rami di produzione. Esso investe in un primo tempo non l’agricoltura propriamente detta, ma rami di produzione come l’allevamento del bestiame, specialmente l’allevamento degli ovini, il cui principale prodotto, la lana, ai sorgere del l’industria, offre in un primo momento un’eccedenza costante del prezzo di mercato sul prezzo di produzione, eccedenza che scompare solo più tardi. Così in Inghilterra durante il XVI secolo. Secondo. Poiché questa produzione capitalistica appare dapprima soltanto sporadicamente, non si può obiettare nulla all’ipotesi che essa si impossessi all’inizio solamente di quelle estensioni di terra che, a causa della loro particolare fertilità o della loro posizione particolarmente favorevole, possono fornire nell’insieme una rendita differenziale. Terzo. Ammesso pure che al tempo dell’avvento di questo modo produzione, che presuppone di fatto un peso crescente della domanda da parte della città, i prezzi del prodotto della terra fossero più elevati del prezzo di produzione, come ad esempio era indubbiamente il caso dell’Inghilterra, nell’ultimo terzo del XVII secolo, non appena tuttavia questo modo di produzione si sarà tratto fuori dalla semplice sussunzione dell’agricoltura da parte del capitale, e non appena il miglioramento dell’agricoltura e la riduzione del suo costo di produzione, che accompagnano necessariamente il suo sviluppo, si saranno verificati, l’equilibrio verrà ristabilito mediante una reazione, cioè una caduta del prezzo dei prodotti della terra, come si verificava nella prima metà del XVIII secolo in Inghilterra. In questo modo tradizionale, dunque, non si può spiegare la rendita come eccedenza sul profitto medio. Quali che siano le circostanze storiche che la rendita trova al suo primo apparire, una volta che abbia messo radici, non può esistere che nelle moderne condizioni precedentemente esposte. Finalmente, nella trasformazione della rendita in prodotti, in rendita in denaro, si deve notare che con essa, la rendita capitalizzata, il prezzo della terra, e, con ciò, la sua alienabilità e alienazione, diventano degli elementi essenziali, e che in conseguenza non soltanto il contadino precedentemente tributario della rendita si può trasformare in proprietario indipendente, ma anche gente di città ed altre persone fornite di denaro possono acquistare terreni per affittarli sia a contadini che a capitalisti e fruire della rendita nella forma di interesse del loro capitale così investito; che quindi anche questa circostanza favorisce la trasformazione del precedente modo di sfruttamento, del rapporto fra il proprietario e il coltivatore effettivo e della rendita stessa. V. LA MEZZADRIA E LA PROPRIETÀ CONTADINA PARCELLARE. Siamo qui giunti alla conclusione della nostra linea di sviluppo della rendita fondiaria. In tutte queste forme della rendita fondiaria, rendita in lavoro, rendita in prodotti, rendita in denaro (come semplice forma mutata della rendita in prodotti) si presuppone sempre che chi paga la rendita sia l’effettivo coltivatore e possessore del terreno il cui pluslavoro non pagato va direttamente al proprietario fondiario. Anche nella ultima forma, la rendita in denaro — nella misura in cui essa è «pura» , ossia, un semplice cambiamento di forma della rendita in prodotti — ciò non è soltanto possibile, ma si verifica in realtà. Come forma di transizione dalla forma originaria della rendita alla rendita capitalistica possiamo considerare il sistema mezzadrile, o parziario, in cui il conduttore del fondo (affittuario) oltre al suo lavoro (proprio od altrui) fornisce una parte del capitale di esercizio, mentre il proprietario fondiario, oltre alla terra fornisce un’altra parte del capitale di esercizio (ad esempio il bestiame), e il profitto è diviso in determinate proporzioni, che differiscono nei vari paesi, fra il mezzadro ed il proprietario fondiario. Da un lato manca in questo caso all’affittuario il capitale sufficiente per una gestione completamente capitalistica. Dall’altro lato, la parte che il proprietario fondiario riceve qui, non ha la pura forma della rendita. Può di fatto includere l’interesse del capitale da lui anticipato ed una rendita eccedente. Può anche assorbire di fatto tutto il pluslavoro dell’affittuario o anche lasciargli una parte più o meno grande di questo pluslavoro. Ma il punto essenziale è che qui la rendita non appare più come la forma normale del plusvalore. Da un lato il mezzadro, che egli impieghi solo il suo proprio lavoro o anche quello di altri, deve avere diritto ad una parte del prodotto, non nella sua qualità di lavoratore, ma come possessore di una parte degli strumenti di lavoro, come capitalista di se stesso. D’altro lato il proprietario fondiario pretende la sua parte non esclusivamente nella sua qualità di proprietario della terra, ma anche come prestatore di capitale. Un residuo dell’antica proprietà comune della terra, che si era conservato dopo il trapasso all’economia contadina autonoma, ad esempio in Polonia e in Romania, è servito là come pretesto per passare alle forme inferiori della rendita fondiaria. Una parte della terra appartiene ai singoli contadini che la coltivano autonomamente. Un’altra parte viene coltivata collettivamente e crea un plusprodotto, che serve per il pagamento delle spese della comunità e costituisce una riserva in previsione di cattivi raccolti e così via. Entrambe queste parti del plusprodotto, e infine tutto il plusprodotto insieme con la terra, su cui è sorto, vengono gradualmente usurpate da funzionari statali e da privati, e quelli che originariamente erano dei liberi proprietari contadini, il cui obbligo di lavorare questa terra collettivamente è mantenuto, diventano tributari di una corvée o di una rendita in prodotti, mentre gli usurpatori delle terre collettive si trasformano in proprietari, non soltanto della terra usurpata della comunità, ma anche delle stesse aziende contadine. Non abbiamo bisogno di soffermarci qui sull’economia schiavistica propriamente detta (che del pari passa attraverso uno sviluppo dal sistema patriarcale, che lavora soprattutto per l’autoconsumo, al sistema di piantagione vero e proprio che lavora per il mercato mondiale) né sull’economia aziendale in cui il proprietario esercita la coltivazione per proprio conto, possiede tutti gli strumenti di produzione e sfrutta il lavoro dei servi liberi e non liberi che sono pagati in natura ed in denaro. In questo caso il proprietario fondiario ed il proprietario degli strumenti di produzione e quindi anche lo sfruttatore diretto dei lavoratori che rientrano nel novero di questi strumenti di produzione, sono la medesima persona. Parimenti la rendita ed il profitto coincidono, non essendo vi separazioni delle diverse forme di plusvalore. L’intero pluslavoro dei lavoratori, che è qui rappresentato dal plusprodotto, viene estorto ad essi direttamente dal proprietario di tutti gli strumenti della produzione, di cui fanno parte la terra e, nella forma originaria della schiavitù, gli stessi produttori diretti. Dove predomina una concezione capitalistica, come nelle piantagioni americane, tutto questo plusvalore è considerato profitto. Là dove il modo di produzione capitalistico non esiste, né le concezioni che vi corrispondono sono state importate dai paesi capitalistici, appare come rendita. In ogni caso questa forma non presenta difficoltà alcuna. Il reddito del proprietario fondiario, quale che sia il nome che gli viene attribuito, il plusprodotto disponibile che egli si appropria, è qui la forma normale e dominante dell’appropriazione di tutto il pluslavoro non pagato, e la proprietà fondiaria costituisce la base di quest’appropriazione. Inoltre, la proprietà parcellare. Il contadino è qui in pari tempo libero proprietario della sua terra che appare il suo strumento principale di produzione, l’indispensabile campo di applicazione del suo lavoro e del suo capitale. Nel quadro di questa forma non si paga affitto; la rendita non compare quindi quale forma peculiare del plusvalore, sebbene, in paesi nei quali per il resto il modo di produzione capitalistico è sviluppato, essa si presenti come plusprofitto attraverso il confronto con altri rami di produzione, come plusprofitto, però, che appartiene al contadino, come in generale tutto il provento del suo lavoro. Questa forma della proprietà fondiaria, come le sue forme più antiche, presuppone che la popolazione rurale sia molto più numerosa di quella urbana, così che il modo di produzione capitalistico, anche se in generale dominante, sia relativamente poco sviluppato, e quindi anche negli altri rami di produzione la concentrazione del capitale sia contenuta in limiti ristretti, prevalendo il frazionamento del capitale. Per la stessa natura delle cose una parte preponderante del prodotto agricolo deve essere qui consumata come mezzo diretto di sussistenza dai suoi produttori, dagli stessi contadini e solo l’eccedenza entrerà sotto forma di merce nel commercio con le città. Quale che possa essere il modo in cui il prezzo medio di mercato del prodotto della terra è qui regolato, la rendita differenziale, una parte eccedente del prezzo delle merci delle terre di qualità superiore o meglio situate, deve evidentemente esistere in questo caso, come esiste nel modo di produzione capitalistico. La rendita differenziale esisterebbe anche se questa forma dovesse apparire sotto condizioni sociali in cui non si è ancora affatto sviluppato un prezzo generale di mercato; appare allora quale plusprodotto ecce dente. Solamente affluisce nelle tasche del contadino, il cui lavoro si realizza sotto condizioni naturali più favorevoli. Proprio nell’ambito di questa forma in cui il prezzo della terra entra per il contadino come un elemento nell’effettivo costo di produzione, — poiché nel corso dell’ulteriore sviluppo di questa forma la terra viene ricevuta, nel caso di una divisione ereditaria, quale corrispondente di un determinato valore monetario, oppure, a causa del continuo cambiamento di mano dell’intera proprietà o di parti aliquote di essa, la terra viene acquistata dal coltivatore stesso, soprattutto con prestiti di denaro su ipoteca — in cui quindi il prezzo della terra non è altro che la rendita capitalizzata, è una condizione preesistente e la rendita sembra quindi esistere indipendentemente da ogni differenziazione nella fertilità e nella posizione del terreno, è proprio in questo caso che si deve ammettere, come regola, che non esiste una rendita assoluta, così che il terreno peggiore non frutta una rendita, poiché la rendita assoluta presuppone che venga realizzata una eccedenza del valore del prodotto sul suo prezzo di produzione, oppure un prezzo di monopolio che eccede il valore del prodotto. Ma poiché l’agricoltura consiste qui soprattutto in una coltivazione per la sussistenza diretta, e la terra è un campo indispensabile di applicazione per il lavoro e il capitale della maggioranza della popolazione, il prezzo regolatore di mercato del prodotto raggiungerà il suo valore soltanto in circostanze straordinarie, ma questo valore di regola sarà superiore al prezzo di produzione a causa della preponderanza dell’elemento di lavoro vivo, sebbene questa eccedenza del valore sul prezzo di produzione sarà a sua volta limitata dalla bassa composizione che contraddistingue anche il capitale non agricolo, in paesi in cui predomina un’economia parcellare. Per il contadino parcellare il limite dello sfruttamento non è posto dal profitto medio del capitale, in quanto è un piccolo capitalista; né dalla necessità di conseguire una rendita, in quanto egli è proprietario terriero. Nulla appare come un limite assoluto per lui, in quanto piccolo capitalista, all’infuori del salario che egli paga a se stesso, dopo aver detratto i costi effettivi. Fino a quando il prezzo del prodotto copre questo salario, egli coltiverà la sua terra riducendosi spesso ad un minimo fisico del salario. Per quanto riguarda la sua qualità di proprietario della terra, la barriera della proprietà per lui non esiste, poiché essa si può far valere solamente contro un capitale (lavoro incluso) separato da essa, rappresentando un ostacolo contro il suo investimento. È vero che l’interesse sul prezzo della terra che generalmente deve essere pagato ad un terzo, al creditore ipotecario, costituisce un limite. Ma questo interesse può essere appunto pagato con quella parte del pluslavoro che nell’ambito di rapporti capitalistici verrebbe a costituire il profitto. La rendita anticipata nel prezzo del terreno e nell’interesse per esso pagato, non può quindi essere altro che una parte del pluslavoro capitalizzato del contadino, eseguito da lui oltre il lavoro indispensabile per il suo sostentamento, senza che questo pluslavoro si realizzi in una parte del valore della merce, corrispondente all’intero profitto medio, né tanto meno in un plusprofitto, che verrebbe a costituire una eccedenza sul pluslavoro realizzato nel profitto medio. La rendita può essere una detrazione dal profitto medio, o anche l’unica parte di questo stesso profitto che viene realizzata. Affinché il contadino parcellare possa coltivare la sua terra, o possa acquistare terra da coltivare, non è quindi necessario, come nella normalità del modo di produzione capitalistico, che il prezzo di mercato del prodotto della terra si accresca abbastanza da fruttargli il profitto medio né tanto meno una eccedenza su questo profitto medio fissata nella forma della rendita. Non è quindi necessario che il prezzo di mercato aumenti, né al suo valore, né al prezzo di produzione del suo prodotto. È questa una delle cause per cui il prezzo del grano è minore in paesi in cui predomina la proprietà parcellare che in paesi con un modo di produzione capitalistico. Una parte del pluslavoro dei contadini che lavorano nelle condizioni più sfavorevoli, viene regalata alla società senza compenso e non entra nella regolazione dei prezzi di produzione o nella formazione del valore in generale. Questo basso prezzo è quindi un risultato della povertà dei produttori e niente affatto della produttività del loro lavoro. Questa forma di libera proprietà parcellare dei contadini che lavorano in proprio, come forma normale e dominante, costituisce da un lato il fondamento economico della società nei tempi migliori dell’antichità classica, d’altro lato si trova fra le nazioni moderne come una delle forme derivanti dalla dissoluzione della proprietà terriera feudale. In questo modo troviamo la yeomanry in Inghilterra, lo stato contadino in Svezia, i contadini della Francia e della Germania occidentale. Non parliamo qui delle colonie, dove il contadino indipendente si sviluppa in condizioni diverse. La libera proprietà del contadino che lavora per se stesso è evidentemente la forma più normale della proprietà terriera per la produzione su piccola scala; vale a dire per un modo di produzione in cui il possesso della terra è una condizione per la proprietà del prodotto del suo proprio lavoro da parte del lavoratore e in cui l’agricoltore, sia egli un libero proprietario o un vassallo, deve produrre sempre i propri mezzi di sussistenza indipendentemente, come lavoratore isolato con la sua famiglia. La proprietà del terreno è così necessaria per il pieno sviluppo di questo modo di produzione come la proprietà dello strumento per il libero sviluppo della produzione artigiana. Essa costituisce in questo caso la base per lo sviluppo dell’indipendenza personale. È una fase necessaria di transizione per lo sviluppo dell’agricoltura stessa. Le cause che portano alla sua rovina mostrano i suoi limiti. Esse sono: la distruzione della industria domestica rurale, che costituisce il suo complemento normale, provocata dallo sviluppo della grande industria; il graduale impoverimento ed esaurimento del terreno sottoposto a questa coltivazione; l’usurpazione, da parte dei proprietari fondiari, della proprietà comune che rappresenta dappertutto il secondo compimento dell’economia parcellare e che sola le permette di avere del bestiame; la concorrenza della produzione agricola su grande scala, come sistema di piantagioni, o come grande impresa capitalistica. I perfezionamenti nell’agricoltura, che da un lato provocano una caduta dei prezzi dei prodotti della terra e richiedono dall’altro lato maggiori investimenti e più copiose condizioni materiali di produzione, contribuiscono anch’essi a questo risultato, come è avvenuto in Inghilterra durante la prima metà del XVIII secolo. La proprietà parcellare esclude per la sua stessa natura: lo sviluppo delle forze sociali di produzione del lavoro, le forme sociali del lavoro, la concentrazione sociale dei capitali, l’allevamento del bestiame su larga scala ed una applicazione progressiva della scienza. L’usura ed il sistema fiscale devono portare dovunque al suo impoverimento. L’esborso del capitale per l’acquisto della terra sottrae questo capitale alla coltivazione. Una illimitata dispersione dei mezzi di produzione e l’isolamento dei produttori stessi. Enorme sperpero di energia umana. Progressivo peggioramento delle condizioni di produzione e rincaro dei prezzi dei mezzi di produzione sono una legge necessaria della proprietà parcellare. Annate fertili sono una disgrazia per questo modo di produzione. Uno dei mali specifici della piccola agricoltura, quando è combinata, con la libera proprietà della terra, deriva dal fatto che il coltivatore anticipa un capitale nell’acquisto della terra. (Lo stesso si può dire anche della forma di transizione in cui il grande proprietario fondiario anticipa prima un capitale per acquistare la terra e poi per coltivarla come affittuario di se stesso). Per la mobilità che la terra qui assume in quanto semplice merce, si accrescono i cambiamenti di proprietà, così che la terra, ad ogni nuova generazione, ad ogni divisione successoria di proprietà, figura dal punto di vista del contadino, come un nuovo investimento di capitale, ossia diventa terra acquistata da lui. Il prezzo della terra costituisce qui un elemento predominante dei falsi costi di produzione individuali, o del prezzo di costo del prodotto per il singolo produttore. Il prezzo della terra non è altro che la rendita capitalizzata e quindi anticipata. Se l’agricoltura è esercitata su base capitalistica, così che il proprietario fondiario riceve soltanto la rendita e l’affittuario non paga nulla per la terra oltre questa rendita annuale, è evidente che il capitale investito dallo stesso proprietario fondiario nell’acquisto della terra costituisce per lui un investimento di capitale produttivo d’interesse, ma non ha nulla a che vedere con il capitale investito nell’agricoltura stessa. Non costituisce né una parte del capitale fisso qui impiegato, né del capitale circolante procura semplicemente al compratore un titolo alla riscossione della rendita annuale, ma non ha assolutamente nulla a che vedere con la produzione della rendita stessa. Infatti, il compratore della terra cede il capitale direttamente a colui che vende la terra ed il venditore rinuncia, come contropartita, alla sua proprietà sulla terra. Questo capitale non esiste quindi più come capitale del compratore; egli non lo possiede più; non fa quindi parte del capitale che egli può investire in qualsiasi modo nella terra stessa. Che egli acquisti la terra ad un prezzo elevato o basso o che egli l’abbia ricevuta senza pagamento, non modifica in nulla il capitale investito dall’affittuario nella coltivazione, e non modifica in nulla la rendita, ma solamente l’aspetto sotto cui essa gli si presenta, se essa gli appare cioè come interesse oppure no, ovvero come un interesse elevato o basso. Prendiamo, ad esempio, l’economia schiavistica. Il prezzo che viene qui pagato per lo schiavo non è altro che l’anticipo e la capitalizzazione del plusvalore o profitto, che lo schiavo deve fruttare. Ma il capitale pagato nell’acquisto di uno schiavo, non fa parte del capitale con cui viene estorto il profitto, il pluslavoro allo schiavo. È un capitale che chi possiede lo schiavo ha alienato e che rappresenta una detrazione dal capitale di cui egli dispone per la produzione effettiva. Esso ha cessato di esistere per lui, come il capitale speso nell’acquisto del terreno ha cessato di esistere per l’agricoltura. La migliore prova ne è che per i1 possessore di schiavi o il proprietario della terra, esso riprende la sua esistenza solo quando lo schiavo oppure la terra vengono nuovamente venduti. Ma allora si verifica il medesimo fatto per il compratore. La circostanza che egli ha acquistato lo schiavo, non gli dà senz’altro la facoltà di sfruttare lo schiavo. Egli non può fare ciò, senza un altro capitale da investire nella produzione schiavistica. Il medesimo capitale non esiste due volte, una volta in mano del venditore, l’altra in mano del compratore del terreno. Passa dalle mani del compratore in quelle del venditore, e con ciò la faccenda è chiusa. Il compratore non ha più del capitale, ma in sua vece un terreno. Il fatto che la rendita prodotta da un effettivo investi mento di capitale in questo terreno viene calcolata dal nuovo proprietario fondiario come interesse del capitale che egli non ha investito nella terra, ma ha ceduto per acquistare la terra, non altera affatto la natura economica del fattore terra, precisamente come il fatto che qualcuno paghi 240.000 €. per consolidati al 3%, non ha nulla a che vedere con il capitale dal cui reddito vengono pagati gli interessi del debito pubblico. In realtà il denaro speso per l’acquisto della terra, come quello speso per l’acquisto dei titoli di Stato, è solo capitale in sé, precisamente come qualsiasi somma di valore sulla base della produzione capitalistica è capitale in sé, capitale potenziale. Ciò che è stato pagato per la terra, al pari di ciò che è stato pagato per i titoli di Stato, o per l’acquisto di qualsiasi altra merce, è una somma di denaro. Questa in sé è capitale, perché può essere convertita in capitale. Dipende dall’uso che il venditore ne fa, se il denaro da lui ricevuto si converte effettivamente in capitale, oppure no. Per il compratore non potrà mai più operare come tale, come non lo potrebbe qualsiasi altro denaro che egli ha definitivamente speso. Nei suoi calcoli figura come capitale produttivo d’interesse, poiché egli considera il reddito che riceve sotto forma di rendita della terra, o di interesse sulle sue cartelle di debito pubblico, come interesse del denaro che l’acquisto del titolo a questa rendita gli è costato. Egli può realizzarlo come capitale unicamente rivendendo questo titolo. Se egli lo fa, il nuovo compratore entra nel medesimo rapporto in cui si trovava quello precedente, e il denaro speso in questa transazione non può trasformarsi per chi lo ha speso in capitale effettivo per il semplice fatto di avere cambiato di mano. Nel caso della piccola proprietà fondiaria l’illusione che la terra stessa ha valore e che, quindi, entri come capitale nel prezzo di produzione del prodotto, esattamente come una macchina o una materia prima, si rafforza ancora di più. Ma noi abbiamo visto che soltanto in due casi la rendita e quindi la rendita capitalizzata, ossia il prezzo della terra, possono rientrare come elementi determinanti nel prezzo del prodotto del suolo. Primo, se il valore del prodotto del suolo, a causa della composizione del capitale agricolo — un capitale che non ha nulla a che vedere con il capitale speso nell’acquisto del terreno — è superiore al suo prezzo di produzione e i rapporti di mercato permettono al proprietario fondiario di sfruttare questa differenza. Secondo, se esiste un prezzo di monopolio. Ed entrambi questi casi si presentano nella economia parcellare e nella piccola proprietà fondiaria meno frequentemente che in qualsiasi altra forma perché qui la produzione soddisfa per la maggior parte i bisogni dei produttori e procede indipendentemente dalla regolazione per mezzo del saggio generale del profitto. Anche là dove l’economia parcellare è condotta su terra presa in affitto, il canone d’affitto comprende più spesso che nell’ambito di altri rapporti, quali che siano, una parte del profitto e anche una detrazione dal salario; in questo caso l’affitto rappresenta soltanto una rendita nominale, non la rendita quale categoria indipendente rispetto al salario ed al profitto. L’esborso di capitale monetario per l’acquisto del terreno, non costituisce quindi un investimento di capitale agricolo. Esso è pertanto una diminuzione del capitale di cui i piccoli contadini possono disporre nella loro propria sfera di produzione. Esso diminuisce pro tanto la quantità dei loro mezzi di produzione e restringe quindi la base economica della riproduzione. Esso assoggetta il piccolo contadino all’usuraio, perché in questa sfera il credito, nel senso effettivo della parola, in generale si presenta solo raramente. Esso è un ostacolo all’agricoltura anche in quei casi in cui l’acquisto riguarda grandi proprietà. Esso si trova di fatto in contraddizione con il modo di produzione capitalistico, che è nell’insieme indifferente alla questione se il proprietario fondiario è indebitato, abbia egli ereditato o acquistato la sua proprietà. Il fatto che egli stesso intaschi la rendita o debba a sua volta cederla ai creditori ipotecari non altera per se stesso minimamente la conduzione della proprietà fondiaria data in affitto. Noi abbiamo visto che il prezzo della terra è regolato dal saggio dell’interesse, se la rendita fondiaria è una grandezza data. Se il saggio dell’interesse è basso, il prezzo del terreno è alto e viceversa. Normalmente un elevato prezzo della terra e un basso saggio del l’interesse dovrebbero quindi andare di pari passo, così che, se il contadino paga un prezzo elevato per la terra in conseguenza di un basso saggio dell’interesse, il medesimo basso saggio dell’interesse dovrebbe assicurargli al tempo stesso la possibilità di procurarsi a credito un capitale d’esercizio a condizioni favorevoli. Ma in realtà le cose si svolgono diversamente quando prevale la proprietà parcellare. In primo luogo, le leggi generali del credito non si applicano al contadino, perché queste leggi presuppongono che i produttori siano capitalisti. In secondo luogo, dove predomina la proprietà parcellare, — si prescinde qui dalle colonie — e il contadino parcellare costituisce il fondamento della nazione, la formazione del capitale, ossia la riproduzione sociale, è relativamente debole ed ancora più debole è la formazione del capitale monetario da prestito, nel senso che noi abbiamo precedentemente analizzato. Tutto ciò presuppone la concentrazione e la esistenza di una classe di capitalisti ricchi ed oziosi (Massie). In terzo luogo, dove la proprietà della terra costituisce una condizione necessaria per l’esistenza della maggior parte dei produttori e un indispensabile campo di investimento per il loro capitale, il prezzo della terra aumenta indipendentemente dal saggio dell’interesse, e spesso in rapporto inverso rispetto ad esso, data la preponderanza della domanda di proprietà fondiaria sopra la sua offerta. Venduta in piccoli lotti la terra ha, in questo caso, un prezzo molto più elevato di quando è venduta in grandi appezzamenti, perché qui il numero dei piccoli compra tori è grande e quello dei grandi compratori è piccolo (Bandes noires – bande di speculatori - , Rubichon; Newman). Per tutti questi motivi il prezzo della terra in questo caso aumenta, mentre il saggio dell’interesse è relativamente alto. All’interesse relativamente basso, che il contadino trae qui dal capitale sborsato nell’acquisto della terra (Mounier), corrisponde d’altro lato l’elevato saggio d’interesse, da usura, che egli deve corrispondere ai suoi creditori ipotecari. Il sistema irlandese mostra la medesima cosa, soltanto in un’altra forma. Il prezzo della terra, elemento di per sé estraneo alla produzione, può elevarsi a tal punto da rendere la produzione impossibile (Dombasle). Il fatto che il prezzo della terra assuma una tale importanza, che l’acquisto e la vendita della terra, la circolazione della terra come merce, si sviluppi a tale grado, è un risultato pratico dello sviluppo del modo di produzione capitalistico, in quanto qui la merce diventa la forma generale di tutti i prodotti e di tutti gli strumenti di produzione. D’altro lato, questo sviluppo si verifica unicamente laddove il modo di produzione capitalistico si sviluppa soltanto in misura limitata e non dispiega tutte le sue peculiarità; poiché esso si fonda appunto sul fatto che l’agricoltura non è più, oppure non è ancora, soggetta al modo di produzione capitalistico, ma a un modo di produzione tramandato da forme sociali scomparse. Gli svantaggi del modo di produzione capitalistico, che fa dipendere il produttore dal prezzo in denaro del suo prodotto, coincidono qui dunque con gli svantaggi derivanti dall’imperfetto sviluppo del modo di produzione capitalistico. Il contadino diviene commerciante e industriale senza le condizioni in base alle quali può produrre il suo prodotto come merce. Il conflitto fra il prezzo della terra come elemento del prezzo di costo per il produttore e non-elemento del prezzo di produzione per il prodotto (perfino quando la rendita interviene in modo determinante nel prezzo del prodotto della terra, la rendita capitalizzata, che viene anticipata per venti o più anni, non vi entra in nessun caso in modo determinante) è soltanto una delle forme in cui si rappresenta in generale la contraddizione della proprietà privata della terra con una agricoltura razionale, con una normale utilizzazione sociale della terra. D’altra parte però la proprietà privata della terra, quindi l’espropriazione del produttore diretto dalla terra — la proprietà privata della terra da parte dei primi, implica la non proprietà da parte degli altri — è la base del modo di produzione capitalistico. Qui, nel caso della piccola coltura, il prezzo della terra, forma e risultato della proprietà privata della terra, agisce come limite della produzione stessa. Nella grande agricoltura e nella grande proprietà fondiaria gestita in modo capitalistico, la proprietà agisce parimenti come limite, poichè limita gli investimenti produttivi di capitale dell’affittuario, investimenti che in ultima istanza vanno a vantaggio non suo, ma del proprietario fondiario. In ambedue le forme il trattamento consapevole e razionale della terra come eterna proprietà comune, come condizione inalienabile di esistenza e di riproduzione della catena delle generazioni umane che si avvicendano, viene rimpiazzato dallo sfruttamento, dallo sperpero delle energie della terra (a prescindere dal fatto che lo sfruttamento viene fatto dipendere, non dal livello raggiunto dallo sviluppo sociale, ma dalle condizioni casuali e disuguali dei singoli produttori). Nella piccola proprietà ciò avviene per mancanza di mezzi e di conoscenze scientifiche necessari all’impiego della forza produttiva sociale del lavoro. Nella grande proprietà ciò avviene per lo sfruttamento di questi mezzi ai fini dell’arricchimento più rapido possibile dell’affittuario e del proprietario. In ambedue per la dipendenza dal prezzo di mercato. Ogni critica della piccola proprietà fondiaria si risolve in ultima istanza in critica della proprietà privata come limite e ostacolo per l’agricoltura. Così anche ogni critica contrapposta della grande proprietà fondiaria. Naturalmente qui si fa astrazione nei due casi dalle riserve mentali di carattere politico. Questo limite e questo ostacolo che ogni proprietà privata della terra oppone alla produzione agricola e al trattamento, mantenimento e miglioramento razionali della terra stessa, si esplicano da una parte e dall’altra, soltanto in diverse forme e nelle dispute intorno a queste forme specifiche del male si finisce col dimenticarne la causa ultima. La piccola proprietà fondiaria presuppone che la grandissima maggioranza della popolazione sia agricola e che predomini non il lavoro sociale, ma quello isolato; perciò la ricchezza e lo sviluppo della riproduzione delle sue condizioni sia materiali che spirituali sono in tali casi esclusi e sono quindi escluse anche le condizioni di una coltura razionale. D’altra parte la grande proprietà fondiaria riduce la popolazione agricola ad un minimo continuamente decrescente e le contrappone una popolazione industriale continuamente crescente e concentrata nelle grandi città; essa genera così le condizioni che provocano una incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale prescritto dalle leggi naturali della vita, in seguito alla quale la forza della terra viene sperperata e questo sperpero viene esportato mediante il commercio molto al di là dei confini del proprio paese (Liebig). Se la piccola proprietà fondiaria crea una classe di barbari che è per metà al di fuori della società, che unisce tutta la rozzezza delle forme sociali primitive con tutti i dolori e tutta la misère dei paesi civilizzati, la grande proprietà fondiaria mina la forza-lavoro nell’ultima regione nella quale essa riversa la sua energia naturale e in cui si presenta come fondo di riserva per il rinnovamento della forza vitale delle nazioni, nella campagna stessa. La grande industria e la grande agricoltura gestite industrialmente operano in comune. Se esse originariamente si dividono per il fatto che la prima dilapida e rovina prevalentemente la forza-lavoro, e quindi la forza naturale dell’uomo e la seconda più direttamente la forza naturale della terra, più tardi invece esse si danno la mano, in quanto il sistema industriale nella campagna succhia l’energia anche degli operai e l’industria e il commercio, dal canto loro, procurano all’agricoltura i mezzi per depauperare la terra. |
AVVERTENZA PER IL LETTORE Il testo del III libro del Capitale che viene qui riportato NON È UNA DELLE TRADUZIONI INTEGRALI DEL TESTO ORIGINALE che sono disponibili: esso infatti è una rivisitazione delle traduzioni esistenti (in italiano ed in francese) a cui sono state apportate le seguenti modifiche: 1 – non sono state riportate le note che Marx ed Engels richiamano nel testo (fatte salve alcune eccezioni); 2 – sono state introdotte delle modifiche per quanto riguarda gli esempi numerici in cui, per facilitare la lettura; a – sono state cambiate le unità di misura e le grandezze; b – diversi dati richiamati nella forma di testo sono stati trasformati in tabelle; c – in alcuni esempi numerici le cifre decimali sono state limitate a due e nel caso di numeri periodici, ad esempio 1/3 o 2/3, la cifra periodica è stata indicata con un apice (‘). Ci rendiamo conto che leggere un testo del Capitale in cui Marx formula esempi in Euro (€) invece che in Lire Sterline (Lst) o scellini potrebbe far sorridere e far pensare ad uno scherzo o ad una manipolazione che ha travisato il pensiero dell’Autore, avvertiamo invece il lettore che il testo è assolutamente fedele al pensiero originale e che ci siamo permessi di introdurre alcune “varianti” per consentire a coloro che non hanno dimestichezza con le unità di misura e monetarie inglesi di non bloccarsi di fronte a questa difficoltà e di facilitarne così la lettura o lo studio. In altre parti si sono invece mantenute le unità di misura e monetarie inglesi originali perchè la lettura non creava problemi di comprensione o per ragioni di fedeltà storica. Ci facciamo altresì carico dell’osservazione che Engels ha formulato nelle “considerazioni supplementari” poste all’inizio del III Libro, laddove, di fronte alle molteplici interpretazioni del testo che vennero fatte dopo la prima edizione, sostiene: “Nella presente edizione ho cercato innanzitutto di comporre un testo il più possibile autentico, di presentare, nel limite del possibile, i nuovi risultati acquisiti da Marx, usando i termini stessi di Marx, intervenendo unicamente quando era assolutamente necessario, evitando che, anche in quest’ultimo caso, il lettore potesse avere dei dubbi su chi gli parla. Questo sistema è stato criticato; si è pensato che io avrei dovuto trasformare il materiale a mia disposizione in un libro sistematicamente elaborato, en faire un livre, come dicono i francesi, in altre parole sacrificare l’autenticità del testo alla comodità del lettore. Ma non è in questo senso che io avevo interpretato il mio compito. Per una simile rielaborazione mi mancava qualsiasi diritto; un uomo come Marx può pretendere di essere ascoltato per se stesso, di tramandare alla posterità le sue scoperte scientifiche nella piena integrità della sua propria esposizione. Inoltre non avevo nessun desiderio di farlo: il manomettere in questo modo perchè dovevo considerare ciò una manomissione l’eredità di un uomo di statura così superiore, mi sarebbe sembrato una mancanza di lealtà. In terzo luogo sarebbe stato completamente inutile. Per la gente che non può o non vuole leggere, che già per il primo Libro si è data maggior pena a interpretarlo male di quanto non fosse necessario a interpretarlo bene — per questa gente è perfettamente inutile sobbarcarsi a delle fatiche”. Marx ed Engels non ce ne vogliano, ma posti di fronte alle molteplici “fughe” dallo studio da parte di persone che non possedevano una cultura accademica, fughe che venivano imputate alla difficoltà presentate dal testo, abbiamo deciso di fare uno “strappo” alle osservazioni di Engels, intervenendo in alcune parti avendo altresì cura di toccare il testo il meno possibile. Nel fare questo “strappo” eravamo tuttavia confortati dal fatto che, a differenza della situazione in cui Engels si trovava, oggi chi vuole accedere al testo “originale”, dispone di diverse edizioni in varie lingue. Coloro che volessero accostarsi al testo originale in lingua italiana si consigliano le seguenti edizioni:
Chi volesse accedere ad edizioni del Capitale e di altri testi di Marx in lingue estere, si propone di consultare il sito internet di seguito riportato:http://www.marxists.org/xlang/marx.htm |