IL CAPITALE

LIBRO III

SEZIONE V

SUDDIVISIONE DEL PROFITTO IN INTERESSE
E GUADAGNO D’IMPRENDITORE.

IL CAPITALE PRODUTTIVO D’INTERESSE.

CAPITOLO 24

ESTERIORIZZAZIONE DEL RAPPORTO CAPITALISTICO
NELLA FORMA DEL CAPITALE PRODUTTIVO D’INTERESSE

E’ nel capitale produttivo d’interesse che il rapporto capitalistico perviene alla sua forma più esteriore e assume l’aspetto di un feticcio. Noi abbiamo qui D — D’, denaro che produce più denaro, valore che valorizza se stesso, senza il processo che serve da intermediario fra i due estremi. Nel capitale commerciale D —M—D’, esiste almeno la forma generale del movimento capitalistico, quantunque essa si conservi unicamente nella sfera della circolazione e il profitto appaia quindi come semplice profitto d’alienazione; esso tuttavia si presenta pur sempre come prodotto di un rapporto sociale e non come prodotto di una semplice cosa. La forma del capitale commerciale rappresenta ancor sempre un processo, l’unità di fasi opposte, un movimento che si scompone in due operazioni opposte, nella compera e nella vendita di merci.

In D — D’, che è la forma del capitale produttivo d’interesse, questo rapporto è invece estinto.

Se ad esempio un capitalista presta 1.000 euro e il saggio dell’interesse è del 5%, allora il valore dei 1.000 euro, in quanto capitale per un anno è = C + Cz’ = C ∙ (1 + z’), dove C è il capitale e z’ il saggio d’interesse, quindi in questo caso = 1.000 ∙ (5% +1.000) = 1050. Il valore di 1.000 euro in quanto capitale è uguale a 1.050 euro, ossia il capitale non è una grandezza semplice. E’ un rapporto di grandezze, rapporto come somma principale, come valore dato, come valore che si valorizza, come somma principale che ha prodotto un plusvalore. Il capitale si presenta come tale, come questo valore che si valorizza direttamente, per tutti i capitalisti attivi sia che essi operino con capitale proprio o con capitale preso a prestito.

D — D’: noi abbiamo qui il punto di partenza originario del capitale, il denaro nella formula D — M — D’ ridotto ai due estremi D — D’, dove D’ = D + ΔD, denaro che produce più denaro.

È la formula originaria e generale del capitale condensata in un’espressione priva di senso. E’capitale bell’e pronto, unità del processo di produzione e di circolazione, che rende quindi in un periodo determinato un plusvalore determinato. Nella forma del capitale produttivo d’interesse questo risultato è diretto, senza la mediazione del processo di produzione e del processo di circolazione. Il capitale appare come la fonte misteriosa che da se stessa crea l’interesse, il suo proprio accrescimento. Ora la cosa (denaro, merce, valore), come semplice cosa, è già capitale ed il capitale appare come semplice cosa; il risultato del processo complessivo di riproduzione appare come una qualità che la cosa ha di per se stessa; dipende dal proprietario del denaro, ossia della merce nella sua forma sempre scambiabile, se egli vuole spenderlo come denaro oppure darlo in affitto come capitale. Nel capitale produttivo d’interesse questo feticcio automatico, valore che genera valore, denaro che produce denaro, senza che in questa forma sussista più nessuna traccia della sua origine, è quindi messo nettamente in rilievo. Il rapporto sociale è perfezionato come rapporto di una cosa, del denaro, con se stessa. In luogo dell’effettiva trasformazione del denaro in capitale non si ha qui che la sua forma priva di contenuto. Come nella forza-lavoro, il valore d’uso del denaro consiste qui nel creare valore, un valore più grande di quello che esso stesso contiene. Il denaro in quanto tale è già valore che potenzialmente si valorizza e in questa qualità viene dato a prestito, costituendo il prestito la forma di vendita per questa merce particolare. Precisamente come la proprietà di un pero è di produrre pere, così la proprietà del denaro è di creare valore, di dare dell’interesse. Ed è sotto questa forma di cosa che produce interesse che chi dà a prestito vende il suo denaro. Ma ciò non è tutto. Il capitale effettivamente operante, come abbiamo visto, presenta se stesso in modo tale che esso produce l’interesse non in quanto capitale operante, ma in quanto capitale in sé, in quanto capitale monetario.

Avviene anche un altro capovolgimento; mentre l’interesse è unicamente una parte del profitto, ossia del plusvalore che il capitalista operante come tale estorce al lavoratore, l’interesse appare ora al contrario come il frutto vero e proprio del capitale, come il fatto originario, e il profitto appare trasformato ora, nella forma di guadagno d’imprenditore come un semplice accessorio e ingrediente che si aggiunge nel processo di riproduzione. Qui la figura di feticcio del capitale e la rappresentazione del capitale come feticcio sono portate a termine. In D — D’ noi abbiamo la forma empirica del capitale, il rovesciamento e la oggettivazione del rapporto di produzione alla più alta potenza: forma produttiva d’interesse, la forma semplice del capitale in cui esso è presupposto al suo proprio processo di riproduzione; capacità del denaro, ossia della merce, di valorizza re il proprio valore indipendentemente dalla riproduzione, la mistificazione del capitale nella sua forma più stridente.

Per l’economia volgare, che vuole rappresentare il capitale come la fonte indipendente del valore, della creazione del valore, questa forma è naturalmente pane per i suoi denti, una forma in cui la fonte del profitto non è più riconoscibile e in cui il risultato del processo capitalistico di produzione, separato dal processo stesso, ha una esistenza autonoma.

Soltanto nel capitale monetario il capitale è diventato merce, la cui qualità di valorizzare se stessa ha un prezzo fisso che è registrato volta per volta nel saggio d’interesse.

Nella sua forma immediata, in quanto capitale produttivo d’interesse, e precisamente nella sua forma di capitale monetario produttivo d’interesse (le altre forme del capitale produttivo d’interesse che non ci riguardano qui sono a loro volta derivate da questa forma o la presuppongono) il capitale riceve la sua forma di feticcio pura, D — D’, come soggetto, cosa vendibile. Innanzitutto per la  sua esistenza continuata come denaro, una forma nella quale tutti i suoi tratti determinati sono cancellati e i suoi elementi reali sono invisibili. Il denaro è precisamente quella forma in cui la diversità delle merci come valori d’uso è cancellata, quindi anche la diversità fra i capitali industriali che si compongono di queste merci e delle loro condizioni di produzione; è quella forma sotto la quale il valore — qui capitale — esiste come valore di scambio autonomo. Nel processo di riproduzione del capitale la forma monetaria è una forma passeggera, un semplice momento di transizione. Sul mercato monetario, al contrario, il capitale esiste sempre sotto questa forma.

In secondo luogo il plusvalore da esso prodotto, qui di nuovo nella forma di denaro, gli appare come cosa che spetti a lui, in quanto tale. Come per gli alberi il crescere, così al capitale monetario il produrre denaro ( appare in questa forma una proprietà naturale.

Nel capitale produttivo d’interesse il movimento del capitale è ridotto al minimo; il processo attraverso cui esso si svolge è soppresso e così un capitale uguale a 1.000 è considerato come una cosa che per sé vale 1.000 e in un certo periodo si trasforma in 1.100, come il vino in cantina dopo un certo tempo migliora anche il suo valore d’uso. Il capitale è ora una cosa, ma come cosa è capitale. Nel denaro germoglia la vita. Non appena esso è dato a prestito o anche investito nel processo di riproduzione (in quanto esso frutta al capitalista operante, quale suo proprietario, un interesse distinto dal guadagno d’imprenditore), esso genera dell’interesse sia che dorma, sia che sia sveglio, sia che si trovi a casa o in viaggio, di giorno e di notte. Così nel capitale produttivo d’interesse (e ogni capitale è, secondo il valore che esso esprime, capitale monetario o si considera ora come l’espressione del capitale monetario), si trova realizzato il pio desiderio del tesaurizzatore.

È appunto il fatto che l’interesse è cresciuto dentro al capitale monetario come a una cosa (poiché così si presenta qui la produzione del plusvalore per mezzo del capitale) ciò che più di tutto preoccupa Lutero nelle sue ingenue filippiche contro l’usura. Dopo aver sviluppato la tesi che un interesse può essere richiesto quando, in seguito alla non avvenuta restituzione al termine fissato, colui che ha prestato, e che a sua volta deve effettuare pagamenti, deve sostenere spese non previste, o quando per questo motivo perde un profitto che avrebbe potuto ricavare per es. dall’acquisto di un giardino, egli prosegue: «Ora che te li ho prestati (i 100 fiorini) tu mi causi un doppio danno, perché io non posso pagare qui, comperare là, e dunque debbo soffrire un doppio danno, ciò che si dice doppio interesse, della perdita subita e del mancato guadagno. . . Appena sanno che Hans ha subito un danno a causa dei cento fiorini che ha prestato e che esige un equo indennizzo per il danno sofferto, ci si buttano sopra e mettono in conto su ogni cento fiorini un duplice danno del medesimo genere, ossia le spese di pagamento e il mancato acquisto del giardino, proprio come se due danni siffatti germogliassero naturalmente su ogni cento fiorini, di modo che ogni volta che hanno dato in prestito cento fiorini, mettono in conto due danni che pure non hanno subito... È per questo che tu sei un usuraio, poiché tu fai pagare con denaro del tuo prossimo un danno che tu inventi, che nessuno ti ha causato e che tu non puoi né dimostrare, né valutare. Tale danno i giuristi lo chiamano “Interesse non reale, ma immaginario”.

Un danno che ognuno si sogna... e di cui non si può quindi dire che abbia per causa il fatto che non si sia potuto pagare o acquistare. In altre parole ciò sarebbe fare “di una cosa contingente una cosa necessaria”, fare di ciò che non è niente ciò che dovrebbe essere, di ciò che è incerto una cosa assolutamente certa. Una simile usura non divorerebbe forse il mondo in pochi anni... Per caso può accadere una disgrazia a chi ha dato a prestito, senza che vi entri la sua volontà, obbligandolo quindi a rifarsi, ma nel commercio accade il contrario, anzi addirittura l’opposto, poiché si cercano e si inventano danni a spese del vicino che è nel bisogno, per nutrirsi e diventare ricco, per gozzovigliare pigro e ozioso, e farsi grande con il lavoro, la pena, il rischio e il danno altrui; chi non accetterebbe di starsene tranquillo in casa e di far lavorare per lui i suoi cento fiorini, senza rischio né affanno, poiché il denaro, essendo dato a prestito, rimane sicuro nella sua borsa?» (M. LUTERO, An die Pfarrherrn wider den Wucher zu pre digen ecc., Wittenberg, 1540).

La rappresentazione del capitale come valore che si riproduce da se stesso e che si accresce nella riproduzione in virtù di una sua qualità innata, quale valore che in eterno dura e si accresce — quindi in virtù della qualità occulta degli Scolastici — ha condotto alle fantastiche elucubrazioni del dott. Price, che superano di gran lunga le fantasie degli alchimisti; elucubrazioni alle quali Pitt credeva così seriamente da farne le colonne della sua scienza finanziaria nelle sue leggi sul  “Fondo d’ammortamento dei debiti dello Stato”.

«Il denaro che porta degli interessi composti si accresce dapprima lentamente; ma poiché il saggio dell’accrescimento si accelera ininterrottamente, dopo un certo tempo esso diventa talmente rapido da superare ogni immaginazione. Un penny prestato al 5% d’interesse composto alla nascita del nostro Redentore, sarebbe cresciuto oggi ad una somma maggiore di quella che potrebbero rappresentare 150 milioni di globi terraquei, tutti di oro puro. Ma prestato ad interesse semplice esso si sarebbe accresciuto per lo stesso periodo solamente a 7 sh. 4 1/2 d. Fino al presente il nostro governo ha preferito questa seconda via alla prima per migliorare le sue finanze».

Egli va ancora più lontano nelle sue Observations on Reversionary Payments ecc., Londra, 1772: «1 sh. dato in prestito il giorno della nascita del nostro Redentore» (quindi senza dubbio nel tempio di Gerusalemme) « al 5% d’interesse composto sarebbe diventato una somma più grande di quella che potrebbe contenere l’intero sistema solare trasformato in una sfera di un diametro uguale a quello dell’orbita di Saturno». «Uno Stato non deve quindi mai trovarsi in difficoltà; poiché con i più piccoli risparmi egli può pagare il debito più elevato in un tempo tanto breve quanto gli possa far comodo» (pp. XIII,XIV). Che graziosa introduzione teorica al debito pubblico inglese!

Price fu semplicemente abbagliato dall’enormità del numero derivante dalla progressione geometrica. Poiché egli considerava il capitale, senza tener conto delle condizioni della riproduzione e del lavoro, come un meccanismo automatico, come un semplice numero che si accresce da se stesso (precisamente come Malthus considerava l’uomo nella sua progressione geometrica), egli poteva immaginarsi di aver trovato la legge del suo accrescimento nella formula

s = c (1 + z).n

dove

s = alla somma dei capitale più gli interessi composti,

c = al capitale anticipato,

z = al saggio dell’interesse (espresso in parti aliquote di 100)

n = il numero degli anni in cui il processo si compie.

Pitt prende completamente sul serio la mistificazione del dott. Price. Nel 1786 la Camera dei Comuni aveva deciso che dovesse essere riscosso un milione di sterline per spese di pubblica utilità. Secondo Price, in cui Pitt credeva, non vi era naturalmente nulla di meglio da fare che di tassare il popolo per «accumulare» la somma riscossa e così far sparire per incanto il debito pubblico con l’azione misteriosa dell’interesse composto. Questa risoluzione della Camera dei Comuni fu tosto seguita da una legge, voluta da Pitt, che ordinava l’accumulazione di 250.000 Lst. «fino al giorno in cui, con le rendite vitalizie giunte a scadenza, il fondo annuale si elevasse a 4.000.000 di sterline» (Ad 26 George III, cap. 31). Nel suo discorso del 1792 in cui propose di aumentare la somma devoluta al fondo di ammortamento, Pitt citò fra le cause dell’egemonia inglese: macchine, credito, ecc., ma come «la causa più potente e più durevole l’accumulazione. Questo principio è ora completamente sviluppato e sufficientemente spiegato nell’opera di Smith, questo genio... Questa accumulazione del capitale si effettua, quando si accantona almeno una parte del profitto annuo al fine di accrescere la somma principale, la quale allo stesso modo deve essere impiegata nell’anno seguente e dare così un profitto continuo».

Con l’aiuto del dott. Price, Pitt trasforma così la teoria dell’accumulazione di Smith nella teoria dell’arricchimento di un popolo mediante l’accumulazione di debiti ed arriva con una piacevole progressione all’indebitamento indefinito, all’indebitamento per pagare debiti.

Come la concezione del dott. Price penetri inavvertitamente nell’economia moderna, lo mostra l’Economist nel passo seguente:

«Capitale, con l’interesse composto (compound interest) su ogni parte di capitale risparmiato, divora talmente tutto (all engrossing) che tutta la ricchezza del mondo, da cui si trae il reddito, è da lungo tempo diventata interesse di capitale... ogni rendita è ora il pagamento dell’interesse di capitale precedentemente investito nella terra» (Economist, 19 luglio 1851). Nella sua qualità di capitale produttivo d’interesse, appartiene al capitale tutta la ricchezza che può in generale essere prodotta, e tutto ciò che esso ha ricevuto fino ad ora è unicamente un acconto sul suo appetito. Secondo le sue leggi innate gli appartiene tutto il pluslavoro che il genere umano potrà ancora produrre. Moloch.

Per concludere, ancora la seguente bravata del «romantico» Muller. «Il prodigioso accrescimento dell’interesse composto o delle forze umane che si sccelerano da se stesse previsto dal dottor Price presuppone, se deve produrre questi effetti smisurati, un impiego uniforme, indiviso e ininterrotto per parecchi secoli. Non appena il capitale è suddiviso, frantumato in più rami che continuano a crescere per conto proprio, il progresso complessivo dell’accumulazione delle forze qui descritto ricomincia di nuovo da capo. La natura ha ripartito la progressione delle forze in periodi di circa 20-25 anni, che in media toccano in sorte ad ogni singolo operaio (!). Al termine di questo periodo l’operaio abbandona la sua carriera e deve a questo punto trasferire ad un altro operaio il capitale guadagnato dall’interesse composto del lavoro, generalmente ripartirlo fra più operai o fanciulli. Questi non potranno profittare dell’interesse composto del capitale che è loro toccato, prima di averlo reso vivo e di aver imparato a servirsene. Inoltre una massa enorme di capitale guadagnato dalla società borghese, anche nelle comunità più agiate, si accumula lentamente nel corso di lunghi anni e non è impiegata per creare nuove fonti immediate di lavoro, ma invece, non appena costituisce una somma di una certa entità, è trasferita sotto il nome di “prestito” a un altro individuo, a un lavoratore, a una banca, allo Stato; e allora colui che lo riceve, poiché mette in effettivo movimento il capitale, ne ritira un. interesse composto e può facilmente assumere l’impegno di pagare a colui che glielo ha prestato ad interesse semplice. Infine contro quella smisurata progressione in cui si potrebbero accrescere le forze dell’uomo e il loro prodotto, se dovesse valere soltanto una legge della produzione o del risparmio, reagisce una legge altrettanto profondamente connaturata alla natura umana, quella di spendere, desiderare e sprecare» (ADAM MULLER, Die Elemente dei Staatskunst, Berlino, 1809, III, pp. 147-149).

È impossibile mettere insieme in poche righe un maggior numero di pazzesche assurdità. Senza parlare della buffa confusione fra operai e capitalista, fra valore della forza-lavoro ed interesse del capitale e così via, la diminuzione dell’interesse composto dovrebbe essere spiegata tra l’altro dal fatto che il capitale viene «dato in prestito» dove esso dà «poi dell’interesse composto». Il metodo del nostro Muller è caratteristico del romanticismo in ogni campo. Il suo contenuto consiste di pregiudizi banali, tolti dalla più superficiale apparenza delle cose. Tale contenuto falso e triviale dovrebbe poi essere « nobilitato » e reso poetico da un linguaggio mistificatorio.

Il processo di accumulazione del capitale può essere considerato come accumulazione d’interesse composto in quanto la parte del profitto (plusvalore) che viene ritrasformata in capitale, ossia che serve a succhiare nuovo plusvalore, può essere designata sotto il nome di interesse. Ma:

1)  Facendo astrazione da tutte le perturbazioni accidentali, nel corso del processo di riproduzione una parte assai grande del capitale esistente è costantemente più o meno svalorizzata, perché il valore delle merci è determinato non dal tempo di lavoro che la loro produzione costa all’origine, ma dal tempo di lavoro che costa la loro riproduzione, tempo che va continuamente diminuendo in seguito allo sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro. A uno stadio di sviluppo della produttività sociale più elevato, tutto il capitale esistente appare, dunque, non come il risultato di un lungo processo del risparmio del capitale, ma come il risultato di un tempo relativamente molto breve di riproduzione;

2)   Come si è dimostrato nella terza sezione di questo Libro, il saggio del profitto diminuisce in rapporto alla crescente accumulazione del capitale ed alla forza produttiva del lavoro sociale che cresce corrispondentemente ad essa e che si esprime precisamente nella crescente diminuzione relativa del capitale variabile rispetto al costante. Se il capitale costante messo in movimento da un operaio diventa dieci volte maggiore, per ottenere il medesimo saggio del profitto, la durata del plusvalore dovrebbe aumentare anch’essa di dieci volte, e ben presto l’intero tempo di lavoro e persino le 24 ore della giornata, pur se completamente appropriate dal capitale, finirebbero per essere insufficienti. L’idea che il saggio del profitto non diminuisce sta tuttavia alla base della progressione di Price ed in generale di tutte le teorie dell’ «all engrossing capital, with compound interest ».

Tramite l’identità del pluslavoro e del plusvalore l’accumulazione del capitale pone un limite qualitativo nella giornata lavorativa complessiva, nello sviluppo ogni volta dato delle forze produttive e della popolazione che limita il numero delle giornate simultaneamente sfruttabili. Ma se invece il plusvalore è assunto nella forma empirica dell’interesse, allora il limite è soltanto quantitativo e va al di là di qualsiasi immaginazione.

Ma nel capitale produttivo d’interesse la rappresentazione del capitale-feticcio è portata a compimento, la rappresentazione che attribuisce al prodotto accumulato del lavoro e per di più fissato come denaro, la capacità di produrre plusvalore in una progressione geometrica, per una qualità segreta innata, come un semplice meccanismo, così che questo prodotto accumulato del lavoro, come intende l’Economist, ha scontato già da lungo tempo, come appartenenti e spettanti a lui di diritto, tutte le ricchezze del mondo di tutti i tempi. Il prodotto del lavoro passato, il lavoro passato stesso è qui in sé e per sé pregno di una parte di plusvalore vivo presente e futuro. Si sa invece che in realtà la conservazione e pertanto anche la riproduzione del valore dei prodotti del lavoro passato sono soltanto il risultato del loro contatto con il lavoro vivo; e in secondo luogo: che il predominio dei prodotti del lavoro passato sul plus lavoro vivo dura soltanto quanto dura il rapporto capitalistico; quel determinato rapporto sociale in cui il lavoro passato si contrappone in modo autonomo e preponderante al lavoro vivo.

 

AVVERTENZA PER IL LETTORE

Il testo del III libro del Capitale che viene qui riportato NON È UNA DELLE TRADUZIONI INTEGRALI DEL TESTO ORIGINALE che sono disponibili: esso infatti è una rivisitazione delle traduzioni esistenti (in italiano ed in francese) a cui sono state apportate le seguenti modifiche:

1 – non sono state riportate le note che Marx ed Engels richiamano nel testo (fatte salve alcune eccezioni);

2 – sono state introdotte delle modifiche per quanto riguarda gli esempi numerici in cui, per facilitare la lettura;

a – sono state cambiate le unità di misura e le grandezze;

b – diversi dati richiamati nella forma di testo sono stati trasformati in tabelle;

c – in alcuni esempi numerici le cifre decimali sono state limitate a due e nel caso di numeri periodici, ad esempio 1/3 o 2/3, la cifra periodica è stata indicata con un apice (‘).

Ci rendiamo conto che leggere un testo del Capitale in cui Marx formula esempi in Euro (€) invece che in Lire Sterline (Lst) o scellini potrebbe far sorridere e far pensare ad uno scherzo o ad una manipolazione che ha  travisato il pensiero dell’Autore, avvertiamo invece il lettore che il testo è assolutamente fedele al pensiero originale  e che ci siamo permessi di introdurre alcune “varianti” per consentire a coloro che non hanno dimestichezza con le unità di misura e monetarie inglesi di non bloccarsi di fronte a questa difficoltà e di facilitarne così la lettura o lo studio.

In altre parti si sono invece mantenute le unità di misura e monetarie inglesi originali perchè la lettura non creava problemi di comprensione o per ragioni di fedeltà storica.

Ci facciamo altresì carico dell’osservazione che Engels ha formulato nelle “considerazioni supplementari” poste all’inizio del III Libro, laddove, di fronte alle molteplici interpretazioni del testo che vennero fatte dopo la prima edizione, sostiene: “Nella presente edizione ho cercato innanzitutto di comporre un testo il più possibile autentico, di presentare, nel limite del possibile, i nuovi risultati acquisiti da Marx, usando i termini stessi di Marx, intervenendo unicamente quando era assolutamente necessario, evitando che, anche in quest’ultimo caso, il lettore potesse avere dei dubbi su chi gli parla. Questo sistema è stato criticato; si è pensato che io avrei dovuto trasformare il materiale a mia disposizione in un libro sistematicamente elaborato, en faire un livre, come dicono i francesi, in altre parole sacrificare l’autenticità del testo alla comodità del lettore. Ma non è in questo senso che io avevo interpretato il mio compito. Per una simile rielaborazione mi mancava qualsiasi diritto; un uomo come Marx può pretendere di essere ascoltato per se stesso, di tramandare alla posterità le sue scoperte scientifiche nella piena integrità della sua propria esposizione. Inoltre non avevo nessun desiderio di farlo: il manomettere in questo modo perchè dovevo considerare ciò una manomissione l’eredità di un uomo di statura così superiore, mi sarebbe sembrato una mancanza di lealtà. In terzo luogo sarebbe stato completamente inutile. Per la gente che non può o non vuole leggere, che già per il primo Libro si è data maggior pena a interpretarlo male di quanto non fosse necessario a interpretarlo bene — per questa gente è perfettamente inutile sobbarcarsi a delle fatiche”.

Marx ed Engels non ce ne vogliano, ma posti di fronte alle molteplici “fughe” dallo studio da parte di persone che non possedevano una cultura accademica, fughe che venivano imputate alla difficoltà presentate dal testo, abbiamo deciso di fare uno “strappo” alle osservazioni di Engels, intervenendo in alcune parti  avendo altresì cura di toccare il testo il meno possibile. Nel fare questo “strappo” eravamo tuttavia confortati dal fatto che, a differenza  della situazione in cui Engels si trovava, oggi chi vuole accedere al testo “originale”, dispone di diverse edizioni in varie lingue.

Coloro che volessero accostarsi al testo originale in lingua italiana si consigliano le seguenti edizioni:

  • Il capitale, Le Idee, Editori Riuniti, traduzione di Maria Luisa Boggeri;
  • Il capitale, Edizione Einaudi, traduzione di Maria Luisa Boggeri;
  • Il capitale, Edizione integrale - I mammut – Newton Compton, a cura di Eugenio Sbardella.

Chi volesse accedere ad edizioni del Capitale e di altri testi di Marx in lingue estere, si propone di consultare il sito internet di seguito riportato:

http://www.marxists.org/xlang/marx.htm