IL CAPITALE

LIBRO III

SEZIONE VI

TRASFORMAZIONE DEL PLUSPROFITTO IN RENDITA FONDIARIA

CAPITOLO 37

INTRODUZIONE

L’analisi della proprietà fondiaria nelle sue diverse forme storiche esula dai limiti del presente lavoro. Ce ne occupiamo unicamente in quanto una parte del plusvalore prodotto dal capitale finisce nelle mani del proprietario fondiario. Il nostro presupposto è, quindi, che l’agricoltura, precisamente come la manifattura, sia dominata dal modo di produzione capitalistico, ossia che l’economia agricola venga esercitata da capitalisti, che si distinguono in linea di massima dagli altri capitalisti soltanto per l’elemento in cui sono investiti il loro capitale e il lavoro salariato messo in opera da questo capitale. Per noi l’affittuario produce grano, ecc., come il fabbricante filati o macchine. L’ipotesi che il modo di produzione capitalistico si sia impadronito dell’agricoltura implica che tale modo di produzione domini tutte le sfere della produzione e della società borghese e che esistano quindi, pienamente sviluppate, le sue condizioni essenziali, quali la libera concorrenza fra i capitali, la loro trasferibilità da una sfera di produzione all’altra, un livello uniforme del profitto medio ecc. La forma della proprietà fondiaria che noi consideriamo è una forma specificamente storica, la forma modificata dall’azione del capitale e del modo di produzione capitalistico, sia della proprietà fondiaria feudale, sia dell’agricoltura esercitata dai piccoli contadini per i bisogni alimentari, nella quale il possesso della terra appare al produttore diretto come una delle condizioni della produzione, e la sua proprietà della terra come la condizione più vantaggiosa, come condizione per la prosperità del suo modo di produzione. Se il modo di produzione capitalistico presuppone in generale che i lavoratori siano espropriati delle condizioni di lavoro, esso presuppone per l’agricoltura che i lavoratori rurali vengano espropriati della terra e subordinati a un capitalista, il quale esercita l’agricoltura in vista del profitto. Quando, perciò, ci viene ricordato che sono esistite ed ancora esistono altre forme di proprietà terriera e di agricoltura, ci viene fatta un’obiezione che non intacca per nulla quanto veniamo esponendo. Ciò può riguardare unicamente quegli economisti che trattano il modo di produzione capitalistico nell’agricoltura, e la forma della proprietà fondiaria ad esso corrispondente, come categorie non storiche, ma eterne.

Ai nostri fini è necessario studiare la forma moderna della proprietà fondiaria, essendo nostro compito considerare in generale i rapporti determinati di produzione e di circolazione che derivano dall’investimento del capitale nell’agricoltura. Altrimenti l’analisi del capitale non sarebbe completa. Noi ci limitiamo quindi esclusivamente all’investimento del capitale nella agricoltura propriamente detta, ossia nella coltivazione della pianta fondamentale, che serve al nutrimento di una popolazione. Possiamo prendere, per esempio, il grano, costituendo questo l’alimento principale dei popoli moderni a sviluppo capitalistico. (Oppure, anziché l’agricoltura, possiamo considerare le miniere, poiché le leggi sono le medesime).

Uno dei grandi meriti di A. Smith è di avere dimostrato che la rendita fondiaria del capitale investito nella produzione di altri prodotti agricoli, quali ad esempio il lino, i coloranti vegetali, l’allevamento del bestiame come branca autonoma ecc., è determinata dalla rendita fondiaria ottenuta dal capitale investito nella produzione dell’alimento principale. Dopo di lui non è stato fatto, in realtà, alcun progresso in questo campo. Ciò che noi dovremmo ricordare in senso limitativo o integrativo, trova il suo posto non qui, ma in uno studio specifico della proprietà fondiaria. Della proprietà fondiaria, quando non si tratti di terreni destinati alla produzione del grano, non si parlerà quindi ex professo, ma vi faremo soltanto occasionale riferimento a scopo illustrativo.

Si deve notare, per maggiore completezza, che qui il termine terra include anche l’acqua, ecc., quando questa abbia un proprietario e appartenga come accessorio alla terra.

La proprietà fondiaria presuppone il diritto monopolistico, da parte di certi individui, di disporre di determinate porzioni del globo, come di sfere riservate alla loro volontà privata, con esclusione di tutti gli altri[1].

Ammesso ciò, si tratta di analizzare il valore economico, ossia la valorizzazione di questo monopolio, sulla base della produzione capitalistica.

Il potere giuridico di questi individui di usare e di abusare di certe porzioni del globo terrestre, non risolve affatto la questione. L’uso che essi fanno di questo potere dipende completamente da condizioni economiche che sono indipendenti dalla loro volontà.

La stessa concezione giuridica non significa altro, se non che il proprietario fondiario può disporre della terra, come ogni proprietario di merci può disporre delle proprie merci; e questa concezione — la concezione giuridica della libera proprietà privata — sorge, nel mondo antico, solamente al momento della disgregazione dell’ordinamento organico della società e, nel mondo moderno, solo con lo sviluppo della produzione capitalistica. In Asia essa è stata importata solo qua e là dagli europei. Nella sezione che tratta dall’accumulazione originaria (libro I, capitolo XXIV), si è visto come questo modo di produzione presupponga da un lato che il produttore diretto sia emancipato dalla posizione di semplice accessorio del suolo (sotto forma di servo della gleba, di contadino asservito, schiavo ecc.), d’altro lato che la massa del popolo sia espropriata della terra. In questo senso il monopolio della proprietà fondiaria è un presupposto storico e rimane la base costante del modo di produzione capitalistico, come di tutti i modi di produzione anteriori, che si fondano sullo sfruttamento delle masse in una forma o nell’altra.

Ma la forma sotto cui il modo di produzione capitalistico ai suoi inizi trova la proprietà fondiaria, non gli corrisponde. Esso stesso crea la forma adeguata, subordinando l’agricoltura al capitale; ed in tal modo anche la proprietà fondiaria feudale, la proprietà del clan, la piccola proprietà dei contadini unita alla comunità di marca, nonostante la disparità delle loro forme giuridiche, vengono trasformate nella forma economica corrispondente a questo modo di produzione.

Costituisce uno dei grandi risultati del modo di produzione capitalistico il trasformare, da un lato, l’agricoltura da metodo puramente empirico, che si trasmetteva meccanicamente di padre in figlio nella parte meno sviluppata della società, in una cosciente applicazione scientifica dell’agronomia, nella misura in cui ciò è possibile nel quadro dei rapporti dati con la proprietà privata ; il liberare radicalmente la proprietà fondiaria, da un lato, dai rapporti di servitù e di schiavitù, il separare, d’altro lato, nettamente la terra, come condizione di lavoro, dalla proprietà fondiaria e dal proprietario fondiario, per il quale essa non rappresenta niente altro che una determinata imposta in denaro, che per mezzo del suo monopolio preleva dal capitalista industriale, l’affittuario; il dissolvere questo nesso ad un punto tale che il proprietario fondiario può trascorrere tutta la sua vita a Costantinopoli, mentre il suo fondo si trova in Scozia.

La proprietà fondiaria acquista così la sua forma puramente economica, spogliandosi di tutte le sue precedenti frange e contaminazioni politiche e sociali, in breve di tutte quelle appendici tradizionali che i capitalisti industriali stessi ed i loro portavoce teorici, come vedremo più tardi, denunciano nell’ardore della loro lotta con la proprietà fondiaria come una proliferazione inutile ed assurda.

Da un lato la razionalizzazione dell’agricoltura, che ne permette la gestione sociale, dall’altro la riduzione ad absurdum della proprietà fondiaria, costituiscono i grandi meriti del modo di produzione capitalistico. Al pari di tutti gli altri suoi progressi storici, esso ha realizzato anche questo anzitutto a prezzo del più completo impoverimento dei produttori diretti.

Prima di affrontare il nostro argomento, dobbiamo fare ancora alcune avvertenze al fine di evitare malintesi.

La premessa nel modo di produzione capitalistico è quindi la seguente: gli agricoltori effettivi sono dei salariati, occupati da un capitalista, l’affittuario, il quale esercita l’agricoltura unicamente come un particolare campo di sfruttamento del capitale, come investimento del proprio capitale in una sfera particolare della produzione. Questo capitalista affittuario paga al proprietario fondiario, al proprietario del terreno da lui sfruttato, a determinate scadenze, ad esempio, annualmente, una somma di denaro stabilita per contratto (precisamente come chi prende a prestito del capitale monetario paga determinati interessi) per avere il permesso di impiegare il suo capitale in questo particolare campo di produzione.

Questa somma di denaro si chiama rendita fondiaria, sia che essa provenga da terreni coltivabili, o da terreni da costruzione, da miniere, da riserve di pesca, da boschi ecc.

Essa viene pagata per tutto il periodo durante il quale il proprietario terriero ha, contrattualmente, dato in prestito o affittato il terreno all’affittuario.

La rendita fondiaria è dunque qui la forma sotto la quale la proprietà fondiaria è realizzata, valorizzata economicamente. Abbiamo inoltre qui tutte e tre le classi che costituiscono la cornice del la società moderna, riunite e opposte l’una all’altra — operaio salariato, capitalista industriale, proprietario fondiario.

Il capitale può essere fissato nella terra, venire incorporato, parte in modo più transitorio, come in miglioramenti di natura chimica, concimazione e così via, parte in modo più permanente, come nei canali di drenaggio e di irrigazione, nei lavori di livellamento, nella costruzione di fattorie ecc. Ho altrove (Misère de la Philosophie [Parigi, 1647, p. 1651 denominato il capitale, in tal modo incorporato alla terra, la terre capital [terra-capitale]. Esso rientra nella categoria del capitale fisso.

L’interesse sul capitale incorporato alla terra e sui miglioramenti che il terreno subisce in tal modo come strumento di produzione, può costituire una parte della rendita,che viene pagata  dall’affittuario al proprietario fondiario, ma non costituisce la rendita fondiaria propriamente detta, che viene pagata per l’uso del terreno in sé, sia che esso si trovi allo stadio naturale o che sia coltivato. Qualora ci proponessimo lo studio sistematico della proprietà fondiaria, esame che esula dal piano del presente lavoro, questa parte delle entrate del proprietario fondiario dovrebbe essere analizzata dettagliatamente. Qui sono sufficienti poche parole sull’argomento. Gli investimenti di capitale a carattere prevalentemente temporaneo, che accompagnano nell’agricoltura i processi ordinari di produzione, vengono effettuati tutti, senza eccezione, dall’affittuario. Questi investimenti, come la semplice coltura in generale, quando è fatta con una certa razionalità e non si riduce ad un brutale sfruttamento del suolo, come, ad esempio, era un tempo abitudine degli schiavisti americani — pericolo questo contro il quale però i signori proprietari fondiari si garantiscono con contratto —, migliorano il terreno, aumentano il prodotto e trasformano la terra da semplice materia in terra-capitale. Un campo coltivato ha valore maggiore di un altro con la stessa qualità naturale, ma incolto. Anche i capitali fissi, che vengono incorporati alla terra ed hanno un carattere più permanente, consumandosi con maggiore lentezza, vengono forniti in gran parte e in certe sfere quasi esclusivamente dall’affittuario. Ma quando l’affitto, secondo i termini stabiliti dai contratto, giunge a scadenza — e questo è uno dei motivi per cui, con lo sviluppo della produzione capitalistica, il proprietario terriero cerca di abbreviare nel limite del possibile la durata dell’affitto — i miglioramenti che si trovano incorporati nel terreno, come accidente inseparabile dalla sostanza, ossia dal terreno, passano di diritto in proprietà al possessore della terra. Nel nuovo contratto di affitto, che il proprietario fondiario conclude, aggiunge alla rendita fondiaria propriamente detta l’interesse del capitale incorporato nella terra: sia che egli affitti ora la terra all’affittuario che ha introdotto il miglioramento, o ad un altro. In tal modo la sua rendita cresce: oppure se vuol vendere la sua terra — vedremo subito come ne viene stabilito il prezzo — il valore di essa è ora aumentato. Egli non vende solo il terreno, ma il terreno migliorato, il capitale incorporato nel suolo, che non gli è costato nulla. In ciò consiste , nel processo di sviluppo economico, uno dei segreti — astrazione fatta dal movimento della rendita fondiaria propriamente detta — dell’arricchimento progressivo dei proprietari fondiari, dell’aumento incessante delle loro rendite, dell’accrescimento costante del valore monetario delle loro terre. Essi mettono così nelle loro tasche private il risultato dello sviluppo sociale, senza avervi contribuito — fruges consumere nati (nati per consumare i frutti) . Ciò costituisce al tempo stesso uno degli ostacoli maggiori per una agricoltura razionale, in quanto l’affittuario evita tutti i miglioramenti e le spese che non prevede di poter recuperare integralmente prima della scadenza dell’affitto; e noi troviamo questo stato di cose denunciato di continuo come un ostacolo tanto nel secolo scorso da James Anderson, il vero scopritore della moderna teoria della rendita, che fu insieme esperto agricoltore affittuario e, per il suo tempo, insigne agronomo, quanto ai nostri giorni da coloro che avversano l’ordinamento della proprietà fondiaria in Inghilterra.

A. A. Walton, History of  the Landed Tenures of Great Britain and Irelend, Londra, 1865, dice a questo proposito (pp. 96, 97): «Tutti gli sforzi delle numerose istituzioni agricole nel nostro paese non possono portare risultati molto considerevoli o veramente degni di nota nel senso di un progresso reale di una coltivazione migliorata, fino a che tali miglioramenti continueranno a far aumentare molto più il valore della proprietà fondiaria e l’entità. della rendita del proprietario fondiario, di quanto non migliorino la posizione dell’affittuario o del lavoratore agricolo. Gli affittuari in generale sanno, quanto il proprietario del terreno, il suo contabile o anche il presidente di una società agricola, che dei buoni drenaggi, una ricca concimazione e una buona gestione in unione ad un accresciuto impiego di lavoro per ripulire e lavorare il terreno, daranno risultati prodigiosi, sia riguardo al miglioramento del suolo che riguardo all’aumento della produzione. Ma tutto ciò richiede spese considerevoli e gli affittuari sanno altrettanto bene che, per quanto essi possano migliorare la terra o accrescerne il valore, sarà sempre il proprietario della terra, che alla lunga ne trarrà il vantaggio principale con l’aumento delle rendite e con l’accresciuto valore del terreno... Essi sono abbastanza intelligenti per notare ciò che quegli oratori» (i proprietari terrieri ed i loro amministratori ai banchetti agricoli) «dimenticano sempre stranamente di dire loro — ossia che la parte del leone di tutti i miglioramenti fatti dall’affittuario deve in definitiva finire nelle tasche del proprietario del terreno... Per quanto l’affittuario precedente abbia potuto migliorare l’azienda, il suo successore si accorgerà sempre che il proprietario del terreno aumenterà la rendita fondiaria in proporzione all’aumento del valore del terreno, realizzato dalle migliorie precedenti».

Questo processo non si manifesta tuttavia nell’agricoltura vera e propria con la chiarezza con cui si manifesta nell’uso dei terreno fabbricabile.

La parte di gran lunga preponderante dei terreno, che è venduta in Inghilterra ad uso fabbricabile, ma non come freehold (Libera proprietà terriera), è data in affitto dai proprietari terrieri per 99 anni od anche, se possibile, per periodi più brevi. Trascorso questo tempo le costruzioni, unitamente al terreno, ritornano in proprietà al proprietario del terreno. «Essi (gli affittuari) sono tenuti, al termine del contratto di affitto, a rimettere la casa al grande proprietario fondiario in buone condizioni di abitabilità, dopo aver pagato fino a quel momento una rendita fondiaria esorbitante. Non appena il contratto di affitto è spirato, arriva l’agente o ispettore del proprietario, che ispeziona la vostra casa, provvede perché la restauriate, ne prende quindi possesso e l’annette agli averi del suo padrone. Il fatto è che, se si permette che questo sistema conservi pieno vigore ancora per molto tempo, la proprietà di tutte le case nel Regno, così come la proprietà del terreno agricolo finirà in mano dei grandi proprietari fondiari. Tutto il West End di Londra, al nord e ai sud di Temple Bar, appartiene quasi esclusivamente ad una mezza dozzina circa di grandi proprietari terrieri; è dato in affitto con canoni enormi, e i contratti di affitto, là dove non sono ancora scaduti, vengono rapidamente a scadenza uno dopo l’altro. Lo stesso fatto si ripete in misura maggiore o minore in ogni città del Regno Unito. Ma questo sistema esoso di esclusività e di monopolio non si arresta neppure qui. Quasi tutti gli impianti dei docks dei nostri porti, per effetto dello stesso processo di usurpazione, si trovano in mano dei grandi leviatani terrieri» (ibid., p. [92] 93). In tali circostanze è chiaro che se dal censimento per l’Inghilterra e il Galles del 1861, rispetto ad una popolazione complessiva di 20.066.224 abitanti, risulta un numero di 36.032 proprietari di immobili, il rapporto fra i proprietari ed il numero delle case e degli abitanti assumerebbe un aspetto completamente diverso, qualora i grandi proprietari venissero separati dai piccoli.

Questo esempio della proprietà edilizia è importante,

1)           perché esso mostra nettamente la differenza fra la rendita fondiaria propriamente detta e l’interesse del capitale fisso incorporato nel suolo, che può costituire un’aggiunta alla rendita fondiaria. L’interesse dei fabbricati, come nell’agricoltura quello del capitale incorporato nel suolo dall’affittuario, va al capitalista industriale, allo speculatore edilizio o all’affittuario, per la durata del contratto d’affitto e di per sé non ha nulla a che vedere con la rendita fondiaria che deve essere pagata annualmente a scadenze fisse per l’uso del terreno.

2)           perché mostra che, con il terreno, anche il capitale estraneo ad esso, incorporato, finisce per ritornare al proprietario terriero e l’interesse di questo capitale aumenta la sua rendita.

Alcuni autori, in parte come portavoce della proprietà terriera contro gli attacchi degli economisti borghesi, in parte nell’intento di trasformare il sistema di produzione capitalistico in un sistema di  «armonie» anziché di antagonismi, come ad esempio Carey, hanno cercato di identificare la rendita fondiaria, espressione economica specifica della proprietà terriera, con l’interesse. In tal modo sparirebbe l’antagonismo fra i proprietari terrieri ed i capitalisti. Il metodo opposto fu applicato all’inizio della produzione capitalistica. In quei tempi la concezione popolare vedeva ancora nella proprietà fondiaria la forma primitiva e rispettabile della proprietà privata, mentre l’interesse del capitale veniva deprecato come usura. Dudley North, Locke ecc, rappresentavano perciò l’interesse del capitale come una forma analoga alla rendita fondiaria, precisamente come Turgot faceva derivare la legittimità dell’interesse dalla esistenza della rendita fondiaria. Quegli autori moderni dimenticano — astraendo completamente dal fatto che la rendita fondiaria può esistere ed esiste pura, senza che vi si aggiunga il minimo interesse per capitale incorporato nel suolo — che il proprietario fondiario in questo modo non riceve soltanto l’interesse di capitale altrui, che non gli costa nulla, ma riceve il capitale altrui, gratuitamente, per sovrappiù. La giustificazione della proprietà fondiaria, come quella di tutte le altre forme di proprietà di un determinato modo di  produzione, sta nel fatto che lo stesso modo di produzione ha una necessità storica transitoria, e l’hanno quindi anche i rapporti di produzione e di scambio da esso risultanti. Certo, come vedremo più avanti, la proprietà fondiaria si distingue dalle altre forme della proprietà per il fatto che, ad un certo grado di sviluppo, essa appare superflua e dannosa, anche dal punto di vista del modo di produzione capitalistico.

La rendita fondiaria può venire confusa sotto un’altra forma con l’interesse ed in tal modo il suo carattere specifico può essere misconosciuto.

La rendita fondiaria si presenta come una determinata somma di denaro che il proprietario fondiario ricava ogni anno dall’affitto di una porzione del globo terrestre.

Abbiamo visto come ogni specifico reddito monetario possa venire capitalizzato, ossia considerato interesse di un capitale immaginario. Se ad esempio il saggio medio dell’interesse è del 5 %, anche una rendita fondiaria annuale di 48.000 €  può essere quindi considerata interesse di un capitale di 9.600.000 €. È la rendita fondiaria così capitalizzata, che costituisce il prezzo di acquisto o il valore della terra, categoria questa che prima facie, proprio come il prezzo del lavoro, è irrazionale, non essendo la terra prodotto del lavoro e non avendo di conseguenza valore alcuno. D’altro lato, però, sotto questa forma irrazionale si nasconde un reale rapporto di produzione. Se un capitalista acquista della terra, che produce una rendita annua di 48.000 €, al prezzo di 9.600.000 €, egli riceve l’interesse annuo medio del 5 % su 9.600.000 €, precisamente come se egli avesse investito questo capitale in titoli produttivi d’interesse o lo avesse direttamente dato in prestito col 5 % d’interesse. Ciò rappresenta la valorizzazione di un capitale di 9.600.000 € al 5 %. In questa ipotesi egli ricostituirebbe in 20 anni, con i redditi da essa prodotti, il prezzo di acquisto della sua proprietà. In Inghilterra il prezzo di acquisto della terra viene perciò calcolato sulla base di un certo numero del year’s purchase (proventi annui), il che costituisce soltanto un’altra espressione della capitalizzazione della rendita fondiaria. È in realtà il prezzo di acquisto, non del suolo, ma della rendita fondiaria che esso frutta, calcolato secondo il saggio corrente dell’interesse. Ma questa capitalizzazione della rendita presuppone la rendita stessa, mentre viceversa la rendita non può essere né derivata né spiegata in base alla sua propria capitalizzazione. La sua esistenza, indipendentemente dalla vendita, è qui invece la premessa dalla quale si parte.

Assumendo la rendita fondiaria come grandezza costante, ne consegue che il prezzo della terra può aumentare o diminuire in ragione inversa del saggio dell’interesse. Se il saggio corrente dell’interesse diminuisse dal 5 al 4 %, una rendita fondiaria annua di 48.000 €  rappresenterebbe l’utile annuo di un capitale di 12.000.000 € anziché di 9.600.000 € ed il prezzo dello stesso terreno aumenterebbe da 9.600.000 a 12.000.000 €, ossia da 20 year’s purchase (proventi annui) a 25 anni. Il contrario si verificherebbe nella ipotesi opposta. Si ha qui un movimento del prezzo della terra indipendente dal movimento della rendita fondiaria stessa, regolato unicamente dal saggio dell’interesse.

Poichè abbiamo visto che nel corso dello sviluppo sociale:

·              il saggio del profitto e quindi anche il saggio dell’interesse, nella misura in cui è regolato dal saggio del profitto,  per effetto dell’aumento del capitale monetario da prestito ha tendenza a diminuire;

·              che inoltre, anche facendo astrazione dal saggio del profitto, il saggio dell’interesse ha tendenza a diminuire,

ne consegue che il prezzo della terra ha tendenza ad aumentare, anche indipendentemente dal movimento della rendita fondiaria e del prezzo dei prodotti del suolo, di cui la rendita costituisce una parte.

Il fatto che la rendita fondiaria stessa viene confusa con la forma di interesse che essa riveste per chi acquista la terra — confusione questa, che deriva da un’assoluta incomprensione della natura della rendita fondiaria — deve portare alle conclusioni più bizzarre e fallaci. Poiché la proprietà fondiaria in tutti i paesi antichi é considerata una forma particolarmente distinta della proprietà ed inoltre l’acquisto della terra è ritenuto un investimento di capitale particolarmente sicuro, il saggio dell’interesse, al quale è comperata la rendita fondiaria, è abitualmente più basso che per altri investimenti di capitale a lunga durata, così che, ad esempio, chi acquista della terra riceve soltanto il 4 % sul prezzo di acquisto, mentre altrimenti per lo stesso capitale riceverebbe il 5 %; oppure, ciò che è la stessa cosa, egli paga per la rendita fondiaria più capitale di quanto non verrebbe a pagare in altri investimenti per il medesimo reddito monetario annuo. Il signor Thiers nel suo pessimo scritto su La Propriété (copia del discorso da lui tenuto contro Proudhon nel 1849 all’Assemblea nazionale francese) ne deduce che la rendita fondiaria è bassa, mentre ciò prova soltanto che il suo prezzo d’acquisto è elevato.

Il fatto che la rendita fondiaria capitalizzata si presenti come prezzo o valore della terra e che quindi la terra viene acquistata e venduta come qualsiasi altra merce, costituisce per certi apologisti una ragione giustificativa della proprietà terriera, in quanto il compratore ha pagato un equivalente per essa, come per qualsiasi altra merce, e la più gran parte della proprietà terriera avrebbe in questo modo cambiato di mano. Questa ragione giustificativa varrebbe allora anche per la schiavitù, in quanto per il padrone di schiavi, che ha pagato lo schiavo in contanti, il provento ricavato dal lavoro di quest’ultimo rappresenta unicamente l’interesse del capitale speso nel suo acquisto. Far derivare dalla vendita e dall’acquisto della rendita fondiaria la legittimazione della sua esistenza, significa in generale giustificare la sua esistenza con la sua esistenza.

Come è importante per l’analisi scientifica della rendita fondiaria — ossia della specifica forma economica autonoma della proprietà terriera sulla base del modo di produzione capitalistico — considerarla pura e libera da tutte le aggiunte che la falsano e la obliterano, altrettanto, per comprendere gli effetti pratici ed anche per indagare teoricamente un insieme di fatti, che sono in contrasto col concetto e la natura della rendita fondiaria e pur tuttavia appaiono come sue forme di esistenza, è importante conoscere gli elementi, dai quali derivano queste contaminazioni della teoria.

Nella pratica appare naturalmente come rendita fondiaria tutto ciò che viene pagato dall’affittuario al proprietario terriero sotto forma di affitto, in cambio della autorizzazione di coltivare la terra. Quali che siano gli elementi di cui questo tributo è composto e le fonti dalle quali proviene, esso ha di comune, con la rendita fondiaria propriamente detta, che il monopolio su una parte del globo terrestre mette in grado il così detto proprietario terriero di prelevare il tributo, di imporre la tassazione. Questo tributo e ciò lo accomuna alla rendita fondiaria propriamente detta, determina il prezzo del terreno, il quale, come abbiamo visto precedentemente, non è altro che la capitalizzazione del reddito derivante dalla locazione del suolo.

Abbiamo già visto che l’interesse del capitale incorporato nella terra può costituire uno di questi elementi estranei alla rendita fondiaria, elemento che, nel corso dello sviluppo economico, deve costituire un’aggiunta sempre crescente all’ammontare complessivo della rendita lorda di un paese. Ma, indipendentemente da questo interesse, è possibile che, sotto il canone d’affitto si nasconda in parte, ed in certi casi del tutto (cioè nei casi in cui manca completamente una rendita fondiaria vera e propria e quindi il terreno non ha alcun valore) una detrazione, operata sia sul profitto medio, sia sul salario normale, sia su entrambe le cose contemporaneamente. Questa parte del profitto o del salario appare qui nella forma di rendita fondiaria, perché essa, invece di andare, come sarebbe normale, al capitalista industriale o al lavoratore salariato, viene pagata al proprietario terriero sotto forma di affitto. In termini economici né l’una né l’altra parte costituiscono la rendita fondiaria: ma, dal punto di vista pratico, essa costituisce un reddito del proprietario terriero, una valorizzazione economica del suo monopolio, precisamente come la rendita fondiaria propriamente detta e contribuisce, al pari di quest’ultima, a determinare il prezzo della terra.

Non parliamo qui di certe condizioni in cui esiste formalmente la rendita fondiaria, la forma della proprietà fondiaria corrispondente al modo di produzione capitalistico, senza che vi sia il modo di produzione capitalistico stesso, senza che l’affittuario stesso sia un capitalista industriale oppure sia capitalistico il tipo della sua gestione. Questo caso si verifica ad esempio in Irlanda. In questo paese l’affittuario è in genere un piccolo contadino. Ciò che egli paga come affitto al proprietario fondiario assorbe spesso non soltanto una parte del suo profitto, ossia del suo proprio pluslavoro, sul quale egli ha dei diritti, quale proprietario dei suoi strumenti di lavoro, ma anche una parte del normale salario, che egli in altre condizioni riceverebbe per la stessa quantità di lavoro. Inoltre il proprietario fondiario, che qui non fa assolutamente nulla per il miglioramento del suolo, lo espropria del suo piccolo capitale, che egli con il suo lavoro ha per la massima parte incorporato nel suolo, precisamente come farebbe un usuraio in circostanze analoghe. Con la differenza che l’usuraio rischia almeno il suo capitale nella operazione. Questa spoliazione continua costituisce l’oggetto della disputa sulla legislazione agraria irlandese essenzialmente rivolta ad ottenere che il proprietario fondiario, che dà la disdetta all’affittuario, sia obbligato ad indennizzarlo per i miglioramenti da lui apportati al suolo o per il capitale incorporato nel suolo. Palmerston era solito rispondere a questo proposito cinicamente: «La Camera dei Comuni è una Camera di proprietari fondiari».

Parimenti non parliamo delle situazioni eccezionali in cui, anche nei paesi a produzione capitalistica, il proprietario terriero può estorcere degli affitti elevati, che non si trovano in alcuna relazione con i prodotti del suolo, come ad esempio nei distretti industriali inglesi l’affitto di piccole strisce di terreno agli operai di fabbrica, sia per piccoli giardini, che per coloro che si dilettano di coltivare la terra nei ritagli di tempo (Reports of Inapectors of  Factories).

Ci occupiamo della rendita fondiaria di paesi a produzione capitalistica sviluppata. Fra gli affittuari inglesi ad esempio, si trova un certo numero di piccoli capitalisti che, per educazione, formazione, tradizione, concorrenza ed altre circostanze, sono indotti e costretti ad investire il loro capitale nell’agricoltura come affittuari. Essi sono costretti ad accontentarsi di un profitto inferiore alla media e a cedere una parte di questo profitto sotto forma di rendita al proprietario fondiario. Solo a questa condizione viene loro permesso di investire il loro capitale nel suolo, nell’agricoltura. Poichè dappertutto i proprietari fondiari esercitano sulla legislazione un’influenza notevole, ed in Inghilterra perfino preponderante, tale influenza può essere sfruttata per depredare l’intera classe degli affittuari. Ad esempio, le leggi sul grano del 1815 — un’imposta sul pane di cui si gravò il paese, con il dichiarato intento di assicurare agli oziosi proprietari fondiari la conservazione della rental aumentata a dismisura durante la guerra antigiacobina — ebbero certamente l’effetto, ad eccezione di alcuni anni particolarmente fertili, di mantenere il prezzo dei prodotti agricoli al di sopra del livello al quale sarebbe caduto con una libera importazione del grano. Ma esse non ottennero il risultato di conservare i prezzi a quel livello che i proprietari fondiari legislatori avevano decretato come normale facendone il limite legale per l’importazione del grano straniero. Ma i contratti d’affitto vennero conclusi sotto l’impressione di questi prezzi normali. Quando l’illusione svanì, venne fatta una nuova legge con nuovi prezzi normali, che, al pari dei vecchi prezzi, non erano che l’espressione impotente della avida fantasia dei proprietari fondiari. In tal modo gli affittuari furono depredati dal 1815 fino a dopo il ‘30. Di qui, durante questo periodo, il tema costante dell’agricultural distress (Crisi agricola). Di qui, durante questo periodo, l’espropriazione e la rovina di tutta una generazione di affittuari e la loro sostituzione con una nuova classe di capitalisti. Ma un fatto molto più generale ed importante è la depressione del salario del lavoratore agricolo propriamente detto al di sotto del suo livello medio normale, di modo che una parte del salario è sottratta al lavoratore, costituisce un elemento del canone d’affitto e così, sotto la maschera della rendita fondiaria, affluisce al proprietario fondiario anziché al lavoratore. Questo, ad esempio, avviene generalmente in Inghilterra ed in Scozia, ad eccezione di alcune contee favorevolmente situate. I lavori delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul livello dei salari, che furono costituite prima della introduzione delle leggi sul grano in Inghilterra — fino ad oggi il contributo più prezioso e quasi per nulla sfruttato, per la storia del salario nel XIX secolo, e al tempo stesso una colonna infame, che l’aristocrazia e la borghesia inglese si è eretta da se stessa — dimostrano con grande evidenza, in modo incontestabile, che gli elevati saggi delle rendite e l’aumento del prezzo del terreno ad essi corrispondente, durante la guerra antigiacobina, dovevano essere attribuiti in parte alla riduzione del salario ed alla sua depressione al di sotto del minimo fisico: ossia al fatto che una parte del normale salario veniva trasferita al proprietario fondiario. Diverse circostanze, fra le quali il deprezzamento del denaro, la forma in cui si applicò la legge sui poveri nei distretti agricoli e così via, avevano reso possibile questa operazione, al tempo stesso in cui i redditi degli affittuari si accrebbero enormemente ed i proprie tari fondiari si arricchivano in modo prodigioso. Anzi, uno degli argomenti principali per invocare i dazi sul grano, sia da parte degli affittuari che dei proprietari, era l’impossibilità fisica di ridurre ulteriormente il salario dei braccianti agricoli. Questa situazione non si è in sostanza modificata e in Inghilterra, come in tutti i paesi europei, una parte del salario normale continua ad essere assorbita dalla rendita fondiaria. Quando il conte Shaftesbury, allora Lord Ashley, uno degli aristocratici filantropi, si commosse per la situazione degli operai di fabbrica inglesi a tal punto da farsi loro portavoce in parlamento nella agitazione per le dieci ore, i rappresentanti degli industriali pubblicarono per vendetta una statistica sul salario dei braccianti agricoli nei villaggi che gli appartenevano (vedi Libro I, capitolo XXIII, 5, e: Il proletariato agricolo della Gran Bretagna ), la quale dimostrava chiaramente come una parte della rendita fondiaria di questo filantropo consistesse nel furto, compiuto per lui dai suoi affittuari, sul salario dei lavoratori agricoli. Questa pubblicazione è interessante anche perché i fatti ivi contenuti possono senz’altro paragonarsi alle cose peggiori rivelate dalle commissioni del 1814 e ‘15. Non appena le circostanze impongono un momentaneo aumento del salario dei braccianti agricoli, risuona il grido degli affittuari, secondo cui un aumento del salario al suo livello normale, vigente in altri rami industriali, non sarebbe possibile e li rovinerebbe senza una contemporanea riduzione della rendita fondiaria. In questo è contenuta quindi la confessione che, sotto il nome di rendita fondiaria, viene fatta dagli affittuari una detrazione sul salario, detrazione che viene versata ai proprietari fondiari. Dal 1849 al 1859 ad esempio, il salario dei lavoratori agricoli subì in Inghilterra un aumento per il concorrere di circostanze di peso soverchiante come: l’esodo dall’Irlanda, che bloccò l’offerta di lavoratori agricoli di tale provenienza; l’assorbimento eccezionale della popolazione agricola da parte dell’industria di fabbrica; la richiesta di soldati per la guerra; la fortissima emigrazione verso l’Australia e gli Stati Uniti (California), ed altre cause cui non è il caso di accennare qui. Contemporaneamente, ad eccezione degli anni 1854-56, in cui i raccolti furono scarsi, il prezzo medio del grano cadde di più del 16 %. Gli affittuari reclamarono a gran voce la riduzione delle rendite. In casi isolati vi riuscirono. Nel complesso questa richiesta naufragò. Essi ricorsero alla diminuzione dei costi di produzione, tra l’altro introducendo su larga scala l’uso di locomobili a vapore e di nuove macchine, che in parte sostituivano ed eliminavano dall’agricoltura i cavalli, ma in parte creavano anche con la disoccupazione dei braccianti agricoli una sovrappopolazione artificiale e quindi una nuova riduzione del salario. E ciò si verificava nonostante la generale diminuzione relativa della popolazione agricola, durante questo decennio, in rapporto all’accrescimento della popolazione complessiva, e nonostante la diminuzione assoluta della popolazione agricola in alcuni distretti esclusivamente agricoli. Fawcett, a quei tempi professore di economia politica a Cambridge (morto nel 1884 come direttore generale delle poste [FE] diceva appunto al Social Science Congress, il 12 ottobre 1863:

«I braccianti agricoli si misero ad emigrare e gli affittuari cominciarono a lamentarsi affermando di non essere in grado di pagare rendite così elevate, quali erano abituati a pagare, perchè il lavoro era diventato più caro per effetto dell’emigrazione». Qui dunque l’elevata rendita fondiaria è identificata direttamente con il basso salario. E nella misura in cui il livello del prezzo del terreno dipende da questa circostanza che accresce la rendita, l’aumento del valore del terreno si identifica con la svalutazione del lavoro ed il prezzo elevato della terra con il basso prezzo del lavoro.

Lo stesso si può dire della Francia. «Il prezzo dell’affitto sale, perchè da una parte il prezzo del pane, del vino, della carne, delle verdure e della frutta sale, mentre dall’altra parte il prezzo del lavoro rimane invariato. Se le persone anziane confrontano i conti dei loro padri, il che ci porta indietro di circa 100 anni, troveranno che il prezzo di una giornata lavorativa era in quei tempi nella Francia agricola identico a quello di oggi. Il prezzo della carne si è da allora triplicato... Chi è la vittima di questo rivolgimento? È il ricco, il proprietario della terra data in affitto, oppure il povero che lavora questa terra?... L’aumento dei prezzi dell’affitto è prova di una sciagura pubblica» (Du mécanisme de la Société  en France et en Angleterre, di M. RUBICHON, 2 ediz., Parigi, 1837, p. 101).

Esempi di rendita come risultato della detrazione da un lato dal profitto medio, dall’altro dal salario medio:

Il già citato Morton, amministratore di terre e ingegnere agrario, dice che in molte zone si è notato come la rendita sia meno elevata per le grandi proprietà che per le piccole, per il fatto che «per queste la concorrenza è generalmente maggiore che per quelle e perchè i piccoli affittuari, i quali raramente sono in condizione di dedicarsi ad un’altra attività che non sia l’agricoltura, sono spesso disposti a pagare una rendita che essi stessi ritengono troppo elevata, costretti dalla necessità di trovare una attività conveniente» (John L. MORTON, The Resources of  Estates, Londra, 1858, p. 116).

Questa differenza, secondo lui, tenderebbe tuttavia a scomparire gradualmente in Inghilterra, e a questo fatto, secondo il suo punto di vista, molto contribuisce l’emigrazione verificatasi proprio nella classe dei piccoli affittuari. Lo stesso Morton ci fornisce un esempio in cui evidentemente entra nella rendita fondiaria una detrazione dal salario dell’affittuario stesso, e quindi a maggior ragione delle persone che esso occupa. Vale a dire in poderi sotto i 70-80 acri (30-34 ettari) che non possono tenere un aratro a due cavalli. «Se l’affittuario non lavora con le sue proprie mani diligentemente come qualsiasi altro lavoratore, egli non può vivere sulla sua affittanza. Se affida i lavori alla sua gente e si limita semplicemente a sorvegliarla, si accorgerà con molta probabilità assai presto di non essere in condizione di pagare la sua rendita» (ivi, p. 118). Morton ne deduce che in una regione in cui gli affittuari non sono poverissimi, le affittanze non dovrebbero essere inferiori ai 70 acri, di modo che l’affittuario possa tenere due o tre cavalli.

Eccezionale sapienza del signor Léonee de Lavergne, Membre de l’Institut et de la Société Centrale d’Agriculture. Nella sua Économie Rurale de l’Angleterre (citiamo la traduzione inglese, Londra, 1855) egli fa il seguente confronto a proposito del rendimento annuo dei bovini, che in Francia lavorano e in Inghilterra no, perchè sostituiti dai cavalli (p. 42):

Francia

Inghilterra

Latte

4 milioni Lst

Latte

16 milioni Lst

Carne

16 milioni Lst

Carne

20 milioni Lst

Lavoro

8 milioni Lst

Lavoro

 

Totale

28 milioni Lst

Totale

36 milioni Lst

Ma qui il prodotto più elevato risulta tale perchè, secondo quanto afferma egli stesso, il latte in Inghilterra costa il doppio che in Francia, mentre per la carne egli pone lo stesso prezzo per i due paesi (p. 35); quindi la produzione inglese del latte si riduce ad 8 milioni di Lst. e il prodotto complessivo a 28 milioni, come in Francia. É in realtà un po’ forte che il Signor Lavergne faccia entrare contemporaneamente nei suoi calcoli le quantità dei prodotti e le differenze di prezzo, così che, se l’Inghilterra produce certi articoli a prezzo più alto della Francia, il che significa al massimo un profitto maggiore per gli affittuari e per i proprietari, questo sembra un vantaggio dell’agricoltura inglese.

Il signor Lavergne dimostra a p. 48 non soltanto di conoscere i successi economici dell’agricoltura inglese, ma anche di credere ai pregiudizi degli affittuari e dei proprietari inglesi:

«Un grande svantaggio è in generale connesso con la coltivazione dei cereali.., la cui pianta esaurisce il terreno che la porta» . Il signor Lavergne non soltanto pensa che altre colture non facciano altrettanto; egli crede che le piante foraggere e le erbe radiche arricchiscano il terreno: «le piante da foraggio traggono gli elementi principali della loro crescita dall’atmosfera, mentre restituiscono al terreno più di quanto non gli sottraggano: esse aiutano quindi in duplice modo, tanto direttamente quanto mediante la loro trasformazione in concime animale, a compensare i danni prodotti dai cereali e da altre colture depauperanti; è quindi legge fondamentale che esse debbano almeno alternarsi con queste colture; in ciò consiste la Norfolk Rotation» (pp. 50, 51).

Nessuna meraviglia che il signor Lavergne, che presta fede a queste favole proprie della mentalità della campagna inglese, le creda anche quando afferma che, dopo la soppressione dei dazi sul grano, il salario dei braccianti agricoli inglesi sarebbe ritornato alla normalità. Vedi quanto abbiamo detto precedentemente sull’argomento, Libro I, cap. XXIII, 5.

 Ma sentiamo ancora ciò che dice il signor John Bright nel suo discorso di Birmingham, il 14 dicembre 1865. Dopo aver parlato dei 5 milioni di famiglie che non sono affatto rappresentate al parlamento, continua: «1 milione od anche più di 1 milione di queste famiglie, nel Regno Unito, figurano nel registro dei paupers. Vi è poi un altro milione, che quantunque stia di un gradino al di sopra del pauperismo, è sempre in pericolo di caderne preda anch’esso. La situazione e le prospettive di queste persone non promettono nulla di meglio. Si considerino ora gli strati inferiori incolti di questa parte della società. Si considerino il loro stato di segregazione, la loro povertà, le loro sofferenze, la loro completa disperazione. Anche negli Stati Uniti, perfino negli Stati del Sud quando dominava la schiavitù, ogni negro aveva la speranza di poter una volta conseguire la libertà. Ma per questa gente, per questa massa degli strati inferiori del nostro paese, non vi è, sono qui io a testimoniarlo, né la fede in un qualsiasi miglioramento, né il desiderio di conseguirlo. Avete letto recentemente sui giornali il trafiletto su John Cross, bracciante agricolo del Dorsetshire? Egli lavorava sei giorni alla settimana, aveva un certificato eccellente del suo padrone, per il quale aveva lavorato durante 24 anni ricevendo 8 scellini alla settimana. Con questo salario John Cross doveva mantenere nella sua capanna sette figli. Per riscaldare sua moglie che era malaticcia ed il piccolo che essa allattava, egli prese — in termini legali, ritengo, rubò — un canniccio di legno del valore di 6 pence. Per questo delitto i giudici di pace lo condannarono a 14 o 20 giorni di prigione. Vi posso dire che si possono trovare in tutto il paese molte migliaia di casi analoghi a quello di John Cross, e particolarmente nel sud, e che la loro situazione è tale che fino ad ora l’osservatore più attento non è stato capace di scoprire il segreto di come essi riescano a tenere insieme corpo ed anima. Ed ora gettate lo sguardo su tutto il paese e prendete in considerazione questi 5 milioni di famiglie e le loro condizioni disperate. Non si può affermare in verità che la massa della nazione esclusa dal diritto di voto sgobba e sgobba e non conosce quasi riposo? Confrontate questa gente con la classe dominante — ma se faccio ciò, mi si accuserà di comunismo.., pure confrontate questa grande nazione oppressa dal soverchio lavoro e che non può votare, con la parte che si può considerare come costituente le classi dirigenti. Guardate la ricchezza di questi ultimi, il loro fasto, il loro lusso. Osservate la loro stanchezza — perchè anche fra di loro vi è stanchezza, ma è la stanchezza della sazietà — e guardate come essi corrono da un luogo all’altro come se si trattasse soltanto di scoprire dei nuovi piaceri» (Morning Star, 15 dicembre 1865).

Di seguito viene mostrato come si confonda il pluslavoro e quindi il plusprodotto in generale con la rendita fondiaria, questa parte del plusprodotto che, almeno sulla base del modo di produzione capitalistico, è specificamente determinata sia per la quantità che qualitativamente.

La base naturale del pluslavoro in generale, ossia una condizione naturale, senza la quale esso non è possibile, è che la natura — sia in prodotti della campagna, vegetali o animali, sia in pescagione e così via — fornisca i mezzi di sussistenza necessari, senza l’impiego di un tempo di lavoro che assorba tutta la giornata lavorativa. Questa produttività naturale del lavoro agricolo (in cui sono qui incluse la semplice raccolta dei frutti, la caccia, la pesca e l’allevamento di bestiame) è la base di ogni pluslavoro; come ogni lavoro è in primo luogo e originariamente diretto all’appropriazione ed alla produzione del cibo. (L’animale dà al tempo stesso le pelli che proteggono contro il rigore dei climi freddi; inoltre abitazioni in caverne, ecc.).

La stessa confusione fra plusprodotto e rendita fondiaria si trova espressa sotto un’altra forma dal signor Dove. In origine il lavoro agricolo ed il lavoro industriale non sono separati, il secondo è un’appendice del primo. Il pluslavoro ed il plusprodotto della tribù agricola, della comunità domestica o famiglia, abbracciano tanto il lavoro agricolo quanto quello industriale. Entrambi vanno di pari passo. La caccia, la pesca, coltivazione dei campi non sono possibili senza strumenti adeguati. La tessitura, la filatura ecc, vengono esercitate dapprima come lavori accessori a quelli agricoli.

Abbiamo precedentemente mostrato come il lavoro dell’operaio individuale si suddivida in lavoro necessario e pluslavoro, per cui il lavoro complessivo della classe operaia può esser diviso in modo tale per cui la parte che produce l’insieme dei mezzi di sussistenza necessari per la classe operaia (ivi compresi i mezzi di produzione richiesti a tale scopo) compi il lavoro necessario per tutta la società. Il lavoro compiuto da tutta la parte restante della classe operaia può essere considerato come pluslavoro. Ma il lavoro necessario non si riduce in alcun modo al solo lavoro agricolo, bensì comprende il lavoro che produce tutti gli altri prodotti i quali entrano necessariamente nel consumo medio dell’operaio. Inoltre, dal punto di vista sociale, gli uni eseguono solo lavoro necessario solo perchè gli altri non forniscono che pluslavoro e viceversa Si tratta soltanto della divisione del lavoro fra di essi. Lo stesso accade della divisione del lavoro fra operai agricoli e industriali in generale. Al carattere puramente industriale del lavoro da un lato corrisponde il carattere puramente agricolo dall’altro. Questo lavoro puramente agricolo non è affatto posto dalla natura, ma è esso stesso un prodotto e precisamente un prodotto molto moderno, non ancora realizzato dappertutto, dello sviluppo sociale, e corrisponde ad un grado di produzione ben determinato. Precisamente come una parte del lavoro agricolo si oggettiva in prodotti che o servono unicamente al lusso, o costituiscono materie prime per le industrie, ma in nessun modo entrano nell’alimentazione, soprattutto nell’alimentazione delle masse, così d’altro lato una parte del lavoro industriale si oggettiva in prodotti che servono da mezzi di consumo necessari dei lavoratori agricoli e non agricoli. È un errore considerare questo lavoro industriale come pluslavoro dal punto di vista sociale. Esso è in parte un lavoro altrettanto necessario come la parte necessaria del lavoro agricolo. Esso è, d’altro lato, soltanto la forma autonomizzata di una parte del lavoro industriale un tempo collegato naturalmente con il lavoro agricolo, il necessario completamento reciproco del lavoro puramente agricolo, oggi da esso separato. (Da un punto di vista puramente materiale, ad esempio, 500 tessitori addetti a telai meccanici, producono plus tessuto in misura molto più elevata, ossia producono molto più tessuto di quanto non sia richiesto per il loro proprio abbigliamento).

Infine nello studio delle forme fenomeniche della rendita fondiaria, ossia del canone di affitto che viene pagato al proprietario terriero per l’uso del suolo, sia per scopi produttivi che di consumo, sotto il titolo di rendita fondiaria, si deve tener presente che il prezzo delle cose le quali in sé e per sé non hanno valore, in quanto non sono il prodotto del lavoro, come la terra, oppure non possono, comunque, essere riprodotte con il lavoro, come le antichità, le opere d’arte di certi maestri ecc., può essere determinato in modo del tutto fortuito.

Per vendere una cosa basta che essa possa essere oggetto di monopolio e sia alienabile.

Vi sono tre errori principali, che si devono evitare nello studio della rendita fondiaria, e che turbano l’analisi.

1.      La confusione tra le diverse forme della rendita che corrispondono ai diversi gradi di sviluppo del processo sociale di produzione.

Qualunque sia la forma specifica della rendita, caratteristica comune a tutti i tipi della stessa è che l’appropriazione della rendita è la forma economica nella quale si realizza la proprietà terriera e che d’altro lato la rendita fondiaria presuppone una proprietà terriera, un diritto di proprietà di certi individui su determinate parcelle del globo; che il proprietario sia la persona che rappresenta la comunità, come in Asia, in Egitto, ecc.; che questa proprietà sia soltanto accidens (elemento accessorio ) della proprietà di determinate persone sulle persone dei produttori diretti, come nel sistema della schiavitù o del servaggio; che sia proprietà puramente privata di non produttori sulla natura, semplice titolo di proprietà sulla terra; che essa sia infine semplicemente un rapporto con la terra, rapporto che, come presso i coloni ed i contadini piccoli proprietari, nel lavoro isolato e senza sviluppo sociale appare direttamente compreso nella appropriazione e nella produzione dei prodotti di terre determinate da parte dei produttori diretti.

Questo elemento comune delle diverse forme della rendita — il costituire la realizzazione economica della proprietà fon diaria, della finzione giuridica, in virtù della quale diversi individui hanno la proprietà esclusiva di determinate parti del globo terrestre — fa dimenticare le differenze.

2.      Qualsiasi rendita fondiaria è plusvalore, prodotto di pluslavoro.

Essa è ancora direttamente plusprodotto nella sua forma meno sviluppata, la rendita in natura. Di qui l’errore che la rendita corrispondente al modo di produzione capitalistico, che è sempre un’eccedenza sul profitto, ossia su una parte di valore della merce, la quale si compone essa stessa di plusvalore (pluslavoro), che questa particolare e specifica parte aliquota del plusvalore debba trovare la sua spiegazione semplicemente nelle condizioni generali di esistenza del plusvalore e del profitto come tali. Queste condizioni sono: i produttori diretti devono lavorare oltre il tempo necessario alla riproduzione della propria forza-lavoro, alla riproduzione di se stessi: essi devono in generale fornire del pluslavoro. Questa è la con dizione soggettiva. Ma la condizione oggettiva è che essi possano anche fornire del pluslavoro: che le condizioni naturali siano tali che una parte del loro tempo di lavoro disponibile sia sufficiente alla loro riproduzione ed alla loro conservazione come produttori, che la produzione dei loro mezzi di sussistenza necessari non assorba tutta la loro forza-lavoro. La fertilità della natura costituisce qui un limite, un punto di partenza, una base. Lo sviluppo della forza produttiva sociale del loro lavoro, a sua volta, costituisce l’altra. Precisando ulteriormente, poiché la produzione degli alimenti è la prima condizione della vita e di tutta la produzione in generale, il lavoro impiegato in questa produzione, quindi il lavoro agricolo nel senso economico più vasto, deve essere sufficientemente produttivo, perchè tutto il tempo di lavoro disponibile non venga assorbito nella produzione degli alimenti destinati ai produttori diretti; che sia, cioè, possibile un pluslavoro agricolo e quindi un plusprodotto agricolo. Procedendo oltre, che il lavoro agricolo complessivo — lavoro necessario e pluslavoro — di una parte della società sia sufficiente a produrre i generi alimentari necessari all’insieme della società, quindi anche ai lavoratori non agricoli; che sia cioè possibile questa grande divisione del lavoro fra agricoltori ed industriali, e parimenti fra i coltivatori che producono alimenti ed i coltivatori che producono materie prime. Quantunque il lavoro dei produttori diretti d’alimenti si suddivida per loro stessi in lavoro necessario e pluslavoro, rispetto alla società esso non rappresenta che un lavoro necessario richiesto per la produzione degli alimenti. Lo stesso si verifica del resto in ogni divisione del lavoro nel complesso della società, a differenza della divisione del lavoro in una singola officina. È  il lavoro necessario alla produzione di particolari articoli, al soddisfacimento di un particolare bisogno della società di un particolare articolo. Se questa divisione del lavoro è proporzionata, i prodotti dei di versi gruppi sono venduti al loro valore (in un grado di sviluppo più avanzato ai loro prezzi di produzione), oppure ai prezzi che sono delle modificazioni di questi valori, o prezzi di produzione regolati da leggi generali. E’ in realtà la legge del valore, quale si afferma non in rapporto alle singole merci o articoli, ma in rapporto di volta in volta ai prodotti complessivi delle particolari sfere sociali di produzione, autonomizzate dalla divisione del lavoro; così che non soltanto viene impiegato per ogni singola merce unicamente il tempo di lavoro necessario, ma nei diversi gruppi è impiegata unicamente la quantità proporzionale necessaria del tempo di lavoro complessivo della società. Infatti, la premessa rimane il valore d’uso. Ma se per ogni singola merce il valore d’uso dipende dalla condizione che essa in sé e per sé soddisfi un bisogno, per la massa sociale dei prodotti dipende dal fatto che tale massa sia adeguata al bisogno sociale quantitativamente determinato di ogni particolare tipo di prodotto e che quindi il lavoro sia diviso tra le diverse sfere di produzione proporzionalmente, in rapporto a questi bisogni sociali, che sono quantitativamente circoscritti. (Utilizzare questo punto a proposito della ripartizione del capitale fra diverse sfere di produzione). Il bisogno sociale, ossia il valore d’uso alla potenza sociale, appare qui determinante per le quote del tempo complessivo di lavoro sociale che viene assorbito nelle diverse sfere particolari della produzione. Ma non è che la medesima legge, la quale si manifesta già quando si tratta della merce individuale, ossia che il valore d’uso della merce è premessa del suo valore di scambio e quindi del suo valore. Questo punto interferisce con il rapporto fra il lavoro necessario ed il pluslavoro unicamente in quanto, venendo meno a questa proporzione, il valore della merce, e quindi il plusvalore in esso contenuto, non può essere realizzato. Supponiamo che venga, ad esempio, prodotta proporzionalmente una quantità eccessiva di tessuti di cotone, quantunque in questo prodotto complessivo di tessuti non si realizzi che il tempo di lavoro necessario, nelle condizioni date, alla loro produzione. Ma si spende in genere, in questo ramo particolare, troppo lavoro sociale; ossia una parte del prodotto è inutile. L’insieme si vende quindi unicamente come se fosse stato prodotto nelle proporzioni necessarie. Questo limite quantitativo fissato alle quote di tempo di lavoro sociale impiegabili nelle diverse sfere particolari della produzione non è che una espressione più sviluppata della legge del valore in generale; quantunque il tempo di lavoro necessario abbia qui un altro significato. Ne occorre soltanto questa o quella quantità per il soddisfacimento del bisogno sociale. La limitazione viene qui posta dal valore d’uso. Nelle condizioni di produzione date, la società può impiegare solo quel tanto del suo tempo di lavoro complessivo per questo singolo tipo di prodotto. Ma le condizioni soggettive ed oggettive del pluslavoro e del plusvalore in generale non hanno nulla a che vedere con la forma determinata del profitto, né della rendita. Esse sono valide per il plusvalore in quanto tale, quale che sia la forma particolare che esso possa assumere. Esse non spiegano quindi la rendita fondiaria.

3.      Proprio nella valorizzazione economica della proprietà fondiaria, nello sviluppo della rendita fondiaria, si presenta come caratteristica particolare che il suo ammontare non è affatto determinato da quello che fa il suo beneficiano, ma dallo sviluppo, indipendente dal suo concorso, del lavoro sociale, a cui egli non prende parte. Si interpreta quindi facilmente come una particolarità della rendita (e del prodotto agricolo in generale) ciò che, sulla base della produzione di merci e specialmente della produzione capitalistica, che in tutta la sua estensione è produzione di merci, è comune a tutti i rami di produzione ed a tutti i loro prodotti.

L’ammontare della rendita fondiaria (e con essa il valore del terreno) si sviluppa nel corso dello sviluppo sociale, come risultato del lavoro complessivo sociale. Con questo sviluppo, da un lato crescono il mercato e la domanda di prodotti della terra, dall’altro cresce direttamente la domanda anche di terra, come condizione concorrente di produzione per tutti i possibili rami di attività, anche non agricoli. Meglio, la rendita e contemporaneamente il valore del terreno, per non parlare che della rendita agricola propriamente detta, si sviluppano parallelamente al mercato dei prodotti della terra e quindi con l’aumento della popolazione non agricola; con il suo bisogno e la sua domanda in parte di alimenti, in parte di materie prime. Fa parte della natura del modo di produzione capitalistico di diminuire continuamente la popolazione agricola in rapporto a quella non agricola, per il fatto che nell’industria (in senso più stretto) l’accrescersi del capitale costante rispetto al capitale variabile è collegato con l’accrescersi assoluto, nonostante la diminuzione relativa, del capitale variabile; mentre nell’agri coltura il capitale variabile richiesto per lo sfruttamento di un determinato pezzo di terreno diminuisce assolutamente, quindi può accrescersi solo in quanto viene coltivato nuovo terreno, il che presuppone a sua volta un accrescimento ancora maggiore della popolazione non agricola.

In realtà non si tratta qui di un fenomeno che sia peculiare all’agricoltura ed ai suoi prodotti. Sulla base della produzione di merci e della produzione capitalistica, che ne è la forma assoluta, ciò si verifica per tutti gli altri rami di produzione e per i loro prodotti.

Tali prodotti sono merci, valori d’uso, che possiedono un valore di scambio e precisamente un valore di scambio realizzabile, convertibile in denaro, unicamente nella misura in cui altre merci costituiscono per essi un equivalente, altri prodotti si trovano di fronte ad essi in quanto merci ed in quanto valori; nella misura quindi in cui essi non vengono prodotti come mezzi diretti di sussistenza per i loro produttori stessi, ma come merci, come prodotti che diventano valori d’uso unicamente con la loro conversione in valore di scambio (denaro), con la loro alienazione. Il mercato di queste merci si sviluppa con la divisione sociale del lavoro; la separazione dei lavori produttivi trasforma i loro prodotti rispettivi reciprocamente in merci,  in equivalenti reciproci, fa sì che essi servano l’un l’altro da mercato. E ciò non costituisce affatto una particolarità dei  prodotti agricoli.

La rendita non può svilupparsi come rendita monetaria che sulla base della produzione di merci, più particolarmente della produzione capitalistica, e si sviluppa nella stessa proporzione in cui la produzione agricola diventa produzione di merci; quindi nella stessa proporzione in cui la produzione non agricola prende uno sviluppo autonomo rispetto a quella agricola;  poiché nella stessa proporzione il prodotto agricolo diventa merce, valore di scambio, valore. Nella stessa misura in cui la produzione delle merci e quindi la produzione del valore si sviluppa con la produzione capitalistica, si sviluppa la produzione del plusvalore e del plusprodotto. Ma nella stessa proporzione in cui questa ultima si sviluppa, si sviluppa la capacità della proprietà fondiaria di impadronirsi, in virtù del suo monopolio sulla terra, di una parte crescente di questi plusvalore, di accrescere quindi il valore della sua rendita ed il prezzo stesso del terreno.

Il capitalista è ancora un agente attivo egli stesso, nello sviluppo di questo plusvalore e plusprodotto.

Il proprietario fondiario deve solo impadronirsi della sua parte di plusvalore e plusprodotto, che cresce senza il suo concorso.

Questa è la caratteristica della sua posizione, e non il fatto che il valore dei prodotti agricoli, e quindi della terra, accresca nella proporzione in cui si allarga il loro mercato, aumenta la domanda e con essa il mondo delle merci che si contrappone alla produzione agricola, vale a dire, in altre parole,  la massa dei produttori di merci non agricoli e della produzione di merci non agricola. Ma poiché questo accade senza che vi sia partecipazione da parte sua, appare nel caso suo come qualche cosa di specifico che la massa del valore, la massa del plusvalore e la trasformazione di una parte di questo plusvalore in rendita fondiaria dipenda dal processo di produzione sociale, dallo sviluppo della produzione di merci in generale. Per questa ragione Dove, ad esempio, vuol da qui far derivare la rendita. Egli dice che la rendita non dipende dalla massa del prodotto agricolo, ma dal valore dì esso; queste però dipende dalla massa e dalla produttività della popolazione non agricola. Ma di qualsiasi altro prodotto si può affermare che esso si sviluppa unicamente come merce in parte con la massa, in parte con la molteplicità della serie di altre merci, che ne costituiscono degli equivalenti. Ciò è già stato messo in rilievo quando è stato analizzato il valore in generale. Il potere di scambio di un prodotto dipende da un lato, in generale, dalla molteplicità delle merci che esistono oltre ad esso. D’altro lato dipende da questo fattore in particolare in quale quantità questo prodotto può venire fabbricato come merce.

Nessun produttore né industriale né agricolo, considerato isolatamente, produce del valore o delle merci. Il suo prodotto si trasforma in valore e in merce unicamente in una determinata struttura sociale. Innanzi tutto in quanto esso appare come rappresentazione di lavoro sociale, quindi il suo tempo di lavoro come parte del tempo di lavoro sociale in generale; in secondo luogo: questo carattere sociale del suo lavoro appare come un carattere sociale impresso al suo prodotto, nel carattere monetario di questo prodotto e nella sua generale scambiabilità determinata dal prezzo.

Se quindi da un lato, anziché spiegare la rendita, si spiega il plusvalore o con una concezione ancora più limitata il plusprodotto, si commette qui d’altro lato l’errore di attribuire esclusivamente ai prodotti agricoli un carattere che appartiene a tutti i prodotti in quanto merci e valori. Questa spiegazione diventa ancora più superficiale quando, dalla determinazione generale del valore, si passa alla realizzazione di un valore-merci determinato. Ogni merce può realizzare il suo valore unicamente nel processo di circolazione, dalle condizioni del mercato dipende ogni volta se e fino a quale punto essa lo realizzi.

La caratteristica della rendita fondiaria non è quindi il fatto che i prodotti agricoli diventino dei valori e siano dei valori, ossia che essi in quanto merci si trovino di fronte alle altre merci e che i prodotti non agricoli si trovino di fronte ad essi come merci, o che essi si sviluppino come particolari espressioni del lavoro sociale. La caratteristica è che, unitamente alle condizioni nelle quali i prodotti agricoli si sviluppano come valori (merci), ed alle condizioni della realizzazione dei loro valori, si sviluppa anche il potere della proprietà fondiaria di appropriarsi una parte crescente di questi valori creati senza il suo intervento, si trasforma in rendita fondiaria una parte crescente del plusvalore.

NOTE


[1] Non vi può essere nulla di più comico del modo in cui Hegel spiega la proprietà privata della terra. L’uomo in quanto individuo deve dare realtà alla sua volontà come anima della natura esterna, e prendere quindi possesso di questa natura come sua proprietà privata. Se tale è il destino «dell’individuo», dell’uomo in quanto individuo, la conseguenza sarebbe che ogni essere umano deve essere un proprietario fondiario, per potersi attuare in quanto individuo. La libera proprietà privata del suolo — un prodotto molto moderno — non è un definito rapporto sociale, secondo Hegel, ma un rapporto fra l’uomo, considerato come individuo, e la «natura», «il diritto assoluto dell’uomo di appropriarsi tutte le cose» (HEGEL, Philosophie des Rechts, Berlino, 1840, p. 79). É innanzi tutto evi dente che il singolo individuo non può, con la sua «volontà», affermarsi come proprietario contro la volontà altrui che voglia parimenti prender corpo nello stesso brandello di terra. Per far questo occorre ben altro che la buona volontà. Non si può inoltre assolutamente calcolare dove «l’individuo» porrà i limiti alla realizzazione della propria volontà, se l’esistenza della sua volontà si realizzerà in un paese intero, o se avrà bi sogno di tutto un gruppo di paesi per «manifestare», appropriandoseli, «la supremazia della mia volontà nei confronti dell’oggetto» [p 80]. Qui Hegel fa pieno fallimento, «La presa di possesso è di natura del tutto individuale; io non prendo possesso che di quanto si trova a contatto con il mio corpo, ma il secondo punto è al tempo stesso che le cose esterne hanno una estensione maggiore di quella che io posso abbracciare. Quando io posseggo una cosa, vi è anche un’altra cosa che le è collegata. Io prendo possesso con la mano, ma il raggio d’azione della stessa mano può essere ampliato» (p. 90 [91]).  Ma questa altra cosa è di nuovo collegata ad un’altra, e scompare così il limite entro il quale la mia volontà si può effondere come anima nella terra. «Se io posseggo qualche cosa, la mia ragione trae subito la deduzione che è mio non soltanto ciò che costituisce possesso immediato, ma anche ciò che vi si trova collegato. Qui deve affermare i suoi principi il diritto positivo, perchè niente altro può essere dedotto dal concetto» (p. 91). Ciò costituisce una confessione estremamente ingenua del «concetto» e dimostra che il concetto il quale commette in partenza l’errore di considerare una concezione giuridica della proprietà fondiaria ben definita e appartenente alla società borghese come una concezione assoluta, non comprende «nulla» delle effettive forme di questa proprietà fondiaria. Vi si trova al tempo stesso contenuta la confessione che i bisogni mutevoli dello sviluppo sociale, ossia economico, possono e devono portare il «diritto positivo» a modificare i suoi principi.

 

AVVERTENZA PER IL LETTORE

Il testo del III libro del Capitale che viene qui riportato NON È UNA DELLE TRADUZIONI INTEGRALI DEL TESTO ORIGINALE che sono disponibili: esso infatti è una rivisitazione delle traduzioni esistenti (in italiano ed in francese) a cui sono state apportate le seguenti modifiche:

1 – non sono state riportate le note che Marx ed Engels richiamano nel testo (fatte salve alcune eccezioni);

2 – sono state introdotte delle modifiche per quanto riguarda gli esempi numerici in cui, per facilitare la lettura;

a – sono state cambiate le unità di misura e le grandezze;

b – diversi dati richiamati nella forma di testo sono stati trasformati in tabelle;

c – in alcuni esempi numerici le cifre decimali sono state limitate a due e nel caso di numeri periodici, ad esempio 1/3 o 2/3, la cifra periodica è stata indicata con un apice (‘).

Ci rendiamo conto che leggere un testo del Capitale in cui Marx formula esempi in Euro (€) invece che in Lire Sterline (Lst) o scellini potrebbe far sorridere e far pensare ad uno scherzo o ad una manipolazione che ha  travisato il pensiero dell’Autore, avvertiamo invece il lettore che il testo è assolutamente fedele al pensiero originale  e che ci siamo permessi di introdurre alcune “varianti” per consentire a coloro che non hanno dimestichezza con le unità di misura e monetarie inglesi di non bloccarsi di fronte a questa difficoltà e di facilitarne così la lettura o lo studio.

In altre parti si sono invece mantenute le unità di misura e monetarie inglesi originali perchè la lettura non creava problemi di comprensione o per ragioni di fedeltà storica.

Ci facciamo altresì carico dell’osservazione che Engels ha formulato nelle “considerazioni supplementari” poste all’inizio del III Libro, laddove, di fronte alle molteplici interpretazioni del testo che vennero fatte dopo la prima edizione, sostiene: “Nella presente edizione ho cercato innanzitutto di comporre un testo il più possibile autentico, di presentare, nel limite del possibile, i nuovi risultati acquisiti da Marx, usando i termini stessi di Marx, intervenendo unicamente quando era assolutamente necessario, evitando che, anche in quest’ultimo caso, il lettore potesse avere dei dubbi su chi gli parla. Questo sistema è stato criticato; si è pensato che io avrei dovuto trasformare il materiale a mia disposizione in un libro sistematicamente elaborato, en faire un livre, come dicono i francesi, in altre parole sacrificare l’autenticità del testo alla comodità del lettore. Ma non è in questo senso che io avevo interpretato il mio compito. Per una simile rielaborazione mi mancava qualsiasi diritto; un uomo come Marx può pretendere di essere ascoltato per se stesso, di tramandare alla posterità le sue scoperte scientifiche nella piena integrità della sua propria esposizione. Inoltre non avevo nessun desiderio di farlo: il manomettere in questo modo perchè dovevo considerare ciò una manomissione l’eredità di un uomo di statura così superiore, mi sarebbe sembrato una mancanza di lealtà. In terzo luogo sarebbe stato completamente inutile. Per la gente che non può o non vuole leggere, che già per il primo Libro si è data maggior pena a interpretarlo male di quanto non fosse necessario a interpretarlo bene — per questa gente è perfettamente inutile sobbarcarsi a delle fatiche”.

Marx ed Engels non ce ne vogliano, ma posti di fronte alle molteplici “fughe” dallo studio da parte di persone che non possedevano una cultura accademica, fughe che venivano imputate alla difficoltà presentate dal testo, abbiamo deciso di fare uno “strappo” alle osservazioni di Engels, intervenendo in alcune parti  avendo altresì cura di toccare il testo il meno possibile. Nel fare questo “strappo” eravamo tuttavia confortati dal fatto che, a differenza  della situazione in cui Engels si trovava, oggi chi vuole accedere al testo “originale”, dispone di diverse edizioni in varie lingue.

Coloro che volessero accostarsi al testo originale in lingua italiana si consigliano le seguenti edizioni:

  • Il capitale, Le Idee, Editori Riuniti, traduzione di Maria Luisa Boggeri;
  • Il capitale, Edizione Einaudi, traduzione di Maria Luisa Boggeri;
  • Il capitale, Edizione integrale - I mammut – Newton Compton, a cura di Eugenio Sbardella.

Chi volesse accedere ad edizioni del Capitale e di altri testi di Marx in lingue estere, si propone di consultare il sito internet di seguito riportato:

http://www.marxists.org/xlang/marx.htm