IL CAPITALE LIBRO III SEZIONE VI TRASFORMAZIONE DEL PLUSPROFITTO IN RENDITA FONDIARIA CAPITOLO 41 LA RENDITA DIFFERENZIALE II. PRIMO CASO: PREZZO DI PRODUZIONE COSTANTE. Questa ipotesi implica che il prezzo di mercato sia sempre regolato dal capitale investito nel terreno peggiore A. I. Se il capitale addizionale investito in uno qualsiasi dei terreni produttivi di rendita B, C, D non produce nulla di più del medesimo capitale nel terreno A, ossia se esso al prezzo di produzione regolatore non frutta un plusprofitto ma semplicemente il profitto medio, la sua azione sulla rendita è nulla. La situazione rimane immutata, precisamente come se si fosse aggiunto alla superficie fino ad ora coltivata un numero imprecisato di acri della qualità A, del terreno peggiore. lI. I capitali addizionali apportano, per ogni diverso tipo di terreno, dei prodotti addizionali proporzionali al loro volume; in altre parole, l’ammontare della produzione si accresce secondo la fertilità specifica di ogni tipo di terreno, in proporzione al volume del capitale addizionale. Nel cap. XXXIX siamo partiti dalla seguente tabella I: Tabella I
Questa è trasformata ora in: Tabella II
Non è necessario in questo caso che l’investimento di capitale si raddoppi per tutti i tipi di terreno come nella nostra tabella. La legge è la stessa, purché si impieghi del capitale addizionale in uno qualsiasi o in più terreni produttivi di rendita, non importa in quale proporzione. E soltanto necessario che, per ogni tipo di terreno, la produzione si accresca nella stessa proporzione del capitale. La rendita aumenta qui solo per effetto dell’accresciuto investimento di capitale nel terreno e in proporzione a questo aumento di capitale. Questo accrescimento del prodotto e della rendita in conseguenza dell’accresciuto investimento di capitale e proporzionatamente ad esso è, per quanto riguarda la quantità del prodotto e della rendita, identico a quello che si determinerebbe se la superficie coltivata delle terre produttive di rendita e della medesima qualità fosse stata accresciuta e sottoposta a coltivazione con il medesimo investimento di capitale di quello precedentemente impiegato nei medesimi tipi di terreno. Nel caso della tabella II, ad esempio, il risultato resterebbe lo stesso, se il capitale addizionale di 600 € per acro fosse stato in vestito in B, C, D su un acro addizionale di ognuno di questi terreni. Questa ipotesi, inoltre, non presuppone un impiego più produttivo del capitale, ma soltanto un investimento di un capitale maggiore sulla medesima superficie con il medesimo risultato conseguito precedentemente. In questo caso tutti i rapporti proporzionali rimangono immutati. Se in luogo delle differenze proporzionali noi consideriamo le differenze puramente aritmetiche, la rendita differenziale può tuttavia mutare per i diversi tipi di terreno. Supponiamo, ad esempio, che il capitale addizionale sia stato investito unicamente in B e in D. In questo caso la differenza fra D e A sarà di 7 qli in luogo dei 3 qli di prima; quella fra B e A di 3 qli in luogo di quella tra C e B sarà —1 in luogo di + 1 e così via. Ma questa differenza aritmetica, che è decisiva per la rendita differenziale 1, in quanto esprime la differenza nella produttività con investimenti eguali di capitale, non ha qui importanza alcuna, dipendendo essa soltanto dall’esistenza e dalla grandezza degli investimenti addizionali di capitali, mentre la differenza per ogni parte aliquota di capitale nei vari terreni rimane invariata. III. I capitali addizionali apportano un prodotto eccedente e di conseguenza formano dei plusprofitti, ma ad un saggio decrescente, non proporzionale al loro aumento. Tabella III
Nell’ambito di questa terza ipotesi è di nuovo indifferente che i secondi investimenti addizionali di capitale si ripartiscano uniformemente sui diversi tipi di terreno, oppure no: che la produzione decrescente del plusprofitto si svolga in proporzioni uguali o disuguali; che gli investimenti addizionali di capitale riguardino tutti lo stesso tipo di terreno produttivo di rendita, oppure vengano distribuiti, in misura uguale o disuguale, in terreni di diversa qualità, produttivi di rendita. Tutte queste circostanze sono irrilevanti per la legge che stiamo qui analizzando. L’unica premessa è che gli investimenti addizionali di capitale diano un plusprofitto per un qualsiasi tipo di terreno produttivo di rendita, ma in un rapporto decrescente rispetto all’ammontare dell’incremento di capitale. Negli esempi della presente tabella, i limiti di questa diminuzione oscillano fra 4 qli 2.880 €., prodotto del primo investimento di capitale sul migliore terreno D, e 1 qle 720 €., prodotto del medesimo investimento di capitale sul terreno peggiore A. Il prodotto del terreno migliore nell’investimento di capitale 1 costituisce il limite massimo, e il prodotto del medesimo investimento di capitale nel terreno peggiore A, che non produce rendita e non apporta alcun plusprofitto, costituisce il limite minimo del prodotto che i successivi investimenti di capitale possono dare in uno qualsiasi dei tipi di terreno che producono un plusprofitto, a produttività decrescente di successivi investimenti di capitali. Come l’ipotesi II corrisponde alla condizione che nuovi appezzamenti di uguale qualità e appartenenti al tipo migliore dei terreni vengano aggiunti all’area coltivata, di modo che la quantità di uno qualsiasi dei terreni coltivati risulti accresciuta, così l’ipotesi III corrisponde alla condizione che appezzamenti addizionali di terreno vengano coltivati in modo tale che i loro diversi gradi di fertilità siano distribuiti fra D e A, fra terreni del tipo migliore e terreni del tipo peggiore. Se i successivi investimenti di capitale riguardano esclusivamente il terreno D, essi possono includere le differenze esistenti fra D e A, ed ancora le differenze fra D e C, come pure fra D e B. Se riguardano tutti il terreno C, essi includono le differenze tra C e A e C e B, se vengono effettuati in B soltanto le differenze fra B e A. La legge è questa: la rendita cresce in modo assoluto su tutti questi tipi di terreno, quantunque non cresca proporzionatamente al capitale addizionale investito. Il saggio del plusprofitto, considerando sia il capitale addizionale che il capitale complessivo investito nel terreno, decresce, ma la grandezza assoluta del plusprofitto aumenta; precisamente come il saggio decrescente del profitto del capitale è il più delle volte accompagnato da un crescita assoluta della massa del profitto. Così il plusprofitto medio dell’investimento di capitale è in B = 90% del capitale, mentre nel primo investimento del capitale era del 120%. Ma il plusprofitto complessivo si accresce da 1 qle a 1,5 qli, e da 720 €. a 1.080 €. La rendita complessiva, considerata in sè, — e non in rapporto alla grandezza raddoppiata del capitale anticipato — si è accresciuta in senso assoluto. Le differenze fra le rendite dei diversi tipi di terreno ed il loro rapporto reciproco possono variare in questo caso; ma questa variazione nelle differenze è qui la conseguenza, non la causa dell’accrescimento delle rendite in rapporto l’una all’altra. IV. Il caso in cui gli investimenti addizionali del capitale nei migliori tipi di terreno creano un prodotto maggiore di quelli originali, non richiede un’ulteriore analisi. È naturale che, in tale ipotesi, le rendite per acro aumentano ed in proporzione maggiore del capitale addizionale, qualunque sia il tipo di terreno in cui l’investimento sia stato effettuato. In questo caso l’investimento di capitale addizionale è accompagnato da un miglioramento. Rientra qui il caso in cui un investimento addizionale di una minore quantità di capitale produce il medesimo risultato o un risultato maggiore di quanto producesse precedentemente un investimento di una maggiore quantità di capitale. Questo caso non è del tutto identico al precedente, distinzione questa che ha la sua importanza per tutti gli investimenti di capitale. Supponiamo ad esempio che 100 dia un profitto di 10, e 200, impiegato in una certa forma, dia un profitto di 40; allora il profitto si è accresciuto dal 10% al 20%, e, sotto questo aspetto, è come se 50, investito in una forma più produttiva, desse un profitto di 10 anziché di 5. Noi supponiamo qui che il profitto si accompagni ad un incremento proporzionale del prodotto. Ma la differenza consiste nel fatto che nel primo caso io devo raddoppiare il capitale, mentre al contrario nell’altro io conseguo un risultato doppio con l’antico. Non è affatto lo stesso che io fornisca il medesimo prodotto di prima con metà del lavoro vivente e materializzato, o un prodotto doppio del precedente, con il medesimo lavoro, oppure un prodotto quadruplo del precedente con un lavoro doppio. Nel primo caso si rende libero del lavoro — vivente o materializzato — che può essere utilizzato altrove; la disponibilità di lavoro e di capitale si accresce. La liberazione del capitale (e del lavoro) è di per se stessa un aumento di ricchezza; produce lo stesso effetto che si avrebbe se questo capitale addizionale fosse stato ottenuto con l’accumulazione, ma fa risparmiare il lavoro del l’accumulazione. Si supponga che un capitale di 100 abbia fornito un prodotto di 10 metri. Nel 100 sia compreso tanto il capitale costante quanto il lavoro vivente e il profitto. Un metro costa allora 10. Se io con lo stesso capitale di 100 posso ora produrre 20 metri, un metro costa 5. Se, al contrario, con un capitale di 50 io posso produrre 10 metri, un metro costa ugualmente 5, ma io ho reso un capitale di 50, assumendo che l’offerta precedente di merci sia sufficiente. Se io devo invece investire un capitale di 200 per produrre 40 metri, un metro costerà ugualmente 5. La determinazione del valore o anche del prezzo non indica delle differenze, né indica la massa del prodotto proporzionale all’investimento di capitale. Ma nel primo caso è reso libero del capitale; nel secondo caso viene risparmiato del capitale addizionale, nella misura in cui fosse necessaria una produzione doppia; nel terzo caso l’accrescimento del prodotto può essere ottenuto solo mediante un aumento del capitale anticipato, quantunque non nella stessa proporzione che si sarebbe avuta qualora il prodotto accresciuto avesse dovuto essere fornito dall’antica forza produttiva. (Ciò appartiene alla sezione I). Dal punto di vista della produzione capitalistica, quando si tratti non di aumentare il plusvalore, ma di diminuire il prezzo di costo — e un risparmio di costi anche nell’elemento che crea il plusvalore, il lavoro, rende al capitalista questo servizio e gli crea del profitto, purché il prezzo di produzione regolatore rimanga costante —, l’impiego di capitale costante è sempre meno caro dell’impiego di capitale variabile. Ciò è presupposto di fatto per lo sviluppo del credito e l’abbondanza del capitale da prestito, che corrisponde al modo di produzione capitalistico. Da un lato io impiego 24.000 €. di capitale costante addizionale, se 24.000 €. sono il prodotto di 5 operai, durante un anno; d’altro lato 24.000 €. in capitali variabili. Se il saggio del plusvalore è = 100%, il valore che cinque operai hanno creato è di 48.000 €.; il valore delle 24.000 €. di capitale costante è invece di 24.000 €., o forse, in quanto capitale, di 25.200 €., se il saggio dell’interesse è del 5%. Le medesime somme monetarie, a seconda che esse siano anticipate alla produzione come grandezza di valore di capitale o di capitale variabile, esprimono dei valori molto diversi, se considerate nel loro prodotto. Inoltre, per quanto riguarda i costi delle merci dal punto di vista capitalistico, vi è ancora la differenza che, delle 24.000 €. di capitale costante, solamente il logorio entra nel valore della merce, nella misura in cui questo denaro è investito in capitale fisso, mentre le 24.000 €. investite in salario passano interamente nei valori delle merci e devono essere in esse riprodotte. Per i coloni e in genere per i piccoli produttori indipendenti, che non hanno dei capitali o possono procurarsene soltanto pagando degli interessi elevati, la parte del prodotto che rappresenta il salario, è il loro reddito, mentre per i capitalisti essa è un anticipo di capitale. Il colono considera, quindi, questa spesa di lavoro come la condizione indispensabile per ottenere il frutto del lavoro, che è il suo primo obiettivo. Per quanto riguarda il suo pluslavoro, dopo che è stato detratto quel lavoro necessario, esso si realizza in ogni caso in una eccedenza di prodotto; e non appena egli può vendere questo plusprodotto o anche utilizzarlo per i propri bisogni, lo considera come qualche cosa che non gli è costato nulla, perché non gli è costato del lavoro oggettivato. È soltanto la spesa di lavoro oggettivato che appare a lui un esborso di ricchezza. Egli cerca naturalmente di vendere al prezzo più alto possibile: ma anche la vendita al disotto del valore e del prezzo di produzione capitalistico gli appare pur sempre come profitto, nella misura in cui questo profitto non gli sia assorbito in anticipo da debiti, ipoteche, ecc. Per il capitalista, invece, l’esborso sia del capitale variabile che del costante, è sempre un anticipo di capitale. L’anticipo relativamente più forte di capitale riduce, rimanendo invariate le altre circostanze, il prezzo di costo e di fatto anche il valore delle merci. Quantunque quindi il profitto derivi esclusivamente dal pluslavoro, e quindi dall’impiego del capitale variabile, il capitalista individuale può tuttavia immaginarsi che il lavoro vivo sia l’elemento più dispendioso del suo costo di produzione, quello che più di tutti deve essere ridotto al minimo. Ciò non rappresenta altro se non una forma capitalisticamente distorta del giusto concetto che l’uso relativamente maggiore di lavoro passato, in confronto con il lavoro vivo, significhi un’accresciuta produttività del lavoro sociale ed una maggiore ricchezza sociale. Dal punto di vista della concorrenza, ogni cosa appare allo stesso modo distorta e capovolta. Nella ipotesi di prezzi di produzione costanti, gli investimenti addizionali di capitale possono essere fatti con una produttività invariata, crescente o decrescente, nei terreni migliori, ossia in tutti i terreni da B in su. Per A, secondo la nostra ipotesi, ciò potrebbe essere possibile soltanto nel caso che la produttività rimanesse la stessa, caso in cui la terra continua a non produrre rendita, oppure nel caso in cui la produttività aumentasse; una parte del capitale investito in A conseguirebbe allora una rendita, mentre l’altra parte non la conseguirebbe. Ma ciò sarebbe impossibile se la forza produttiva per A rimanesse costante, poiché altrimenti il prezzo di produzione non rimarrebbe costante, ma aumenterebbe. Ora, in tutte queste circostanze, il prodotto e il plusprofitto corrispondente si accrescono per acro, quindi eventualmente anche la rendita in grano e in denaro, indipendentemente dal fatto che il plusprodotto che essi apportano sia proporzionale alla loro grandezza, oppure superiore o inferiore a questa proporzione — indipendentemente quindi dal fatto che il saggio del plusprofitto del capitale rimanga costante, si accresca o diminuisca quando questo capitale aumenta. L’aumento della sola massa del plusprofitto o della rendita, calcolata per acro, ossia una massa crescente calcolata su una unità costante, nel presente caso su una definita quantità di terra, un acro o un ettaro, si esprime perciò in una proporzione crescente. In tali circostanze, quindi, l’ammontare della rendita, calcolata per acro, si accresce semplicemente in seguito all’aumento del capitale investito nel terreno. E precisamente ciò si verifica quando i prezzi di produzione rimangono invariati, indipendentemente dal fatto che la produttività del capitale addizionale resti la stessa, aumenti o diminuisca. Queste ultime circostanze modificano il grado di aumento della rendita per acro, ma non il fatto concreto di questo aumento di per sé. Questo fenomeno è caratteristico della rendita differenziale II e la distingue dalla rendita differenziale I. Se gli investimenti addizionali di capitale, anziché essere stati fatti uno dopo l’altro nel medesimo terreno, fossero stati fatti contemporaneamente su dei nuovi terreni addizionali di qualità corrispondente, la massa della rental si sarebbe accresciuta e con essa, come si è precedentemente messo in evidenza, anche la rendita media della superficie complessiva coltivata, ma non l’ammontare della rendita per acro. Quando il risultato rimane invariato per quanto riguarda la massa e il valore della produzione complessiva e del plusprodotto, la concentrazione di capitale in una minore area accresce l’ammontare della rendita per acro, mentre la sua distribuzione su un’area maggiore, nelle stesse circostanze, non produce questo effetto. Ma quanto maggiore è lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, tanto maggiore è anche la concentrazione di capitale nella stessa area e l’aumento della rendita calcolata per acro. Se si hanno due paesi in cui i prezzi di produzione e le differenze per i vari tipi di terreno sono identici, e uguale è l’ammontare di capitale investito, in un paese tuttavia prevalentemente nella forma di investimenti successivi su delle aree ristrette, nell’altro prevalentemente nella forma di investimenti coordinati su delle estensioni più vaste, la rendita per acro e quindi il prezzo della terra sarebbero più elevati per il primo che per il secondo, pur essendo identica la massa della rendita. La differenza nell’ammontare della rendita non potrebbe essere dunque spiegata in questo caso con la differenza nella fertilità naturale dei vari tipi di terreno, né con la quantità del lavoro impiegato, ma esclusivamente con i diversi modi in cui il capitale è investito. Quando parliamo qui di plusprodotto, ci riferiamo sempre a quella parte aliquota del prodotto in cui si rappresenta il plusprofitto. Negli altri casi intendiamo per plusprodotto quella parte del prodotto in cui si esprime il plusvalore complessivo, o anche, in casi particolari, il profitto medio. Il significato specifico che questo termine assume nel caso del capitale produttivo di rendita, dà luogo a dei malintesi, come si è visto precedentemente. |
AVVERTENZA PER IL LETTORE Il testo del III libro del Capitale che viene qui riportato NON È UNA DELLE TRADUZIONI INTEGRALI DEL TESTO ORIGINALE che sono disponibili: esso infatti è una rivisitazione delle traduzioni esistenti (in italiano ed in francese) a cui sono state apportate le seguenti modifiche: 1 – non sono state riportate le note che Marx ed Engels richiamano nel testo (fatte salve alcune eccezioni); 2 – sono state introdotte delle modifiche per quanto riguarda gli esempi numerici in cui, per facilitare la lettura; a – sono state cambiate le unità di misura e le grandezze; b – diversi dati richiamati nella forma di testo sono stati trasformati in tabelle; c – in alcuni esempi numerici le cifre decimali sono state limitate a due e nel caso di numeri periodici, ad esempio 1/3 o 2/3, la cifra periodica è stata indicata con un apice (‘). Ci rendiamo conto che leggere un testo del Capitale in cui Marx formula esempi in Euro (€) invece che in Lire Sterline (Lst) o scellini potrebbe far sorridere e far pensare ad uno scherzo o ad una manipolazione che ha travisato il pensiero dell’Autore, avvertiamo invece il lettore che il testo è assolutamente fedele al pensiero originale e che ci siamo permessi di introdurre alcune “varianti” per consentire a coloro che non hanno dimestichezza con le unità di misura e monetarie inglesi di non bloccarsi di fronte a questa difficoltà e di facilitarne così la lettura o lo studio. In altre parti si sono invece mantenute le unità di misura e monetarie inglesi originali perchè la lettura non creava problemi di comprensione o per ragioni di fedeltà storica. Ci facciamo altresì carico dell’osservazione che Engels ha formulato nelle “considerazioni supplementari” poste all’inizio del III Libro, laddove, di fronte alle molteplici interpretazioni del testo che vennero fatte dopo la prima edizione, sostiene: “Nella presente edizione ho cercato innanzitutto di comporre un testo il più possibile autentico, di presentare, nel limite del possibile, i nuovi risultati acquisiti da Marx, usando i termini stessi di Marx, intervenendo unicamente quando era assolutamente necessario, evitando che, anche in quest’ultimo caso, il lettore potesse avere dei dubbi su chi gli parla. Questo sistema è stato criticato; si è pensato che io avrei dovuto trasformare il materiale a mia disposizione in un libro sistematicamente elaborato, en faire un livre, come dicono i francesi, in altre parole sacrificare l’autenticità del testo alla comodità del lettore. Ma non è in questo senso che io avevo interpretato il mio compito. Per una simile rielaborazione mi mancava qualsiasi diritto; un uomo come Marx può pretendere di essere ascoltato per se stesso, di tramandare alla posterità le sue scoperte scientifiche nella piena integrità della sua propria esposizione. Inoltre non avevo nessun desiderio di farlo: il manomettere in questo modo perchè dovevo considerare ciò una manomissione l’eredità di un uomo di statura così superiore, mi sarebbe sembrato una mancanza di lealtà. In terzo luogo sarebbe stato completamente inutile. Per la gente che non può o non vuole leggere, che già per il primo Libro si è data maggior pena a interpretarlo male di quanto non fosse necessario a interpretarlo bene — per questa gente è perfettamente inutile sobbarcarsi a delle fatiche”. Marx ed Engels non ce ne vogliano, ma posti di fronte alle molteplici “fughe” dallo studio da parte di persone che non possedevano una cultura accademica, fughe che venivano imputate alla difficoltà presentate dal testo, abbiamo deciso di fare uno “strappo” alle osservazioni di Engels, intervenendo in alcune parti avendo altresì cura di toccare il testo il meno possibile. Nel fare questo “strappo” eravamo tuttavia confortati dal fatto che, a differenza della situazione in cui Engels si trovava, oggi chi vuole accedere al testo “originale”, dispone di diverse edizioni in varie lingue. Coloro che volessero accostarsi al testo originale in lingua italiana si consigliano le seguenti edizioni:
Chi volesse accedere ad edizioni del Capitale e di altri testi di Marx in lingue estere, si propone di consultare il sito internet di seguito riportato:http://www.marxists.org/xlang/marx.htm |