IL CAPITALE LIBRO III SEZIONE V
SUDDIVISIONE DEL
PROFITTO IN INTERESSE IL CAPITALE PRODUTTIVO D’INTERESSE. CAPITOLO 23 INTERESSE E GUADAGNO D’IMPRENDITORE L’interesse, come noi abbiamo visto nei due capitoli precedenti, appare ed è in origine e rimane in realtà nient’altro che una parte del profitto, ossia del plusvalore che il capitalista operante, industriale o commerciante, in quanto impiega non il proprio capitale ma capitale preso a prestito, deve pagare al proprietario che gli ha prestato questo capitale. Se egli impiega soltanto il proprio capitale, questa ripartizione del profitto non avviene; tale profitto gli appartiene integralmente. Di fatto, in quanto i proprietari del capitale impiegano essi stessi tale capitale nel processo di riproduzione, non concorrono alla determinazione del saggio dell’interesse e così si dimostra fin d’ora come la categoria dell’interesse — impossibile senza la determinazione di un saggio dell’interesse — sia estranea al movimento del capitale industriale in sé e per sé. «Il saggio d’interesse può essere definito come quella somma proporzionale che chi dà a prestito è contento di ricevere e chi prende a prestito accetta di pagare, per l’uso durante un anno o per qualsiasi periodo più o meno lungo, di un certo ammontare di capitale monetario... Se il proprietario del capitale lo impiega egli stesso attivamente nella riproduzione, egli non è tra quei capitalisti il cui rapporto con il numero di coloro che prendono a prestito determina il saggio dell’interesse» (TH. TOOKE, History of Prices, ecc., dal 1793 al 1837, Londra, 1838, lI, p. 355). Di fatto soltanto la suddivisione dei capitalisti in capitalisti monetari e industriali, trasforma una parte del profitto in interesse, crea in genere la categoria dell’interesse e soltanto la concorrenza fra questi due tipi di capitalisti crea il saggio dell’interesse. Per tutto il tempo che il capitale opera nel processo di riproduzione — anche se si suppone che esso appartenga al capitalista industriale stesso, per cui non lo deve restituire a nessuno — egli non ha a sua disposizione come privato questo capitale stesso, ma soltanto il profitto che può spendere come reddito. Per tutto il tempo che il suo capitale opera come capitale, esso appartiene al processo di riproduzione ed è fissato in questo processo. Egli è, sì, il suo proprietario, ma questa proprietà non lo autorizza a disporne in altro modo, in quanto egli lo usa come capitale per lo sfruttamento del lavoro. Lo stesso si verifica per il capitalista monetario. Per tutto il tempo che il suo capitale è prestato e funziona quindi come capitale monetario, esso gli apporta interesse, una parte del profitto, ma non può disporre della somma totale. Ciò appare evidente non appena lo ha dato in prestito, ad esempio per uno o più anni e riceve a scadenze determinate l’interesse, ma non il rimborso del capitale. Ma anche il rimborso non cambia per nulla la cosa. Se riceve il capitale di ritorno, egli lo deve allora sempre prestare di nuovo, se esso deve avere per lui la funzione di capitale, in questo caso di capitale monetario. Fino a che esso si trova in mano sua, esso non apporta interesse alcuno e non funziona come capitale e fino a che esso apporta interesse e funziona come capitale non si trova in mano sua. Di qui la possibilità di dare in prestito capitale in perpetuo. Le osservazioni seguenti fatte da Tooke a Bosanquet sono quindi fondamentalmente errate. Egli cita Bosanquet (Metallic, Paper and Credit Currency, p. 73): «Se il saggio d’interesse scendesse all’1%, allora il capitale dato in prestito verrebbe a trovarsi approssimativamente al medesimo livello (upon a par) del capitale di proprietà personale». A questo proposito Tooke fa il seguente commento: «Che un capitale prestato a questo saggio d’interesse o ad un saggio ancora inferiore debba essere considerato come se stesse pressappoco sullo stesso piano del capitale di proprietà personale, è un'osservazione così strana che non meriterebbe seria considerazione, se non provenisse da uno scrittore così intelligente e così ben informato in singoli punti dell’argomento. Ma egli ha perso di vista o considera forse poco importante il fatto che la sua ipotesi implica come condizione il rimborso?» (TH. TOOKE, An Inquiry into the Currency Principle, 2a ed., Londra, 1844, p. 80). Se l’interesse fosse uguale a zero, allora il capitalista industriale che ha preso a prestito il capitale si troverebbe nella medesima condizione di chi lavora con capitale proprio. Entrambi verrebbero ad incassare il medesimo profitto medio e il capitale, sia preso a prestito sia di proprietà personale, opera come capitale soltanto in quanto produce profitto. La condizione del rimborso non muterebbe per nulla le cose. Quanto più il saggio d’interesse si avvicina a zero, quindi, ad esempio, discende all’1%, tanto più il capitale preso a prestito è posto sul medesimo piano del capitale di proprietà personale. Per tutto il tempo che il capitale monetario deve esistere come capitale monetario, esso deve essere di continuo prestato, e, precisamente, al saggio d’interesse esistente, supponiamo dell’1%, e sempre alla stessa classe dei capitalisti industriali o commercianti. Fino a che questi operano come capitalisti, la differenza fra colui che opera con capitale prestato e colui che opera con capitale proprio consiste soltanto nel fatto che l’uno deve pagare un interesse e l’altro no; l’uno intasca integralmente il profitto (p), l’altro p — i, il profitto meno l’interesse (i); quanto più (i) si avvicina a zero, tanto più p — i divine uguale a (p), quindi tanto più entrambi i capitali si troveranno al medesimo livello. L’uno deve rimborsare il capitale e di nuovo prenderlo a prestito, ma l’altro, per tutto il tempo che il suo capitale deve operare, deve ugualmente anticiparlo di continuo nel processo di produzione e non può disporne indipendentemente da questo processo. L’unica differenza evidente che rimane è che l’uno è il proprietario del suo capitale e l’altro non lo è. La questione che si pone ora è la seguente. Come avviene che questa suddivisione puramente quantitativa del profitto in profitto netto e interesse si trasforma in una suddivisione qualitativa? In altre parole come avviene che anche il capitalista, il quale impiega soltanto capitale proprio e non capitale preso a prestito, mette una parte del suo profitto lordo nella voce particolare dell’interesse e come tale lo calcola separatamente? E quindi il fatto che ogni capitale, che sia prestato o meno, si differenzia in se stesso come produttivo d'interesse, come apportatore di profitto netto? Si comprende subito che non ogni suddivisione casuale e quantitativa del profitto si trasforma in tal modo in una suddivisione qualitativa. Ad esempio, alcuni capitalisti industriali si associano nella gestione di una nuova impresa e si ripartiscono poi il profitto tra di loro in base ad accordi giuridicamente stabiliti. Altri gestiscono la loro impresa da soli, per conto proprio, senza soci. Questi ultimi non computano il loro profitto sotto due voci, una parte come profitto individuale, una parte come profitto di società per i soci che non esistono. Qui la ripartizione quantitativa non si trasforma in qualitativa. Tale trasformazione avviene là dove per caso il proprietario si compone di più persone giuridiche; non avviene in caso contrario. Per rispondere alla questione noi dobbiamo soffermarci ancora un istante sull’effettivo punto di partenza della formazione dell’interesse; ossia partire dall’ipotesi che il capitalista monetario e il capitalista produttivo stiano effettivamente l’uno di fronte all’altro, non soltanto come diverse persone giuridiche, ma come persone che hanno nel processo di riproduzione funzioni completamente diverse, o nelle cui mani il medesimo capitale percorre effettivamente un movimento duplice e sostanzialmente diverso. L’uno lo dà soltanto in prestito, l’altro lo impiega nella produzione. Per il capitalista produttivo, che lavora con capitale preso a prestito, il profitto lordo si suddivide in due parti, l’interesse, che egli deve pagare a chi gli ha fatto il prestito e l’eccedenza sull’interesse, che costituisce la propria quota di profitto. Se il saggio generale del profitto è dato, allora quest’ultima parte è determinata dal saggio dell’interesse; se il saggio dell’interesse è dato, è determinata dal saggio generale del profitto. Inoltre: qualunque possa essere, in ogni caso specifico, lo scarto fra il profitto lordo, ossia l’effettiva grandezza di valore del profitto complessivo, e il profitto medio, la parte che appartiene al capitalista operante è determinata dall’interesse, poiché (eccettuato il caso di particolari stipulazioni giuridiche) questo è fissato dal saggio generale dell’interesse e, supponiamo, preso anticipatamente, ossia prima che il processo di produzione cominci, prima quindi che sia ottenuto il profitto lordo. Abbiamo visto che il vero prodotto specifico del capitale è il plusvalore, ossia più precisamente il profitto. Ma per il capitalista che lavora con capitale preso a prestito, esso non è il profitto, ma il profitto meno l’interesse, ovvero la parte del profitto che gli rimane dopo il pagamento dell’interesse. Dunque questa parte del profitto gli appare necessariamente come prodotto del capitale, nella misura in cui questo funziona; e per lui effettivamente è così, poiché egli rappresenta unicamente il capitale in attività. Egli è la sua personificazione in quanto esso funziona ed esso funziona in quanto viene investito in modo che porti profitto, nell’industria o nel commercio e con esso, attraverso chi lo impiega, vengono intraprese quelle operazioni che sono richieste dai rami d’affari in cui di volta in volta è investito. In contrapposizione agli interessi sul profitto lordo che egli deve pagare a chi ha dato il prestito, la parte restante di profitto che ancora gli tocca assume dunque necessariamente la forma del profitto industriale o commerciale, o, per indicarlo con una espressione tedesca che li comprende entrambi, assume la figura del guadagno d’imprenditore. Se il profitto lordo è uguale al profitto medio, allora la grandezza di questo guadagno d’imprenditore è determinata esclusivamente dal saggio d’interesse. Se il profitto lordo si allontana dal profitto medio, allora la sua differenza dal profitto medio (detratto l’interesse da una parte e dall’altra) è determinata da tutte le circostanze che provocano, in una particolare sfera di produzione, una deviazione transitoria sia del saggio del profitto dal saggio generale del profitto, sia del profitto che un singolo capitalista fa in una determinata sfera dal profitto medio di questa particolare sfera. Ma si è visto che il saggio del profitto nell’ambito del processo di produzione stesso non dipende soltanto dal plusvalore, ma da molte altre circostanze: dai prezzi d'acquisto dei mezzi di produzione, dai metodi più produttivi della media, dall’economia del capitale costante, ecc. E, astraendo dal prezzo di produzione, dipende da particolari congiunture e, alla conclusione di ogni singolo affare, dalla maggiore o minore furberia e capacità del capitalista, se e in quale misura questi vende o compera al di sopra o al di sotto del prezzo di produzione, si impossessa quindi nel processo di circolazione di una parte maggiore o minore del plusvalore complessivo. Ma in ogni caso la ripartizione quantitativa del profitto lordo si trasforma qui in una ripartizione qualitativa e ciò tanto più in quanto la ripartizione quantitativa stessa dipende da quello che vi è da dividere, dal modo con cui il capitalista attivo amministra il capitale e quale profitto lordo esso gli apporta come capitale operante in quanto capitalista attivo. Si suppone qui che il capitalista operante non sia il proprietario del capitale. La proprietà del capitale si trova di fronte a lui rappresentata da chi lo ha dato in prestito, dal capitalista monetario. L’interesse che egli paga a quest’ultimo appare dunque come parte del profitto lordo che spetta alla proprietà del capitale in quanto tale. In contrasto con ciò la parte di profitto che tocca al capitalista attivo appare ora come guadagno d’imprenditore, proveniente esclusivamente dalle operazioni o dalle funzioni che egli compie con il capitale nel processo di riproduzione in particolare dalle funzioni che egli esercita come imprenditore nell’industria o nel commercio. Di fronte a lui l’interesse appare come semplice frutto della proprietà del capitale in sé, astratto dal processo di riproduzione del capitale dato che esso non «lavora», non opera; mentre il guadagno d’imprenditore gli appare come frutto esclusivo delle funzioni che egli compie con il capitale, come frutto del movimento e del processo del capitale, di un processo che gli appare unicamente come sua propria attività, in contrasto con l’inattività, la non partecipazione, del capitalista monetario al processo di produzione. Questa distinzione qualitativa fra le due parti del profitto lordo, per cui · l’interesse è frutto del capitale in sé, della proprietà di capitale, indipendentemente dal processo di produzione, · il guadagno d’imprenditore è frutto del capitale in funzione, il quale opera nel processo di produzione e quindi costituisce la parte attiva di colui che impiegando il capitale lo rappresenta nel processo di riproduzione; questa distinzione qualitativa non è assolutamente una mera opinione soggettiva del capitalista monetario da un lato e del capitalista industriale dall’altro. Essa si basa su fatti oggettivi, in quanto: · l’interesse fluisce al capitalista monetario, ossia a colui che ha prestato e che è semplice proprietario del capitale e che rispetto al processo di produzione e al di fuori del processo di produzione rappresenta la semplice proprietà di capitale; · il guadagno d’imprenditore fluisce al capitalista che è semplicemente operante, che non è proprietario del capitale. Tanto per il capitalista industriale, nella misura in cui egli lavora con capitale preso a prestito, quanto per il capitalista monetario, nella misura in cui egli stesso non impiega il suo capitale, la ripartizione puramente quantitativa del profitto lordo fra due diverse persone che hanno entrambe dei titoli giuridici diversi sul medesimo capitale e quindi sul profitto da esso prodotto, si trasforma così in una ripartizione qualitativa. Una parte del profitto si presenta ora come frutto del capitale che gli spetta in sé e per sé sotto una forma determinata, come interesse; l’altra parte si presenta come frutto specifico del capitale in una forma opposta e quindi come guadagno d’imprenditore; l’una come semplice frutto della proprietà di capitale, l’altra come frutto del semplice operare con il capitale, come frutto del capitale operante nel suo processo o delle funzioni che il capitalista attivo esercita. Questa cristallizzazione ed autonomizzazione di entrambe le parti del profitto lordo l’una rispetto all’altra, come se esse provenissero da due fonti sostanzialmente diverse, devono imporsi per l’insieme della classe capitalistica e per il capitale complessivo. E non fa differenza che il capitale impiegato dal capitalista attivo sia o non sia preso a prestito o che il capitale appartenente al capitalista monetario sia impiegato da lui stesso oppure no. Il profitto di ogni capitale, quindi anche il profitto medio fondato sul livellamento dei capitali tra di loro, si suddivide o si scompone in due parti qualitativamente diverse, autonome l’una rispetto all’altra ed indipendenti l’una dall’altra, interesse e guadagno d’imprenditore, che sono entrambi regolati da leggi particolari. Il capitalista che lavora con capitale proprio, al pari di quello che lavora con capitale preso a prestito, suddivide il suo profitto lordo in: · interesse, che spetta a lui come proprietario, come prestatore di capitale a se stesso, · guadagno d’imprenditore, che gli spetta in quanto capitalista attivo, operante. Per questa forma qualitativa di ripartizione è perciò indifferente che il capitalista debba effettivamente ripartire un profitto con un altro oppure no. Chi impiega del capitale, anche se lavora con capitale proprio, si suddivide in due persone, il semplice proprietario del capitale e colui che impiega il capitale; il suo stesso capitale, rapportato alle categorie di profitto che esso produce, si suddivide in: · proprietà di capitale, capitale al di fuori del processo di produzione, che produce interesse per se stesso, · capitale nel processo di produzione che, in quanto opera nel suo processo, produce guadagno d’imprenditore. L’interesse si consolida dunque a tal punto che esso non si presenta più come una ripartizione del profitto lordo indifferente alla produzione, che avviene solo casualmente quando l’industriale lavora con capitale altrui. Anche se egli lavora con capitale proprio, il suo profitto si suddivide in interesse e guadagno d’imprenditore. Con ciò la semplice ripartizione quantitativa diventa qualitativa; essa ha luogo indipendentemente dalla circostanza casuale che l’industriale sia o non sia il proprietario del suo capitale. Non si tratta solo di quote di profitto distribuite a diverse persone, ma di due diverse categorie di profitto che stanno in diverso rapporto con il capitale, quindi in un rapporto con le diverse funzioni del capitale. Non è ora difficile spiegare le ragioni per cui, una volta che questa ripartizione del profitto in interesse e guadagno d’imprenditore è diventata qualitativa, essa conserva questo carattere di una ripartizione qualitativa per il capitale complessivo e per l’intera classe dei capitalisti. Primo: ciò consegue già dalla semplice circostanza empirica che la maggior parte dei capitalisti industriali, quantunque in proporzioni numeriche diverse, lavora con capitale proprio e con capitale preso a prestito e che il rapporto fra il capitale proprio e quello preso a prestito cambia nei diversi periodi. Secondo: la trasformazione di una parte del profitto lordo nella forma d’interesse, trasforma l’altra sua parte in guadagno d’imprenditore. Quest’ultimo non è in realtà altro che la forma opposta che assume l’eccedenza del profitto lordo sull’interesse, non appena questo esiste come categoria particolare. Tutta quanta la ricerca sul modo in cui il profitto lordo si differenzia in interesse e guadagno d’imprenditore, si risolve unicamente nella ricerca sul come una parte del profitto lordo si cristallizza in generale come interesse e prende una forma autonoma. Ora, storicamente, il capitale produttivo d’interesse è esistito come forma definita, tradizionale, e di conseguenza anche l’interesse è esistito come sottoforma definita del plusvalore prodotto dal capitale molto prima che esistessero il modo capitalistico di produzione e le sue corrispondenti concezioni di capitale e di profitto. È per questa ragione che ancora oggi nella concezione popolare il capitale monetario, il capitale produttivo d’interesse, è considerato come il capitale in sé, il capitale per eccellenza. È per questa ragione, d’altro lato, che fino ai tempi di Massie ha prevalso l’idea che è il denaro, in quanto tale, ciò che viene pagato con l’interesse. Il fatto che il capitale prestato produca interesse, che esso sia effettivamente impiegato come capitale oppure non lo sia — anche quando esso è preso in prestito soltanto a uso del consumo — rafforza l’idea dell’autonomia di questa forma del capitale. La migliore dimostrazione che nei primi periodi del modo di produzione capitalistico l’interesse e il capitale produttivo d’interesse si presentano come aventi un’esistenza autonoma rispetto al profitto ed al capitale industriale, si trova nel fatto che solo verso la metà del XVIII sec. è stato scoperto (da Massie e dopo di lui da Hume) che l’interesse è una semplice parte del profitto lordo e che in genere ci sia stato bisogno di una tale scoperta. Terzo: che il capitalista industriale lavori con il suo proprio capitale o con capitale preso a prestito, non cambia per nulla il fatto che la classe dei capitalisti monetari gli sta di fronte come una classe particolare di capitalisti, il capitale monetario come una specie autonoma del capitale e l’interesse come la forma autonoma del plusvalore corrispondente a questo specifico capitale. Dal punto di vista qualitativo, l’interesse è il plusvalore fornito dalla semplice proprietà del capitale, prodotto dal capitale in sé, sebbene il suo proprietario rimanga al di fuori del processo di produzione; che è prodotto quindi dal capitale separato dal suo processo. Dal punto di vista quantitativo, la parte del profitto che costituisce l’interesse non sembra derivare dal capitale industriale e commerciale in quanto tale, bensì dal capitale monetario e il saggio di questa parte del plusvalore, il saggio o tasso dell’interesse, conferma questo rapporto. Infatti, in primo luogo, il saggio dell’interesse — nonostante dipenda dal saggio generale del profitto — viene determinato in modo autonomo, e, in secondo luogo esso, come il prezzo di mercato delle merci, nonostante tutti i suoi cambiamenti, appare rispetto all’inafferrabile saggio del profitto come un rapporto sempre dato, solido, uniforme, tangibile. Se tutto il capitale si trovasse fra le mani dei capitalisti industriali, allora non esisterebbe più né interesse, né saggio dell’interesse. La forma autonoma che assume la ripartizione quantitativa del profitto lordo, crea la ripartizione qualitativa. Se si confronta il capitalista industriale con il capitalista monetario, la sola differenza che lo contraddistingue consiste nel guadagno d’imprenditore, come eccedenza del profitto lordo sopra l’interesse medio, che grazie al saggio dell’interesse appare come una grandezza empiricamente data. Se lo si confronta dall’altro lato con il capitalista industriale che lavora con il capitale proprio invece che con capitale preso a prestito, questi si distingue da lui soltanto come capitalista monetario, in quanto intasca egli stesso l’interesse invece di pagarlo ad altri. Da ambedue i lati la parte del profitto lordo distinto dall’interesse gli appare come guadagno d’imprenditore e l’interesse stesso come un plusvalore che il capitale produce in sé e per sé, e che perciò produrrebbe anche senza un impiego produttivo. In pratica per il singolo capitalista ciò è esatto. Sia che il suo capitale esista già come capitale al punto di partenza o che debba prima essere trasformato in capitale monetario, il capitalista può scegliere se darlo a prestito come capitale produttivo d’interesse o se valorizzarlo egli stesso come capitale produttivo. Ma, considerato da un punto di vista generale, ossia applicato a tutto quanto il capitale della società, come fanno alcuni economisti volgari, che giungono fino a farne la ragione del profitto, tutto ciò è naturalmente assurdo. La trasformazione del capitale complessivo in capitale monetario, senza che vi sia della gente che comperi e valorizzi i mezzi di produzione nella cui forma è presente il capitale complessivo, a parte la frazione relativamente piccola dello stesso che si trova nella forma di denaro — tutto ciò è naturalmente assurdo. Questa concezione comprende una assurdità ancora più grande : quella che ritiene che entro il sistema capitalistico di produzione il capitale produrrebbe interesse senza operare come capitale produttivo, ossia senza creare plusvalore, di cui l’interesse è solo una parte; ciò significa che il modo di produzione capitalistico percorrerebbe il suo corso senza la produzione capitalistica. Qualora una parte molto grande di capitalisti decidesse di trasformare il proprio capitale in capitale monetario, la conseguenza che ne deriverebbe sarebbe un’enorme svalorizzazione del capitale monetario e una caduta straordinaria del saggio d’interesse; molti verrebbero immediatamente a trovarsi nell’impossibilità di vivere dei loro interessi e sarebbero quindi verrebbero costretti a ritrasformarsi in capitalisti industriali. Ma, come si è detto, per il capitalista individuale ciò corrisponde alla realtà. Egli quindi, anche quando lavora con il proprio capitale, necessariamente considera la parte del suo profitto medio che è uguale all’interesse medio, come frutto del suo capitale in quanto tale, indipendentemente dal processo di produzione, e, in contrapposizione a questa parte resa autonoma sotto forma d’interesse, considera l’eccedenza del profitto lordo come semplice guadagno d’imprenditore. Quarto: (Lacuna nel manoscritto [F.E.]). Si è visto che la parte del profitto che il capitalista operante deve pagare a chi è semplice proprietario del capitale preso a prestito, si trasforma, nella forma autonoma, in una parte del profitto che ogni capitale in quanto tale, sia esso preso a prestito oppure no, produce sotto il nome d’interesse. La grandezza di questa parte dipende dall’entità del saggio medio dell’interesse. La sua origine si manifesta soltanto nel fatto che il capitalista operante, in quanto è proprietario del suo capitale, non concorre, o, almeno, non concorre attivamente alla determinazione del saggio dell’interesse. La ripartizione puramente quantitativa del profitto fra due persone che hanno diverso titolo giuridico su di esso, si è trasformata in una ripartizione qualitativa che sembra derivare dalla natura stessa del capitale e del profitto. Infatti, come si è visto, non appena una parte del profitto assume in generale la forma d’interesse, la differenza fra il profitto medio e l’interesse, ossia la parte del profitto eccedente l’interesse, diventa una forma contrapposta all’interesse: il guadagno d’imprenditore. Ambedue queste forme, interesse e guadagno d’imprenditore esistono soltanto nella loro contrapposizione. Entrambe, quindi, non sono in rapporto col plusvalore, di cui esse sono soltanto parti, ma sono in rapporto l’una all’altra. Poiché una delle parti del profitto si trasforma in interesse, l’altra parte appare come guadagno d’imprenditore. Per profitto noi intendiamo qui sempre il profitto medio, poiché le oscillazioni sia del profitto individuale, sia del profitto in varie sfere di produzione — quindi le variazioni fluttuanti qua e là nella ripartizione del profitto medio o del plusvalore in seguito all’azione della concorrenza e ad altre circostanze — qui non ci interessano assolutamente. Ciò vale in generale per tutta l’analisi in questione. L’interesse è qui dunque il profitto netto, come Ramsay lo definisce, che la proprietà del capitale come tale rende sia a colui che semplicemente presta e che rimane al di fuori del processo di riproduzione, sia al proprietario che impiega egli stesso il suo capitale in modo produttivo. Ma anche a quest’ultimo esso rende un profitto netto, non in quanto egli è capitalista operante, ma in quanto è capitalista monetario, in quanto egli presta il proprio capitale, come capitale produttivo d’interesse, a se stesso come capitalista operante. Precisamente come la trasformazione in capitale di denaro, e, in genere, di valore, è il risultato costante del processo capitalistico di produzione, così la sua esistenza come capitale ne è la premessa costante. In virtù della sua proprietà di trasformarsi in mezzi di produzione, il capitale esige di continuo lavoro non pagato e trasforma il processo di produzione e di circolazione delle merci nella produzione di plusvalore per il suo proprietario. L’interesse esprime dunque semplicemente il fatto che valore in generale — lavoro oggettivato nella sua forma generalmente sociale — ossia valore che nel processo di produzione propriamente detto assume la forma di mezzi di produzione, si contrappone come potenza autonoma alla forza-lavoro viva ed è il mezzo di appropriarsi di lavoro non pagato; esso è questa potenza in quanto si contrappone all’operaio come proprietà altrui. Tuttavia nella forma dell’interesse questo contrapporsi al lavoro salariato non si vede più dato che il capitale produttivo d’interesse si trova di fronte, in quanto tale, non il lavoro salariato, ma il capitale operante; il capitalista che dà in prestito si contrappone, come tale, direttamente al capitalista che effettivamente opera nel processo di riproduzione, e non all’operaio salariato che è espropriato dei mezzi di produzione proprio a causa della produzione capitalistica. Il capitale produttivo d’interesse è il capitale come proprietà contrapposto al capitale come funzione. Ma là dove il capitale non è in funzione, non sfrutta i lavoratori e non viene in contrasto con il lavoro. D’altro lato il guadagno d’imprenditore non è in antitesi con il lavoro salariato ma soltanto con l’interesse. Primo: essendo dato il profitto medio, il saggio del guadagno d’imprenditore non è determinato dal salario, ma dal saggio dell’interesse. Esso è alto o basso in ragione inversa di quest’ultimo. Secondo: il capitalista operante fonda il suo diritto al guadagno d’imprenditore, quindi il guadagno d’imprenditore stesso, non sulla proprietà del capitale ma sulla funzione del capitale in contrasto con la forma determinata nella quale esso esiste unicamente come proprietà inerte. Questo contrasto si manifesta immediatamente non appena il capitalista opera con capitale preso a prestito e quindi interesse e guadagno d’imprenditore toccano a due diverse persone. Il guadagno d’imprenditore deriva dalla funzione del capitale nel processo di riproduzione, e, di conseguenza, dalle operazioni, dall’attività con cui il capitalista operante media queste funzioni del capitale industriale e commerciale. Ma essere rappresentante del capitale operante non è un fatto che comporti poco impegno e fatica come l’essere rappresentante del capitale produttivo d’interesse. Sulla base della produzione capitalistica il capitalista dirige il processo di produzione come pure il processo di circolazione. Lo sfruttamento del lavoro produttivo costa sforzo, sia che se ne incarichi lui stesso sia che ne lasci l’incombenza ad altri. In contrasto con l’interesse, il suo guadagno d’imprenditore gli appare quindi come indipendente dalla proprietà di capitale,ma piuttosto come risultato delle funzioni che esso esercita come non proprietario, come lavoratore. Nel suo cervello si sviluppa quindi necessariamente l’idea che il suo guadagno d’imprenditore — ben lungi dall’essere in contrasto con il lavoro salariato e dal rappresentare unicamente lavoro altrui non pagato — è al contrario un salario, un salario di sorveglianza, wages of superintendence of labour, un salario più elevato di quello del lavoratore comune perché: 1) il suo lavoro è più complicato, 2) il salario egli se lo paga da sé. Il fatto che la sua funzione di capitalista consista nel produrre plusvalore ossia lavoro non pagato, e di produrlo nelle condizioni più economiche, viene completamente dimenticato a causa della contraddizione per cui · l’interesse tocca al capitalista anche quando non esercita nessuna funzione di capitalista, ma è semplice proprietario del capitale; · e invece il guadagno d’imprenditore tocca al capitalista operante, anche se egli non è proprietario del capitale con cui opera. A causa della forma antitetica delle due parti in cui si suddivide il profitto, quindi il plusvalore, si dimentica che entrambe sono semplicemente parti del plusvalore e che la sua ripartizione non può mutare la sua natura, la sua origine e le sue condizioni di esistenza. Nel processo di riproduzione il capitalista operante rappresenta di fronte agli operai salariati il capitale quale proprietà altrui e il capitalista monetario, in quanto rappresentato dal capitalista operante, partecipa allo sfruttamento del lavoro. Il fatto per cui il capitalista attivo, in quanto rappresentante dei mezzi di produzione, possa esercitare nei confronti degli operai la funzione di farli lavorare per lui gli o di far funzionare i mezzi di produzione come capitale, viene dimenticato a causa del contrasto fra la funzione del capitale nel processo di riproduzione e la semplice proprietà del capitale al di fuori del processo di riproduzione. In realtà nella forma che assumono le due parti del profitto, ossia del plusvalore, quella di interesse e quella di guadagno d’imprenditore, non vi è espresso alcun rapporto col lavoro, perché questo rapporto esiste soltanto fra il lavoro ed il profitto o piuttosto il plusvalore, come somma, insieme, unità di queste due parti. La proporzione in cui il profitto è suddiviso e i diversi titoli giuridici in base ai quali questa suddivisione avviene, presuppongono il profitto come già presente, presuppongono quindi la sua esistenza. Se dunque il capitalista è proprietario del capitale con cui opera, allora egli intasca tutto il profitto o il plusvalore; per l’operaio è assolutamente indifferente se egli lo intasca tutto o se ne deve pagare una parte a un terzo come proprietario giuridico. Le ragioni della suddivisione del profitto tra due specie di capitalisti si trasformano così, sottomano, nelle ragioni di esistenza del profitto da ripartire, ossia del plusvalore, che, indipendentemente da tutte le ripartizioni ulteriori, ritira il capitale in quanto tale dal processo di riproduzione. Da dove trae origine il fatto che l’interesse si contrapponga al guadagno d’imprenditore e il guadagno d’imprenditore all’interesse e che inoltre essi si oppongano l’uno all’altro ma non al lavoro? Sulla forma antitetica di entrambe le parti costituenti il profitto! Ma il profitto viene prodotto prima che venga intrapresa questa sua ripartizione e prima che se ne possa parlare. Il capitale produttivo d’interesse agisce in quanto tale nella misura in cui il capitale prestato si trasforma effettivamente in capitale e produce un’eccedenza di cui l’interesse è una parte. Soltanto questo non impedisce che in lui sorga, indipendentemente dal processo di produzione, la proprietà di produrre interesse. Anche la forza - lavoro manifesta la sua forza creatrice di valore soltanto se essa è impiegata e realizzata nel processo lavorativo, ma ciò non esclude che essa abbia già in se stessa, potenzialmente, come patrimonio, il potere di creare valore, potere che non le deriva dal processo, ma al contrario ne è piuttosto la condizione. Essa viene acquistata appunto come capacità di creare valore. Uno può comperarla senza farla lavorare produttivamente, ad esempio per scopi puramente personali, servizio ecc. Lo stesso si verifica per il capitale. E’ affare di chi prende a prestito se lo impiega come capitale e realizza quindi realmente la facoltà che esso ha di produrre plusvalore. Quanto egli paga è in entrambi i casi il plusvalore che è contenuto di per sé, potenzialmente, nella merce capitale. Approfondiamo ora l’esame del guadagno d’imprenditore. Essendo fissato l’elemento del carattere sociale specifico del capitale nel modo di produzione capitalistico — la proprietà di capitale, che possiede la prerogativa di comandare sul lavoro altrui — e presentandosi quindi l’interesse come la parte di plusvalore che il capitale produce sotto questo aspetto, l’altra parte del plusvalore — il guadagno d’imprenditore — non sembra derivare dal capitale in quanto capitale, ma dal processo di produzione, separato dal suo specifico carattere sociale, che ha già ricevuto nell’espressione « interesse di capitale» la sua particolare forma di esistenza. Ma, separato dal capitale, il processo di produzione è processo lavorativo in generale. Il capitalista industriale, in quanto soggetto distinto dal proprietario di capitale, non appare quindi come capitale operante, ma come un funzionario, come semplice depositario del processo lavorativo in generale, come lavoratore e precisamente come lavoratore salariato. L’interesse in se stesso esprime proprio l’esistenza delle condizioni di lavoro come capitale, cioè socialmente contrapposte al lavoro e trasformate in potenze personali di fronte al lavoro e al di sopra del lavoro. Esso rappresenta la semplice proprietà di capitale in quanto mezzo per appropriarsi prodotti del lavoro altrui. Ma questo carattere del capitale viene rappresentato come qualche cosa che gli spetta al di fuori del processo di produzione, e che, per nessun motivo, è il risultato dello specifico carattere capitalistico di questo stesso processo di produzione. Questa proprietà del capitale non viene rappresentata in opposizione diretta al lavoro, ma al contrario, senza rapporto con il lavoro, come semplice rapporto tra un capitalista e l’altro, come una determinazione esteriore e indifferente rispetto al rapporto tra il capitale e il lavoro stesso. L’interesse, dunque, è la particolare figura del profitto in cui il carattere antagonistico del capitale si dà un’espressione indipendente e se la dà in modo che questo antagonismo vi è completamente cancellato e del tutto rimosso da esso. L’interesse è un rapporto fra due capitalisti, non fra capitalista e lavoratore. D’altro lato questa forma dell’interesse dà all’altra parte del profitto la forma qualitativa di guadagno d’imprenditore, e poi di salario di sorveglianza. Le particolari funzioni che il capitalista deve svolgere in questa sua prerogativa e che sono di sua specifica competenza a differenza ed in contrapposizione con gli operai, vengono presentate come semplici funzioni di lavoro. Egli crea plusvalore non perché lavora come capitalista ma perché, indipendentemente dalla sua qualità di capitalista, anche egli lavora. Perciò questa parte del plusvalore non è più plusvalore, ma il suo contrario, l’equivalente del lavoro compiuto. Poiché il carattere estraniato del capitale, il suo contrapporsi al lavoro, viene trasferito al di fuori dell’effettivo processo di sfruttamento, precisamente nel capitale produttivo d’interesse, allora questo stesso processo di produzione appare come un semplice processo lavorativo, dove il capitalista operante compie semplicemente un lavoro diverso dall’operaio. Così che il lavoro consistente nello sfruttare ed il lavoro sfruttato sono entrambi identici in quanto lavoro. Il lavoro consistente nello sfruttare è lavoro allo stesso modo come il lavoro che viene sfruttato. L’interesse diviene la forma sociale del capitale espresso in una forma neutrale ed indifferente; il guadagno d’imprenditore diviene la funzione economica del capitale, spogliato del carattere determinato, capitalistico, di questa funzione. Nella coscienza del capitalista succede ciò che si è indicato nella sezione II di questo Libro* a proposito delle basi di compensazione operanti nel livellamento del profitto medio. Queste basi di compensazione che intervengono in modo determinante nella ripartizione del plusvalore, si tramutano, nel modo di concepire capitalistico, in motivi originari e (soggettivamente) giustificativi del profitto stesso. La concezione del guadagno d’imprenditore come salario di sorveglianza del lavoro, che deriva dalla contrapposizione tra guadagno d’imprenditore e interesse, trova ulteriore conferma nel fatto che in realtà una parte del profitto può venire isolata ed è effettivamente isolata come salario, o meglio, viceversa, che sulla base del modo di produzione capitalistico una parte del salario appare come una parte costitutiva integrante del profitto. Questa parte, come A. Smith ha giustamente messo in rilievo, si presenta pura, indipendente e completamente separata da un lato dal profitto (come somma di interesse e guadagno d’imprenditore), dall’altro dalla parte del profitto che rimane dopo che l’interesse è stato detratto, nel cosiddetto guadagno d’imprenditore e nello stipendio del dirigente in quei rami d’attività la cui estensione ecc, permette una divisione del lavoro sufficiente a consentire un particolare salario per un dirigente. Il lavoro di sovrintendenza e di direzione diventa indispensabile allorché il diretto processo di produzione assume la forma di un processo socialmente combinato e non si presenta come lavoro isolato del produttore autonomo. Esso presenta un duplice aspetto. Da un lato tutti i lavori in cui molti individui cooperano impongono la coesione e l’unità del processo sotto una volontà che comanda e nello svolgimento di funzioni che riguardano non i lavori parziali, ma l’attività complessiva dell’officina, così come avviene per il direttore di un’orchestra. È questo un lavoro produttivo che deve essere eseguito in ogni modo di produzione combinato. D’altro lato, — astraendo completamente dal ramo commerciale — questo lavoro di sovrintendenza nasce necessariamente in tutti i sistemi di produzione che hanno per base l’antagonismo fra l’operaio, come produttore immediato, ed il proprietario dei mezzi di produzione. Tanto più forte è questo antagonismo, tanto maggiore è l’importanza assume questo lavoro di sovrintendenza. Esso raggiunge il suo massimo nel sistema schiavistico. Ma anche nel modo di produzione capitalistico è indispensabile perché qui il processo di produzione è al tempo stesso processo di consumo della forza-lavoro da parte del capitalista. Esattamente come negli Stati dispotici in cui il lavoro di sorveglianza e l’ingerenza generale del governo includono tutti e due i campi: sia lo svolgimento degli affari pubblici propri di ogni comunità, che le funzioni specifiche derivanti dall’antagonismo fra il governo e la massa del popolazione. Presso gli scrittori antichi, che avevano sotto gli occhi il sistema schiavistico, entrambi gli aspetti del lavoro di sorveglianza si trovano indissolubilmente riuniti nella teoria, così come lo erano nella pratica, proprio come presso i moderni economisti che considerano il modo di produzione capitalistico come il modo di produzione assoluto. D’altra parte, come io subito dimostrerò in un esempio, gli apologeti del sistema schiavistico moderno sanno servirsi del lavoro di sorveglianza come motivo per giustificare la schiavitù, allo stesso modo che gli altri economisti se ne servono per giustificare il sistema di lavoro salariato. [........] Aristotele dice che il potere, tanto nel campo politico che in quello economico, impone a quelli che lo detengono le funzioni del comando; nel campo economico l’esercizio di questo comando impone di saper sfruttare la forza-lavoro, e, aggiunge, che non conviene attribuire grande importanza a questo lavoro di sorveglianza perché il padrone, non appena è abbastanza ricco, lascia «l’onore» di questa fatica a un sorvegliante. Il lavoro di direzione e di sovrintendenza, in quanto non è una funzione particolare proveniente dalla natura di ogni lavoro sociale combinato, ma scaturisce dall’antagonismo fra il proprietario dei mezzi di produzione e il proprietario della forza-lavoro pura e semplice — sia che quest’ultima, come nel sistema schiavistico, venga acquistata con il lavoratore stesso, o che il lavoratore stesso venda la sua forza-lavoro e il processo di produzione appaia perciò al tempo stesso come il processo di consumo del suo lavoro da parte del capitale —, questa funzione che deriva dall’asservimento del produttore immediato è stata invocata troppo spesso a giustificazione di questo rapporto, e lo sfruttamento, ovvero l’appropriazione di lavoro altrui non pagato, è stato allo stesso tempo troppo spesso presentato come il salario dovuto al proprietario del capitale. Nessuno ha espresso meglio questo concetto di quel che ha fatto un certo avvocato O’Conor, difensore della schiavitù negli Stati Uniti, durante un meeting organizzato a New York, il 19 dicembre 1859, sotto la parola d’ordine: «Giustizia per il Sud». — «Ebbene, signori», disse fra grandi applausi, «la natura stessa ha destinato il negro a questa condizione di schiavitù; egli ha la forza e la robustezza per lavorare; ma la natura, che gli ha dato questa forza, gli ha negato sia l’intelligenza per governare che la volontà di lavorare (applausi). Entrambe queste qualità gli sono negate! E proprio la natura che gli ha negato la volontà di lavorare, gli ha dato un padrone per obbligarlo a lavorare e farne, nel clima per cui è stato creato, un servitore utile sia per se stesso che per il signore che lo comanda. Io affermo che non è un’ingiustizia lasciare il negro nella condizione in cui lo ha posto la natura, dargli un padrone che lo diriga; e non lo si deruba di nessuno dei suoi diritti quando lo si costringe a lavorare e a fornire al suo padrone un giusto indennizzo per il lavoro e per l’intelligenza che egli, il padrone, impiega per governarlo e per renderlo utile a se stesso ed alla società» (New York Tribune, 20 dicembre 1859, p. 5). Ora anche l’operaio salariato come lo schiavo deve avere un padrone che lo faccia lavorare e lo diriga. Premesso questo rapporto tra padrone e servo, è nell’ordine delle cose che l’operaio salariato venga costretto a produrre il salario per il proprio lavoro ed in più il salario di sorveglianza, un compenso per il lavoro di direzione e di sorveglianza «ed a fornire al suo padrone un giusto indennizzo per il lavoro e l’intelligenza che egli impiega per governarlo e per renderlo utile a se stesso ed alla società». Il lavoro di sovrintendenza e di direzione, in quanto scaturisce dal carattere antagonistico, dal dominio che ha il capitale sul lavoro, è comune quindi a tutti i modi di produzione che si fondano sull’antagonismo di classe e anche nel sistema capitalistico è collegato direttamente ed indissolubilmente con le funzioni produttive che ogni lavoro sociale combinato impone ai singoli individui come lavoro particolare. Il salario di un epitropos o di un régisseur (amministratore, colui che governa un podere) come si chiamava nella Francia feudale, è completamente distinto dal profitto e assume anche la forma di salario per lavoro qualificato non appena l’impresa è esercitata su una scala sufficientemente grande per pagare un tale dirigente (manager), quantunque i nostri capitalisti industriali siano ben lungi «dall’occuparsi di affari di Stato o di filosofia». Il fatto che «l’anima del nostro sistema industriale» non siano i capitalisti industriali, ma i managers industriali, è già stato messo in rilievo dal sig. Ure. Per quanto riguarda la parte commerciale dell’impresa, tutto ciò che era necessario dire in proposito, è già stato detto nella sezione precedente. La produzione capitalistica stessa ha fatto sì che il lavoro di direzione, completamente distinto dalla proprietà di capitale, vada per conto suo. È diventato dunque inutile che questo lavoro di direzione venga esercitato dal capitalista. Un direttore d’orchestra non ha affatto bisogno di essere proprietario degli strumenti dell’orchestra, come pure non appartiene alla sua funzione di direttore di occuparsi in qualsiasi modo del «salario» degli altri musicisti. Le fabbriche cooperative forniscono la prova che il capitalista, in quanto funzionario della produzione, è diventato superfluo, proprio come egli stesso, pervenuto al grado più elevato della sua cultura, stima superfluo il proprietario terriero. Dato che il lavoro del capitalista non deriva dal processo della produzione inteso come puramente capitalistico, esso [non] cessa col capitale stesso. In quanto esso non si limita alla funzione di sfruttare il lavoro altrui; in quanto esso proviene dalla forma del lavoro come lavoro sociale, dalla combinazione e dalla cooperazione di molti in vista di un risultato comune, esso è del tutto indipendente dal capitale, al pari di questa stessa forma, non appena essa spezzi l’involucro capitalistico. Dire che questo lavoro è necessario come lavoro capitalistico, come funzione del capitalista, non significa che l’economista volgare non possa rappresentarsi le forme che si sono sviluppate in seno al modo di produzione capitalistico quando esse si sono separate e liberate dal loro carattere capitalistico antagonistico. Il capitalista industriale è, rispetto al capitalista monetario, un lavoratore, ma un lavoratore in quanto capitalista, ossia in quanto sfruttatore di lavoro altrui. Il salario che egli domanda e riceve per questo lavoro corrisponde esattamente alla quantità di lavoro altrui che egli si è appropriato e dipende direttamente, in quanto egli si sottomette alla necessaria fatica dello sfruttamento, dal grado di sfruttamento di questo lavoro e non dal grado dello sforzo che gli costa questo sfruttamento e che egli, con un pagamento moderato, può riversare su di un dirigente. Dopo ogni crisi si può vedere nell’ambito delle fabbriche inglesi un buon numero di ex fabbricanti che sovrintendono per un salario moderato le fabbriche di cui essi erano precedentemente proprietari in veste di direttori dei nuovi proprietari, che sono spesso i loro creditori. Il salario di amministrazione sia per il dirigente commerciale che per quello industriale, appare completamente distinto dal guadagno d’imprenditore, tanto nelle fabbriche cooperative appartenenti ai lavoratori, quanto nelle società per azioni capitalistiche. La separazione tra salario di amministrazione e guadagno d’imprenditore, che di solito appare casuale, qui è costante. Nella fabbrica cooperativa il carattere antagonistico del lavoro di sorveglianza è soppresso perché il dirigente è pagato dagli operai, invece di rappresentare, di fronte ad essi, il capitale. Le società per azioni, che si sono sviluppate con il sistema creditizio, hanno in generale la tendenza a separare sempre più questo lavoro di amministrazione, in quanto funzione, dalla proprietà del capitale, sia esso di proprietà personale, oppure preso in prestito; precisamente come con lo sviluppo della società borghese le funzioni giudiziarie e amministrative si separano dalla proprietà terriera, della quale, nei tempi feudali, esse erano attributo. Poiché da un lato al semplice proprietario del capitale, al capitalista monetario, si oppone il capitalista operante e con lo sviluppo del credito questo stesso capitale monetario assume un carattere sociale: si concentra nelle banche e da queste e non più dai suoi proprietari immediati, viene dato a prestito; poiché d’altro lato il semplice dirigente, che non possiede il capitale sotto alcun titolo, né a titolo di prestito né altrimenti, esercita tutte le funzioni effettive che competono al capitalista operante in quanto tale, rimane unicamente il funzionario ne deriva che il capitalista esce dal processo di produzione come personaggio superfluo. Dai rendiconti pubblicati dalle fabbriche cooperative in Inghilterra si vede che — detratto il salario del dirigente, che costituisce una parte del capitale variabile speso, proprio come il salario degli altri operai — il profitto era più elevato del profitto medio, sebbene queste società pagassero talvolta un interesse più elevato dei fabbricanti privati. La causa del profitto più elevato era in tutti questi casi da ricercare in una maggiore economia nell’impiego del capitale costante. Ma ciò che più ci interessa è che l’interesse medio (= interesse + guadagno d’imprenditore) si presenta di fatto e con evidenza come una grandezza completamente indipendente dal salario di amministrazione. Poiché in questo caso il profitto era maggiore del profitto medio, anche il guadagno d’imprenditore era maggiore del solito. La stessa cosa si verifica in alcune società capitalistiche per azioni, ad esempio le banche per azioni [....]. La confusione tra guadagno d’imprenditore e salario di sorveglianza o di amministrazione è derivata originariamente dalla forma antagonistica che assume, rispetto all’interesse, l’eccedenza del profitto sull’interesse. Essa è stata in seguito sviluppata nella apologetica intenzione di non rappresentare il profitto come plusvalore, ossia come lavoro non pagato, ma come salario del capitalista stesso per il lavoro fatto. A ciò si contrapposero i socialisti rivendicando che il profitto fosse ridotto in pratica a quanto esso pretendeva di essere in teoria, cioè al semplice salario di sorveglianza. E questa rivendicazione veniva a contrapporsi alle belle enunciazioni teoriche in modo tanto più sgradita in quanto da un lato questo salario di sorveglianza, con la formazione di una classe numerosa di dirigenti industriali e commerciali, finiva per trovare il suo livello determinato ed il suo determinato prezzo di mercato, come qualunque altro salario di lavoro; e, d’altro lato, sempre più diminuiva, come ogni altro salario per lavoro qualificato, in seguito alla evoluzione generale che riduce i costi di produzione della forza- lavoro specializzata. Lo sviluppo della cooperazione da parte degli operai e delle società per azioni da parte della borghesia fa svanire anche l’ultimo pretesto invocato per confondere il guadagno d’imprenditore con il salario di amministrazione ed il profitto apparve anche in pratica quello che innegabilmente era in teoria, cioè semplice plusvalore, valore per cui non è pagato equivalente alcuno, lavoro non pagato, realizzato; così che il capitalista operante sfrutta effettivamente il lavoro e il frutto del suo sfruttamento, quando egli lavora con capitale preso a prestito, si suddivide in interesse e guadagno d’imprenditore, eccedenza di profitto sull’interesse. Nelle società per azioni, sulla base della produzione capitalistica, si sviluppa un nuovo imbroglio per quanto riguarda il salario di amministrazione, poiché accanto e al di sopra del dirigente effettivo si presentano una quantità di consiglieri di amministrazione e di controllo, per i quali in realtà amministrazione e controllo diventano semplice pretesto per depredare gli azionisti e arricchire se stessi. Le discussioni davanti al tribunale dei fallimenti dimostrano che questo salario di sorveglianza è generalmente in ragione inversa alla sorveglianza effettivamente esercitata da questi direttori pura mente nominali. |
AVVERTENZA PER IL LETTORE Il testo del III libro del Capitale che viene qui riportato NON È UNA DELLE TRADUZIONI INTEGRALI DEL TESTO ORIGINALE che sono disponibili: esso infatti è una rivisitazione delle traduzioni esistenti (in italiano ed in francese) a cui sono state apportate le seguenti modifiche: 1 – non sono state riportate le note che Marx ed Engels richiamano nel testo (fatte salve alcune eccezioni); 2 – sono state introdotte delle modifiche per quanto riguarda gli esempi numerici in cui, per facilitare la lettura; a – sono state cambiate le unità di misura e le grandezze; b – diversi dati richiamati nella forma di testo sono stati trasformati in tabelle; c – in alcuni esempi numerici le cifre decimali sono state limitate a due e nel caso di numeri periodici, ad esempio 1/3 o 2/3, la cifra periodica è stata indicata con un apice (‘). Ci rendiamo conto che leggere un testo del Capitale in cui Marx formula esempi in Euro (€) invece che in Lire Sterline (Lst) o scellini potrebbe far sorridere e far pensare ad uno scherzo o ad una manipolazione che ha travisato il pensiero dell’Autore, avvertiamo invece il lettore che il testo è assolutamente fedele al pensiero originale e che ci siamo permessi di introdurre alcune “varianti” per consentire a coloro che non hanno dimestichezza con le unità di misura e monetarie inglesi di non bloccarsi di fronte a questa difficoltà e di facilitarne così la lettura o lo studio. In altre parti si sono invece mantenute le unità di misura e monetarie inglesi originali perchè la lettura non creava problemi di comprensione o per ragioni di fedeltà storica. Ci facciamo altresì carico dell’osservazione che Engels ha formulato nelle “considerazioni supplementari” poste all’inizio del III Libro, laddove, di fronte alle molteplici interpretazioni del testo che vennero fatte dopo la prima edizione, sostiene: “Nella presente edizione ho cercato innanzitutto di comporre un testo il più possibile autentico, di presentare, nel limite del possibile, i nuovi risultati acquisiti da Marx, usando i termini stessi di Marx, intervenendo unicamente quando era assolutamente necessario, evitando che, anche in quest’ultimo caso, il lettore potesse avere dei dubbi su chi gli parla. Questo sistema è stato criticato; si è pensato che io avrei dovuto trasformare il materiale a mia disposizione in un libro sistematicamente elaborato, en faire un livre, come dicono i francesi, in altre parole sacrificare l’autenticità del testo alla comodità del lettore. Ma non è in questo senso che io avevo interpretato il mio compito. Per una simile rielaborazione mi mancava qualsiasi diritto; un uomo come Marx può pretendere di essere ascoltato per se stesso, di tramandare alla posterità le sue scoperte scientifiche nella piena integrità della sua propria esposizione. Inoltre non avevo nessun desiderio di farlo: il manomettere in questo modo perchè dovevo considerare ciò una manomissione l’eredità di un uomo di statura così superiore, mi sarebbe sembrato una mancanza di lealtà. In terzo luogo sarebbe stato completamente inutile. Per la gente che non può o non vuole leggere, che già per il primo Libro si è data maggior pena a interpretarlo male di quanto non fosse necessario a interpretarlo bene — per questa gente è perfettamente inutile sobbarcarsi a delle fatiche”. Marx ed Engels non ce ne vogliano, ma posti di fronte alle molteplici “fughe” dallo studio da parte di persone che non possedevano una cultura accademica, fughe che venivano imputate alla difficoltà presentate dal testo, abbiamo deciso di fare uno “strappo” alle osservazioni di Engels, intervenendo in alcune parti avendo altresì cura di toccare il testo il meno possibile. Nel fare questo “strappo” eravamo tuttavia confortati dal fatto che, a differenza della situazione in cui Engels si trovava, oggi chi vuole accedere al testo “originale”, dispone di diverse edizioni in varie lingue. Coloro che volessero accostarsi al testo originale in lingua italiana si consigliano le seguenti edizioni:
Chi volesse accedere ad edizioni del Capitale e di altri testi di Marx in lingue estere, si propone di consultare il sito internet di seguito riportato:http://www.marxists.org/xlang/marx.htm |