IL CAPITALE

LIBRO III

SEZIONE V

SUDDIVISIONE DEL PROFITTO IN INTERESSE
E GUADAGNO D’IMPRENDITORE.

IL CAPITALE PRODUTTIVO D’INTERESSE.

CAPITOLO 29

ELEMENTI DEL CAPITALE BANCARIO

Dobbiamo ora vedere più da vicino quali sono gli elementi che costituiscono il capitale bancario.

Abbiamo visto precedentemente che Fullarton ed altri trasformano la differenza fra il denaro mezzo di circolazione e il denaro mezzo di pagamento (anche moneta mondiale nella misura in cui il deflusso dell’oro viene preso in considerazione), in una differenza fra la circolazione (currency) ed il capitale.

A causa della funzione particolare che il capitale qui assolve, quella stessa cura con cui l’economia illuminata cercava di convincere che il denaro non è capitale, viene posta da questa economia dei banchieri per dimostrare che in realtà il denaro è il capitale par excellence.

Nelle indagini che faremo più tardi verrà posto in evidenza come nel secondo caso il capitale monetario venga confuso con il moneyed capital nel senso di capitale produttivo d’interesse, mentre nel primo caso il capitale monetario rappresenta solo una forma transitoria del capitale, distinto dalle altre sue forme, il capitale-merce e il capitale produttivo.

Il capitale bancario consiste:

1) di denaro contante, oro o banco note;

2) di titoli.

Possiamo ancora suddividere questi ultimi in due parti: effetti commerciali, cambiali che vengono di quando in quando a scadenza, e il cui sconto costituisce la peculiare attività del banchiere; e titoli pubblici, come titoli di Stato, buoni del Tesoro, azioni di qualsiasi tipo, in breve titoli fruttiferi, ma sostanzialmente distinti dalle cambiali. In questa seconda categoria possono essere incluse anche le ipoteche. Il capitale composto da questi elementi materiali si suddivide ancora in capitale d’impianto, anticipato dallo stesso banchiere e in depositi, che costituiscono il suo banking capital o capitale preso a prestito. Presso le banche con diritto di emissione si aggiungono anche le banconote. Prescinderemo in un primo tempo dai depositi e dalle banconote. È del resto evidente che gli elementi effettivi del capitale del banchiere — denaro, cambiali, fidi di deposito — non mutano per il fatto che essi rappresentano il capitale proprio di quest’ultimo oppure depositi, capitale di terzi. La suddivisione non cambia, sia che egli eserciti la sua attività soltanto con il proprio capitale, sia che la eserciti soltanto con capitale depositato presso lui.

La forma del capitale produttivo d’interesse è tale che qualsiasi reddito monetario determinato e regolare appare come l’interesse di un capitale, che esso provenga realmente da un capitale oppure no. Il reddito monetario viene prima trasformato in interesse, e con l’interesse si trova poi anche il capitale da cui esso deriva. Allo stesso modo con il capitale produttivo d’interesse ogni somma di valore, quando non è spesa come reddito, appare come capitale; cioè come somma capitale (principal) in contrapposizione all’interesse, reale o possibile, che essa può apportare.

La cosa è semplice: si supponga che il saggio annuale medio di interesse sia del 5%. Una somma di 5.000 €, trasformata in capitale produttivo d’interesse, apporterebbe quindi annualmente 250 €. Ogni reddito fisso annuale di 250 €  viene allora considerato come interesse di un capitale di 5.000 €. Questa concezione tuttavia è e rimane puramente illusoria, eccettuato il caso in cui la fonte dei 250 €, sia essa un semplice titolo di proprietà, un credito, oppure un effettivo elemento di produzione, ad esempio una proprietà terriera, è direttamente convertibile o assume una forma che la rende tale. Prendiamo come esempi il debito pubblico e il salario.

Lo Stato deve pagare annualmente ai suoi creditori una certa somma di interessi per il capitale preso in prestito. Il creditore non può in questo caso richiedere al suo debitore il capitale ma può soltanto vendere il suo credito, il suo titolo di proprietà. Il capitale stesso è stato consumato, speso dallo Stato. Non esiste più. Per quanto riguarda il creditore dello Stato, egli

1) possiede un titolo di credito verso lo Stato, supponiamo di 1.000 €.;

2) vanta un diritto conferitogli da questi titoli di credito sulle entrate annuali dello Stato, ossia sul gettito annuale delle imposte, per un determinato ammontare, poniamo 50 €., ossia il 5%;

3) può vendere a suo piacimento questo titolo di credito di 1.000 € a terzi. Se il saggio dell’interesse è del 5% e se non vi sono dubbi sulla solvibilità dello Stato, allora il possessore A può di regola vendere a B il suo titoli di credito a 1.000 €., poiché per B non fa differenza alcuna dare in prestito 1.000 € all’interesse annuo del 5% od assicurarsi mediante il pagamento di 1.000 € un tributo annuo di 50 € da parte dello Stato. Ma in tutti questi casi il capitale, di cui il pagamento di 50 € da parte dello Stato è considerato come il frutto (l’interesse) non è che un capitale illusorio, fittizio. Non solamente la somma che è stata data in prestito allo Stato non esiste più. Essa non è ma stata destinata ad essere spesa e investita come capitale, e solo se investita come capitale essa avrebbe potuto trasformarsi in un valore capace di autoconservarsi.

Per il creditore originario A la parte che gli tocca dell’imposta annuale rappresenta l’interesse del suo capitale, precisamente come per l’usuraio la parte che gli tocca del patrimonio del prodigo, quantunque in entrambi i casi la somma monetaria data in prestito non sia stata spesa come capitale. La possibilità di vendere il suo titolo di credito verso lo Stato rappresenta per la A la possibilità di ricuperare la somma principale. Per quanti riguarda B, secondo il suo punto di vista particolare il suo capitale è investito come capitale produttivo d’interesse. In realtà egli è subentrato semplicemente al posto di A di cui ha acquistato il titoli di credito verso lo Stato. Quale che sia il numero delle transazioni successive, il capitale del debito pubblico rimane un capitale puramente fittizio, ed il giorno in cui questi titoli di credito diventassero invendibili svanirebbe anche l’apparenza di questo capitale. Ciò nonostante, come subito vedremo, questo capitale fittizio ha un suo proprio movimento.

In contrapposizione al capitale del debito pubblico, dove una grandezza negativa appare come capitale — come in generale il capitale produttivo d’interesse genera le concezioni più insensate, al punto che peresempio i banchieri giungono a concepire i debiti come delle merci — considereremo ora la forza-lavoro. Il salario viene qui concepito come interesse ed in conseguenza la forza-lavoro come il capitale che produce questo interesse. Se, ad esempio, il salario di un anno ammonta 5.000 €. e il saggio d’interesse è del 5%, la forza-lavoro annua viene equiparata ad un capitale di 100.000 €. L’assurdità della concezione capitalistica raggiunge qui il suo apice: la valorizzazione del capitale non viene spiegata con lo sfruttamento della forza-lavoro, ma al contrario, per spiegare la produttività della forza-lavoro si afferma che la forza-lavoro stessa è questa cosa mistica, il capitale produttivi di interesse. Nella seconda metà del XVII sec. (adesempio in Petty) era questa una delle concezioni predilette ed anche ai nostri tempi essa è accolta con grande serietà dagli economisti volgari e soprattutto dagli statistici tedeschi.  Sfortunatamente intervengono qui due circostanze a contrastare spiacevolmente questa tesi priva di senso: precisamente il fatto che l’operaio deve lavorare per ricevere questo interesse e che egli inoltre non può convertire in denaro il valore - capitale della sua forza-lavoro trasferendolo ad altri. Il valore annuo della sua forza-lavoro è invece uguale al suo salario medio annuo e ciò che egli deve restituire con il suo lavoro al compratore è questo valore stesso accresciuto del plusvalore ossia valorizzato. Nel sistema schiavistico il lavoratore ha un valore-capitale, precisamente il suo prezzo di acquisto. E se egli viene dato in affitto, chi lo prende in affitto deve innanzi tutto pagare l’interesse del prezzo di acquisto e in più un indennizzo per il logorio annuo del capitale.

La formazione del capitale fittizio la si chiama capitalizzazione.

Si capitalizza ogni reddito regolare e periodico, considerandolo in base al saggio medio dell’interesse come provento che verrebbe ricavato da un capitale dato in prestito a questo saggio d’interesse; se ad esempio il reddito annuo corrisponde a 100.000 €. e il saggio d’interesse è del 5%, i 100.000 €. rappresenterebbero allora l’interesse annuo di 2.000.000 €. e questi 2.000.000 €. sono considerate come il valore - capitale del titolo giuridico di proprietà sui 100.000 €. annui. Per colui che acquista questo titolo di proprietà, i 100.000 €. di reddito annuo rappresentano effettivamente il pagamento d’interessi del suo capitale investito al 5%. Svanisce così anche l’ultima traccia di qualsiasi rapporto con l’effettivo processo di valorizzazione del capitale e si consolida l’idea che rappresenta il capitale come automa che si valorizza di per se stesso.

Anche in quei casi in cui l’obbligazione — il titolo di credito — non rappresenta, come si verifica per il debito pubblico, un capitale puramente illusorio, il valore-capitale di questo titolo è puramente illusorio. Abbiamo visto precedentemente che il sistema del credito produce capitale associato. I titoli di credito sono considerati titoli di proprietà che rappresentano questo capitale. Le azioni delle società ferroviarie, minerarie e di navigazione ecc. rappresentano capitale effettivo, precisamente il capitale investito e operante in queste imprese, oppure la somma monetaria che è stata anticipata dagli azionisti al fine di essere spesa come capitale in tali imprese. Il che tuttavia non esclude affatto che esse possano anche rappresentare delle semplici truffe. Ma questo capitale non ha una duplice esistenza, una volta di valore-capitale dei titoli di proprietà, delle azioni, un’altra di capitale effettivamente investito o da investire in queste imprese. Esso esiste unicamente sotto questa ultima forma e l’azione non è altro che un titolo di proprietà, pro rata (in proporzione) sul plusvalore che verrà realizzato da questo capitale.

A può vendere questo titolo a B e B cederlo a C.

Queste transazioni non mutano per nulla la sostanza della cosa.

A, oppure B, ha in tal caso convertito il suo titolo in capitale, ma C da parte sua ha convertito il suo capitale in un semplice titolo di proprietà sul plusvalore che ci si attende dal capitale azionario.

Il movimento autonomo del valore di questi titoli di proprietà, non soltanto dei valori di Stato, ma anche delle azioni, consolida l’apparenza che essi costituiscano un capitale reale accanto al capitale o al diritto sul capitale di cui essi sono eventualmente titolo giuridico. Essi si trasformano difatti in merci, il cui prezzo ha un movimento e un modo di fissarsi suoi propri. Il loro valore di mercato differisce dal loro valore nominale, indipendentemente dal cambiamento di valore del capitale effettivo (sebbene in legame col cambiamento della sua valorizzazione). Da un lato il loro valore di mercato oscilla in relazione all’ammontare e alla sicurezza dei proventi ai quali questi titoli danno diritto. Se il valore nominale di una azione, ossi la somma versata che rappresenta l’azione al momento dell’emissione, è di 100 €., e l’impresa frutta il 10% anziché il 5%, il valore di mercato di tale azione, rimanendo invariate le altre circostanze, ad un saggio dell’interesse del 5% si accresce a 200 €., poiché capitalizzata al 5%, essa rappresenta ora un capitale fittizio di 200 € . Colui che l’acquista a 200 €., ritrae da questo investimento d capitale un reddito del 5%. Il contrario si verifica quando gli utili dell’impresa diminuiscono. Il valore di mercato di questi titoli in parte speculativo, essendo determinato non dal provento reale ma dal provento previsto, calcolato in anticipo. Ma se noi supponiamo che la valorizzazione del capitale reale sia costante, oppure nei casi in cui il capitale non esiste, come adesempio accade per i debiti di Stato, supponiamo che il provento annuale sia legalmente determinato ed inoltre sufficientemente sicuro: in tal caso il prezzo di questi titoli aumenta o diminuisce in ragione inversa del saggio dell’interesse. Se il saggio dell’interesse aumenta dal 5 al 10%, un titolo che assicura un provento di 5 €. rappresenta soltanto un capitale di 50 €. Se il saggio dell’interesse si riduce al 2,5%, il medesimo titolo rappresenta un capitale di 200 €. In tutti i casi il suo valore è unicamente il provento capitalizzato, ossia il provento riportato in base al saggio dell’interesse corrente, a un capitale illusorio. In periodi di difficoltà per il mercato monetario, questi titoli subiranno quindi una duplice riduzione di prezzo; innanzitutto perché il saggio dell’interesse aumenta, e in secondo luogo perché essi vengono gettati sul mercato in massa, per essere convertiti in denaro. Tale riduzione di prezzo si verifica indipendentemente dal fatto che il provento assicurato da questi titoli al loro proprietario sia costante come accade per i titoli di Stato, oppure che la valorizzazione del capitale reale che essi rappresentano risenta eventualmente un contraccolpo a causa di una perturbazione del processo di riproduzione come accade per le imprese industriali. In questo ultimo caso alla prima si aggiunge semplicemente una seconda svalutazione. Non appena la burrasca è passata questi titoli riprendono il loro valore precedente, eccettuato il caso in cui si tratti di imprese sfortunate o di bassa speculazione. Il loro deprezzamento durante la crisi agisce come mezzo efficace per l’accentramento dei patrimoni monetari.

In quanto la diminuzione o l’aumento di valore di questi titoli sono indipendenti dal movimento di valore del capitale reale che essi rappresentano, la ricchezza di una nazione non varia in conseguenza di tale diminuzione o aumento. «Il 23 ottobre 1847 i fondi pubblici e le azioni dei canali e delle ferrovie avevano già subito una svalutazione di 114.752.225 Lst» (Morris, Governatore della Banca d’Inghilterra, deposizione nel rapporto su Commercial Distress 1847-48    [ pag 288, n. 3800]). In quanto la loro svalorizzazione non esprimeva un effettivo arresto della produzione e del traffico sulle ferrovie e sui canali, né l’interruzione di imprese in corso, o lo sperpero di capitale in imprese assolutamente senza valore, la nazione non risultava impoverita di un centesimo in seguito allo scoppio di queste bolle di sapone di capitale monetario nominale.

Tutti questi titoli non sono in realtà che una accumulazione di diritti, titoli giuridici, sulla produzione futura, e il loro valore monetario o valore non costituisce capitale, come adesempio nel caso del debito pubblico, oppure è determinato in modo completamente indipendente dal valore del capitale reale che essi rappresentano.

In tutti i paesi a produzione capitalistica esiste una massa enorme di cosiddetto capitale produttivo d’interesse o di moneyed capital sotto questa forma. E per accumulazione del capitale monetario si deve intendere in gran parte esclusivamente l’accumulazione di questi diritti sulla produzione, l’accumulazione del prezzo di mercato, del valore-capitale illusorio di questi diritti.

Una parte del capitale bancario è dunque investita in questi cosiddetti titoli fruttiferi. Si tratta di una parte del capitale di riserva, che non interviene nelle effettive operazioni di banca. La parte più importante è costituita da cambiali, ossia da promesse di pagamento da parte di capitalisti industriali o di commercianti. Per chi dà denaro in prestito queste cambiali rappresentano titoli fruttiferi; ossia al momento dell’acquisto viene detratto l’interesse per il tempo che manca alla loro scadenza. È questa l’operazione che si chiama sconto. L’entità della detrazione da farsi sulla somma che la cambiale rappresenta dipende dunque dal saggio dell’interesse.

L’ultima parte del capitale del banchiere consiste infine nella sua riserva monetaria aurea o cartacea. I depositi, quando non siano per stipulazione vincolati per periodi più lunghi, sono sempre a disposizione dei depositanti. Essi sono sottoposti ad una continua fluttuazione. Ritirati dagli uni vengono tuttavia sostituiti dagli altri, cosicché l’ammontare medio generale, in periodi di normalità nel campo degli affari, subisce variazioni di lieve entità.

I fondi di riserva delle banche, nei paesi a produzione capitalistica sviluppata, esprimono sempre in media l’ammontare del denaro esistente sotto forma di tesoro; e una parte di questo tesoro si compone a sua volta di carta, di semplici buoni sull’oro che non hanno però un valore intrinseco. La maggior parte del capitale del banchiere è dunque puramente fittizia e consiste in titoli di credito (cambiali), titoli di Stato (che rappresentano capitale consumato), e azioni (buoni sui proventi futuri). E non si deve qui dimenticare che il valore monetario del capitale rappresentato da queste carte  che giacciono nelle casseforti dei banchieri, anche se sono buoni su proventi sicuri (titoli di Stato) oppure titoli di proprietà su un capitale effettivo (azioni), è puramente fittizio e che esso viene regolato indipendentemente dal valore del capitale effettivo che questi titoli, almeno in parte, rappresentano; e quando questi titoli non rappresentano del capitale ma soltanto dei semplici diritti sui proventi, il diritto su uno stesso provento si esprime in capitale monetario fittizio soggetto a continue modificazioni. A ciò si aggiunge ancora che il capitale fittizio del banchiere rappresenta per la maggior parte non il suo proprio capitale, ma quello del pubblico che l’ha depositato presso di lui, con o senza interessi.

I depositi sono sempre fatti in denaro, oro, banconote, oppure assegni relativi al denaro in queste due forme. Ad eccezione del fondo di riserva che si accresce o si restringe in relazione ai bisogni della circolazione effettiva, questi depositi si trovano sempre in realtà, da un lato in possesso dei capitalisti industriali e dei commercianti, servendo allo sconto delle loro cambiali ed alla concessione di anticipi in loro favore; dall’altro in possesso di chi traffica in titoli (agenti di Borsa), o in possesso di privati che hanno venduto i loro titoli o in possesso del governo (buoni del Tesoro e nuovi prestiti).

I depositi stessi hanno una duplice funzione.

Da un lato, come abbiamo detto ora, essi vengono dati in prestito come capitale produttivo di interesse, e non si trovano quindi nelle casse delle banche ma figurano soltanto nei loro libri come crediti dei depositanti.

D’altro lato essi figurano come semplici voci di contabilità, in quanto i crediti reciproci dei depositanti si compensano mediante assegni sui loro depositi e vengono reciprocamente annullati: e a questo riguardo è indifferente che i depositi si trovino presso lo stesso banchiere, di modo che questi non fa che addebitare ed accreditare i diversi conti, oppure presso delle banche diverse, che si scambiano reciprocamente i loro assegni e si pagano soltanto le differenze.

Con lo sviluppo del capitale produttivo d’interesse e del sistema produttivo ogni capitale sembra raddoppiarsi e in alcuni casi triplicarsi a causa dei diversi modi in cui lo stesso capitale o anche soltanto lo stesso titolo di credito appare in forme diverse in mani diverse. La maggior parte di questo «capitale monetario» è puramente fittizio. Ad eccezione del fondo di riserva, tutti i depositi non sono altro che crediti sul banchiere, che non si trovano però mai in deposito. In quanto essi servono alle transazioni di compensazione, hanno la funzione di capitale per i banchieri, dopo che questi li hanno dati in prestito. I banchieri si pagano reciprocamente i rispettivi assegni su depositi che non esistono mediante cancellazione reciproca di questi crediti.

A. Smith dice a proposito della funzione che il capitale riveste nel prestito monetario: «Anche nell’interesse monetario il denaro è pur sempre, per così dire, soltanto l’ordine di pagamento che trasferisce da una mano all’altra i capitali che i proprietari non si curano di impiegare per conto proprio. Questi capitali possono essere pressoché illimitatamente più grandi dell’importo monetario che serve come strumento del loro trasferimento: le stesse monete servono successivamente a numerosi prestiti diversi, così come a numerosi acquisti diversi. Ad esempio A dà in prestito a W 1.000 €. con cui W acquista immediatamente da B merci per 1.000 €. Poiché  B non ha modo di impiegare il denaro egli stesso, dà in prestito le medesime monete a X, con le quali X subito compera da C altre merci per 1.000 €. Nello stesso modo e per il medesimo motivo C dà in prestito il denaro a Y, il quale di nuovo acquista merci da D. Le stesse monete d’oro o di carta possono così servire nel corso di pochi giorni a rendere possibili tre prestiti diversi e tre diversi acquisti» ciascuno dei quali è, per il valore, uguale all’intero ammontare di queste monete. Ciò che i tre possessori di denaro A, B e C hanno trasferito ai tre che hanno preso in prestito, W, X e Y, è il potere di compiere tali acquisti.

In questo potere consiste tanto il valore quanto l’utilità di questi prestiti.

Il capitale dato in prestito dai tre possessori di denaro è uguale al valore delle merci che possono essere con esso acquistate e tre volte maggiore del valore del denaro con cui gli acquisti sono fatti. Nonostante ciò tutti questi prestiti possono essere del tutto sicuri, poiché le merci acquistate con essi dai diversi debitori sono impiegate in tal modo che esse, dopo un certo tempo, portano un uguale valore in oro od in carta moneta, unitamente ad un profitto. E come gli stessi pezzi di denaro possono servire a rendere possibili prestiti diversi per un ammontare corrispondente a tre o anche a trenta volte il loro valore, essi possono allo stesso modo servire successivamente come mezzo del rimborso» ( [Wealth of Nations] Libro II, cap. IV [ Ediz. Wakefield, Londra, 1835-1839, voI. 2, p. 400 sgg.]).

Poiché la medesima moneta può servire, secondo la velocità della sua circolazione, a diversi acquisti, essa può parimenti servire a diversi prestiti, poiché gli acquisti la portano da una mano all’altra, e il prestito non è che un trasferimento da una mano all’altra senza l’intermediario dell’acquisto. Per ogni venditore il denaro rappresenta la forma trasmutata della sua merce; al giorno d’oggi, in cui ogni valore è espresso come valore-capitale, rappresenta successivamente nei diversi prestiti diversi capitali il che esprime semplicemente in altre parole la precedente affermazione secondo la quale il denaro può successivamente realizzare diversi valori-merce. AI tempo stesso esso serve come mezzo di circolazione per far passare da una mano all’altra i capitali materiali. Nei prestiti esso non passa da una mano all’altra come mezzo di circolazione. Finchè rimane nelle mani di chi fa il prestito, esso non è, in sua mano, mezzo di circolazione, ma esistenza di valore del suo capitale. E in questa forma egli lo trasferisce nel prestito a un terzo. Qualora A avesse dato in prestito il denaro a B e B a C senza la mediazione degli acquisti, allora lo stesso denaro non rappresenterebbe tre capitali, ma uno soltanto, soltanto un valore-capitale.

Il numero dei capitali che esso rappresenta effettivamente dipende dal numero delle volte in cui esso opera come forma di valore di capitali-merce diversi.

Quello che A. Smith dice per i prestiti in generale, vale anche per i depositi, i quali sono appunto solo una denominazione particolare dei prestiti che il pubblico fa ai banchieri. Le stesse monete possono servire da strumento per un qualsivoglia numero di depositi.

«È assolutamente vero che le 1.000 Lst. che un tale deposita oggi presso A, domani vengono di nuovo spese e costituiscono un deposito presso B. Il giorno dopo, date in pagamento da B, esse possono costituire un deposito presso C e così via all’infinito. Le stesse 1.000 Lst. in denaro possono quindi, tramite una serie di trasferimenti, moltiplicarsi in un numero assolutamente indeterminabile di depositi. È quindi possibile che i 9/10 di tutti i depositi del Regno Unito non esistano se non come voci nei registri dei banchieri, che da parte loro ne debbono tenere conto... Così ad esempio in Scozia, dove la circolazione monetaria non superava mai i 3 milioni di Lst., i depositi però erano di 27 milioni. Ora, a meno che non si verifichi un assalto generale alle banche per ritirare i depositi, le medesime 1.000 Lst., seguendo il loro cammino di ritorno, potrebbero con altrettanta facilità servire al rimborso di una somma parimenti indeterminata. Poiché le medesime 1.000 Lst., con cui una persona oggi paga un debito a un negoziante, possono servire domani a questi per pagare ciò che deve al commerciante e il giorno dopo a pagare il debito del commerciante alla banca e così via senza fine; in tal modo le stesse 1.000 Lst. possono passare di mano in mano e da banca a banca e compensare qualsiasi somma di depositi» (The Currency Theory Reviewed, p. 62, 63).

Quello che accade per il sistema creditizio, dove tutto si raddoppia e si triplica trasformandosi in una pura chimera, si verifica anche per il fondo di riserva, dove si credeva finalmente di afferrare qualche cosa di solido.

Ascoltiamo di nuovo il sig. Morris, governatore della Banca d’Inghilterra: «Le riserve delle banche private sono in mano alla Banca d’Inghilterra sotto forma di depositi. Il primo effetto di un deflusso d’oro sembra colpire soltanto la Banca d’Inghilterra: ma esso si ripercuoterebbe parimenti sulle riserve delle altre banche, poiché si tratta del deflusso di una parte della riserva che esse hanno nella nostra banca. Si avrebbe una ripercussione analoga sulle riserve di tutte le banche provinciali» (Commercial Distress, 1847-48 [p.277, nn. 3639 e 3642]). In definitiva, dunque, tutti i fondi di riserva si risolvono in realtà nel fondo di riserva della Banca d’Inghilterra . Ma anche questo fondo di riserva a sua volta ha una duplice esistenza. Il fondo di riserva del banking department è uguale all’eccedenza delle banconote  che la Banca è autorizzata ad emettere sulle banconote che si trovano in circolazione. Il massimo legale delle banconote che possono essere emesse è 14 milioni (per i quali non è richiesta alcuna riserva metallica; corrisponde approssimativamente all’ammontare del debito dello Stato verso la Banca) più l’ammontare della riserva di metallo prezioso della Banca. Se dunque questa riserva è di 14 milioni Lst., la Banca può emettere 28 milioni di Lst. in banconote e, se ne circolano 20 milioni, il fondo di riserva del banking department = 8 milioni. Questi 8 milioni di banconote costituiscono perciò legalmente il capitale bancario di cui la Banca può disporre ed al tempo stesso il fondo di riserva a garanzia dei suoi depositi. Ora, se si verifica un deflusso di oro che diminuisce la riserva metallica di 6 milioni — il che comporterebbe la distruzione di altrettante banconote — la riserva del banking department si ridurrebbe di conseguenza da 8 a 2 milioni. Da un lato la Banca aumenterebbe di molto il suo saggio dell’interesse; d’altro lato le banche che hanno dei depositi presso la Banca d’Inghilterra e gli altri depositanti vedrebbero diminuire di molto il fondo di riserva a garanzia dei propri crediti presso la Banca. Nel 1857 le quattro più importanti banche azionarie di Londra minacciavano, qualora la Banca d’Inghilterra non ottenesse una «Lettera del Governo» che dichiarasse sospeso il Bank Act del 1844 (La sospensione del Bank Act del 1844 dà facoltà alla Banca di emettere banconote in quantità indeterminata, senza riguardo alla copertura aurea che essa possiede: di creare quindi delle quantità indefinite di capitale monetario cartaceo, fittizio e di fare su questo capitale degli anticipi alle banche ed agli agenti di cambi e, per tramite loro, al commercio [FE]), di richiedere i loro depositi, misura questa che avrebbe significato la bancarotta del banking department. In tal modo il banking department può fallire, come accadde nel 1847, mentre milioni a volontà (adesempio 8 milioni ne 1847) giacciono nel issue department come garanzia per la convertibilità delle banconote in circolazione. Ma anche questo è illusorio.

«La maggior parte dei depositi dei quali i banchieri stessi non hanno una richiesta immediata, passano nelle mani dei bill-brokers (letteralmente agenti di cambio, in realtà mezzi banchieri) che danno al banchiere, a garanzia dell’anticipo da lui concesso, cambiali commerciali, che essi hanno già scontato per gente di Londra o della provincia. Il bill-broker è responsabile presso il banchiere del rimborso di questo money at call (denaro che è rimborsabile immediatamente a richiesta); e questi affari hanno preso un tale volume che il signor Neave, l’attuale Governatore della Banca (d’Inghilterra, nella sua deposizione afferma: noi sappiamo che un broker disponeva di 5 milioni ed abbiamo fondati motivi per ritenere che un altro aveva fra gli 8 e i 10 milioni; uno ne aveva 4, un altro 3,5 e un terzo più di 8. Io parlo di depositi presso i brokers» (Repor of Committee on Bank Acts, 1857-58, p. V, paragrafo n. 8).

«I bill-brokers di Londra... conducevano i loro vastissimi affari senza avere nessuna riserva contante; essi si basavano sugli incassi delle loro cambiali che venivano di volta in volta a scadenza o, in caso di bisogno, sulla loro facoltà di ottenere degli anticipi dalla Banca d’Inghilterra contro deposito delle cambiali da essi scontate» [ivi,  p. VII, paragrafo n. 17]. «Due società di bill-brokers di Londra sospesero i loro pagamenti nel 1847; ambedue ripresero più tardi la loro attività. Nel 1857 di nuovo la sospesero. Il passivo d una società nel 1847 in cifra tonda ammontava a 2.683.000 Lst. con un capitale di 180.000 Lst.; nel 1857 il suo passivo era di 5.300.00 Lst., mentre il capitale con ogni probabilità non ammontava a più di un quarto di quello che era stato nel 1847. Il passivo dell’altra società oscillava fra i 3 e i 4 milioni con un capitale di non più d 45.000 Lst» (ivi, p. XXI, paragrafo n. 52).

 

AVVERTENZA PER IL LETTORE

Il testo del III libro del Capitale che viene qui riportato NON È UNA DELLE TRADUZIONI INTEGRALI DEL TESTO ORIGINALE che sono disponibili: esso infatti è una rivisitazione delle traduzioni esistenti (in italiano ed in francese) a cui sono state apportate le seguenti modifiche:

1 – non sono state riportate le note che Marx ed Engels richiamano nel testo (fatte salve alcune eccezioni);

2 – sono state introdotte delle modifiche per quanto riguarda gli esempi numerici in cui, per facilitare la lettura;

a – sono state cambiate le unità di misura e le grandezze;

b – diversi dati richiamati nella forma di testo sono stati trasformati in tabelle;

c – in alcuni esempi numerici le cifre decimali sono state limitate a due e nel caso di numeri periodici, ad esempio 1/3 o 2/3, la cifra periodica è stata indicata con un apice (‘).

Ci rendiamo conto che leggere un testo del Capitale in cui Marx formula esempi in Euro (€) invece che in Lire Sterline (Lst) o scellini potrebbe far sorridere e far pensare ad uno scherzo o ad una manipolazione che ha  travisato il pensiero dell’Autore, avvertiamo invece il lettore che il testo è assolutamente fedele al pensiero originale  e che ci siamo permessi di introdurre alcune “varianti” per consentire a coloro che non hanno dimestichezza con le unità di misura e monetarie inglesi di non bloccarsi di fronte a questa difficoltà e di facilitarne così la lettura o lo studio.

In altre parti si sono invece mantenute le unità di misura e monetarie inglesi originali perchè la lettura non creava problemi di comprensione o per ragioni di fedeltà storica.

Ci facciamo altresì carico dell’osservazione che Engels ha formulato nelle “considerazioni supplementari” poste all’inizio del III Libro, laddove, di fronte alle molteplici interpretazioni del testo che vennero fatte dopo la prima edizione, sostiene: “Nella presente edizione ho cercato innanzitutto di comporre un testo il più possibile autentico, di presentare, nel limite del possibile, i nuovi risultati acquisiti da Marx, usando i termini stessi di Marx, intervenendo unicamente quando era assolutamente necessario, evitando che, anche in quest’ultimo caso, il lettore potesse avere dei dubbi su chi gli parla. Questo sistema è stato criticato; si è pensato che io avrei dovuto trasformare il materiale a mia disposizione in un libro sistematicamente elaborato, en faire un livre, come dicono i francesi, in altre parole sacrificare l’autenticità del testo alla comodità del lettore. Ma non è in questo senso che io avevo interpretato il mio compito. Per una simile rielaborazione mi mancava qualsiasi diritto; un uomo come Marx può pretendere di essere ascoltato per se stesso, di tramandare alla posterità le sue scoperte scientifiche nella piena integrità della sua propria esposizione. Inoltre non avevo nessun desiderio di farlo: il manomettere in questo modo perchè dovevo considerare ciò una manomissione l’eredità di un uomo di statura così superiore, mi sarebbe sembrato una mancanza di lealtà. In terzo luogo sarebbe stato completamente inutile. Per la gente che non può o non vuole leggere, che già per il primo Libro si è data maggior pena a interpretarlo male di quanto non fosse necessario a interpretarlo bene — per questa gente è perfettamente inutile sobbarcarsi a delle fatiche”.

Marx ed Engels non ce ne vogliano, ma posti di fronte alle molteplici “fughe” dallo studio da parte di persone che non possedevano una cultura accademica, fughe che venivano imputate alla difficoltà presentate dal testo, abbiamo deciso di fare uno “strappo” alle osservazioni di Engels, intervenendo in alcune parti  avendo altresì cura di toccare il testo il meno possibile. Nel fare questo “strappo” eravamo tuttavia confortati dal fatto che, a differenza  della situazione in cui Engels si trovava, oggi chi vuole accedere al testo “originale”, dispone di diverse edizioni in varie lingue.

Coloro che volessero accostarsi al testo originale in lingua italiana si consigliano le seguenti edizioni:

  • Il capitale, Le Idee, Editori Riuniti, traduzione di Maria Luisa Boggeri;
  • Il capitale, Edizione Einaudi, traduzione di Maria Luisa Boggeri;
  • Il capitale, Edizione integrale - I mammut – Newton Compton, a cura di Eugenio Sbardella.

Chi volesse accedere ad edizioni del Capitale e di altri testi di Marx in lingue estere, si propone di consultare il sito internet di seguito riportato:

http://www.marxists.org/xlang/marx.htm