IL CAPITALE LIBRO III SEZIONE III LEGGE DELLA CADUTA TENDENZIALE DEL SAGGIO DEL PROFITTO CAPITOLO 14 CAUSE ANTAGONISTICHE Qualora si confronti l’imponente sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale quale si presenta anche solo negli ultimi 30 anni, con la produttività di tutti i periodi precedenti, qualora soprattutto si consideri l’enorme massa di capitale fisso che in aggiunta al macchinario propriamente detto entra nel processo della produzione sociale nel suo insieme, si comprende come la difficoltà, che ha costituito finora oggetto d’indagine da parte degli economisti, di spiegare la diminuzione del saggio del profitto, venga ora sostituita dalla difficoltà opposta consistente nello spiegare le cause per cui questa diminuzione non è stata più forte o più rapida. Devono qui giocare delle influenze antagonistiche che contrastano o neutralizzano l’azione della legge generale, dandole il carattere di una semplice tendenza; motivo questo per cui la caduta del saggio generale del profitto è stata da noi chiamata una caduta tendenziale. Le più generali di queste cause sono le seguenti: I - AUMENTO DEL GRADO DI SFRUTTAMENTO DEL LAVORO. Il grado di sfruttamento del lavoro e l’appropriazione del pluslavoro e del plusvalore vengono soprattutto accresciuti mediante il prolungamento della giornata lavorativa e l’intensificazione del lavoro stesso. Ambedue questi punti sono svolti esaurientemente nel Libro I a proposito della produzione del plusvalore assoluto e relativo. L’intensificazione del lavoro comporta in molti casi un aumento del capitale costante rispetto al capitale variabile e quindi una caduta del saggio del profitto, per esempio quando un operaio deve sorvegliare un maggior numero di macchine. Anche in questo caso — come nella maggior parte dei procedimenti che concorrono alla produzione del plusvalore relativo — le medesime cause che producono un aumento del saggio del plusvalore possono provocare una diminuzione della sua massa, qualora si considerino determinate quantità del capitale complessivo impiegato. Altre volte l’intensificazione del lavoro viene ottenuta, ad esempio accelerando la velocità delle macchine: ciò permette, è vero, di trasformare un quantitativo maggiore di materie prime nel medesimo spazio di tempo ma, per quanto riguarda il capitale fisso, comporta un più rapido logorio del macchinario, senza tuttavia alterare il rapporto tra il suo valore ed il prezzo del lavoro che lo mette in opera. Ma è soprattutto il prolungamento della giornata lavorativa, questa invenzione dell’industria moderna, che accresce la massa del pluslavoro acquisito, senza alterare sostanzialmente il rapporto fra la forza-lavoro impiegata ed il capitale costante da essa messo in opera, diminuendo anzi in realtà il valore relativo di quest’ultimo. È già stato dimostrato — e qui consiste il vero segreto della caduta tendenziale del saggio del profitto — che tutti i procedimenti che hanno come fine la produzione di un plusvalore relativo tendono complessivamente a ciò: da un lato a convertire in plusvalore la maggior quantità possibile di una determinata massa di lavoro, dall’altro ad impiegare, in proporzione al capitale anticipato, il minor lavoro possibile cosicchè le medesime cause che permettono di aumentare il grado di sfruttamento del lavoro impediscono che — impiegando lo stesso capitale complessivo — venga sfruttata la stessa quantità di lavoro di prima. Queste sono le tendenze antagonistiche che mentre spingono verso un aumento del saggio del plusvalore, influiscono al tempo stesso nel senso della diminuzione della massa del plusvalore prodotto da un capitale determinato e quindi nel senso della diminuzione del saggio del profitto. Altrettanto si deve qui ricordare l’impiego in massa del lavoro delle donne e dei fanciulli in quanto tutta la famiglia è costretta a fornire al capitale una massa maggiore di pluslavoro rispetto a prima anche se aumenta la somma complessiva di salario che le viene pagata, fatto quest’ultimo che però in generale non avviene affatto. Tutto ciò che favorisce la produzione del plusvalore relativo mediante un semplice miglioramento di metodi, come avviene nell’agricoltura, rimanendo invariata la quantità di capitale impiegato, produce il medesimo effetto: mentre il capitale costante impiegato non aumenta rispetto al variabile, se si considera quest’ultimo come indice dell’ammontare della forza-lavoro occupata, aumenta la massa del prodotto in rapporto alla forza-lavoro occupata. Lo stesso si verifica quando la forza produttiva del lavoro (è indifferente che quanto esso produce entri nel consumo dell’operaio o negli elementi del capitale costante) viene liberata dagli ostacoli che ne inceppano la circolazione, dalle restrizioni arbitrarie o divenute ingombranti nel corso del tempo e in genere da vincoli di qualsiasi natura, senza tuttavia che al tempo stesso venga direttamente modificato il rapporto fra capitale costante e capitale variabile. Potrebbe qui sorgere la domanda se tra le cause che in un primo tempo ostacolano ma in ultima analisi accelerano sempre la caduta del saggio del profitto, siano da comprendere gli aumenti del plusvalore temporanei ma che si riproducono continuamente al di sopra del livello generale, ora in questo ora in quel ramo di produzione, a favore di quel capitalista che sfrutti invenzioni ecc. prima che esse siano divenute di dominio pubblico. La risposta non può essere che affermativa. La massa del plusvalore prodotta da un capitale determinato è il risultato della moltiplicazione del saggio del plusvalore per il numero degli operai occupati a quel determinato saggio. Essa dipende dunque, per un determinato saggio del plusvalore, dal numero degli operai e, per un determinato numero di operai, dal saggio del plusvalore, e, quindi, in genere, dal rapporto composto fra la grandezza assoluta del capitale variabile ed il saggio del plusvalore. Ora si è visto che le stesse cause che fanno aumentare il saggio del plusvalore relativo fanno in genere diminuire la massa della forza-lavoro impiegata. Ma è chiaro che aumento e diminuzione dipendono in questo caso dalla proporzione determinata in cui si compie questo movimento contrastante e che la tendenza alla diminuzione del saggio del profitto viene indebolita soprattutto a causa dell’aumento del saggio del plusvalore assoluto risultante dal prolungamento della giornata di lavoro. Per quanto riguarda il saggio del profitto, si è visto in generale che alla diminuzione del saggio, causata dall’aumento della massa del capitale complessivo impiegato, corrisponde l’aumento della massa del profitto. Qualora si consideri la totalità del capitale variabile della società, il plusvalore che esso produce corrisponde al profitto prodotto. La massa assoluta ed il saggio del plusvalore aumentano parallelamente, la prima essendo aumentata la massa della forza lavoro impiegata dalla società, il secondo essendosi accresciuto il grado di sfruttamento di questo lavoro. Qualora si consideri invece un capitale di determinata grandezza, per esempio 100, il saggio del plusvalore può aumentare mentre la massa in media diminuisce, infatti il saggio del plusvalore è determinato dalla proporzione nella quale la parte variabile del capitale si è valorizzata, mentre la massa è determinata da quella parte proporzionale del capitale complessivo che è costituita dal capitale variabile. L’aumento del saggio del plusvalore — specialmente quando esso si verifica in circostanze nelle quali, come si è precedentemente accennato, il capitale costante non cresce, o almeno non cresce in proporzione al capitale variabile — è un fattore che determina la massa del plusvalore e di conseguenza il saggio del profitto. Esso non annulla la legge generale, ma fa sì che abbia più che altro valore di tendenza: ossia di legge la cui completa attuazione è ostacolata, rallentata, indebolita da fattori antagonistici. Poiché le stesse cause che fanno aumentare il saggio del plusvalore (anche il prolungamento della giornata lavorativa è un prodotto della grande industria), tendono a ridurre la forza-lavoro impiegata da un dato capitale, esse tendono egualmente a diminuire il saggio del profitto ed a rallentare l’andamento di questa diminuzione. Quando un operaio è costretto a fare un lavoro per il quale razionalmente ne occorrerebbero due, e se ciò avviene in circostanze tali che quel solo operaio può sostituirne tre, egli produrrà da solo pluslavoro quanto precedente mente ne producevano due ed il saggio del plusvalore di conseguenza risulta aumentato; ma egli non potrà fornire tanto pluslavoro quanto prima ne producevano tre e perciò la massa del plusvalore diminuirà. La sua diminuzione è tuttavia compensata o limitata dall’accrescimento del saggio del plusvalore. Se tutta la popolazione è occupata a questo saggio superiore di plusvalore, la massa del plusvalore aumenta nonostante che la popolazione rimanga costante e aumenta ancor più quando la popolazione cresce. Quantunque in questo caso si verifichi una diminuzione relativa del numero degli operai occupati in rapporto alla grandezza del capitale complessivo, questa diminuzione è limitata o arrestata dall’accrescimento del saggio del plusvalore. Prima di conchiudere la trattazione di questo punto, si deve ancora una volta insistere sul fatto che, dato un capitale di determinata entità, il saggio del plusvalore può aumentare quantunque la sua massa diminuisca ed inversamente. La massa del plusvalore è uguale al saggio moltiplicato per il numero degli operai; ma il saggio non viene mai calcolato sul capitale complessivo ma solamente sul capitale variabile e, di fatto, per una giornata di lavoro alla volta. Al contrario, per una determinata grandezza del valore del capitale, il saggio del profitto non può aumentare nè cadere senza che aumenti o diminuisca anche la massa del plusvalore. II. RIDUZIONE DEL SALARIO AL DI SOTTO DEL SUO VALORE. Questo fattore viene ricordato semplicemente a titolo empirico perché in realtà, unitamente a molti altri che dovrebbero essere qui menzionati, non ha nulla a che vedere con l’analisi generale del capitale ma appartiene allo studio della concorrenza di cui non ci occupiamo in questa opera. Esso rappresenta per altro una delle cause più importanti che frenano la tendenza alla caduta del saggio del profitto. III. DIMINUZIONE DI PREZZO DEGLI ELEMENTI DEL CAPITALE COSTANTE. Qui trova applicazione tutto quanto è stato detto nella prima sezione di questo Libro sulle cause che aumentano il saggio del profitto pur rimanendo costante il saggio del plusvalore o anche indipendentemente da esso e soprattutto il fatto che, dal punto di vista del capitale complessivo, il valore del capitale costante non si accresce nella stessa proporzione del suo volume materiale. Ad esempio, la quantità di cotone lavorata da un solo operaio filatore europeo in una fabbrica moderna si è accresciuta in proporzioni colossali rispetto a quella che un filatore europeo riusciva a produrre in tempi passati con il filatoio a ruota. Ma il valore del cotone lavorato non presenta un aumento proporzionale alla sua massa. Il medesimo fenomeno si riscontra per le macchine e per tutto il capitale fisso. In breve, la stessa evoluzione, che porta all’aumento della massa del capitale costante rispetto al variabile, tende a far diminuire, in seguito alla crescente produttività del lavoro, il valore degli elementi che lo costituiscono ed impedisce di conseguenza che il valore del capitale costante (per quanto in continuo aumento) si accresca nella stessa proporzione della sua massa materiale, cioè della massa materiale dei mezzi di produzione messi in opera da una stessa quantità di forza-lavoro. In alcuni casi particolari può anche accadere che la massa degli elementi del capitale costante si accresca mentre il suo valore rimane invariato od anche diminuisce. Queste considerazioni hanno valore anche per quanto riguarda la svalorizzazione del capitale esistente, ossia degli elementi materiali che lo costituiscono, derivante dallo sviluppo dell’industria. Esso pure rappresenta uno dei fattori che agiscono continuamente per ostacolare la caduta del saggio del profitto, quantunque in particolari circostanze possa ridurre la massa del profitto, riducendo la massa del capitale che produce il profitto. Resta qui ancora una volta dimostrato che le medesime cause che determinano la tendenza alla caduta del saggio del profitto agiscono al tempo stesso da freno nei suoi confronti. IV. LA SOVRAPPOPOLAZIONE RELATIVA. Lo sviluppo della produttività del lavoro, che si esprime in una diminuzione del saggio del profitto, crea necessariamente ed accelera condizioni di relativa sovrappopolazione che assume manifestazioni tanto più evidenti quanto più sviluppato è il modo capitalistico di produzione di un paese. Dalla sovrappopolazione relativa deriva da un lato — a causa della diminuzione di costo e dell’aumento di massa degli operai disponibili o licenziati, come pure della resistenza maggiore che, per la loro natura intrinseca, alcuni rami di produzione oppongono alla sostituzione delle macchine al lavoro manuale — il prolungarsi in molti rami produttivi della più o meno incompleta subordinazione del lavoro al capitale, la quale persiste più a lungo di quanto non lo comporti a prima vista il grado generale dello sviluppo. D’altro lato però sorgono nuove industrie, soprattutto per la produzione di beni di lusso, le quali si fondano proprio su quella popolazione relativa che si trova sovente disoccupata in seguito alla preponderanza del capitale costante in altri rami di produzione, poggiano a loro volta sulla preponderanza degli elementi del lavoro vivo e solo gradualmente percorrono la stessa evoluzione degli altri rami di produzione. In entrambi i casi il capitale variabile assume una notevole importanza rispetto al capitale complessivo ed il salario rimane al di sotto della media, cosicché in questi rami di produzione tanto il saggio quanto la massa del plusvalore risultano eccezionalmente elevati. Poiché il saggio generale del profitto è formato dal livellamento dei saggi del profitto nei particolari rami di produzione, anche in questo caso la medesima causa che provoca la tendenza alla caduta del saggio di profitto, agisce da contrappeso a questa tendenza e ne paralizza l’effetto in grado maggiore o minore. V. IL COMMERCIO ESTERO. Il commercio estero, in quanto fa diminuire di prezzo sia gli elementi del capitale costante che i mezzi di sussistenza necessari nei quali si converte il capitale variabile, tende ad accrescere il saggio del profitto, aumentando il saggio del plusvalore e diminuendo il valore del capitale costante. Esercita in generale un’azione in questo senso perché rende possibile un ampliamento della scala di produzione. Da un lato quindi accelera l’accumulazione, dall’altro invece favorisce la diminuzione del capitale variabile rispetto al costante e quindi la caduta del saggio del profitto. Parimenti, l’ampliamento del commercio estero che costituiva la base della produzione capitalistica durante la sua infanzia, ne diventa un prodotto quando essa comincia a svilupparsi, in conseguenza della necessità intrinseca di questo modo di produzione, del suo bisogno di un mercato sempre più esteso. Si mostra qui ancora una volta la stessa contraddittorietà dell’azione esercitata. (Ricardo ha completamente trascurato questo aspetto del commercio estero). Un’altra questione — che per il suo specifico carattere esula veramente dal campo della nostra indagine — è la seguente: il saggio generale del profitto risulterà accresciuto in conseguenza del più elevato saggio del profitto prodotto da un capitale che sia investito nel commercio estero e soprattutto coloniale? I capitali investiti nel commercio estero possono offrire un saggio del profitto più elevato soprattutto perché in tal caso fanno concorrenza a merci che vengono prodotte da altri paesi a condizioni meno favorevoli; il paese più progredito vende allora i suoi prodotti ad un prezzo maggiore del loro valore, quantunque inferiore a quello dei paesi concorrenti. Fino a che il lavoro del paese più progredito viene in tali circostanze utilizzato come lavoro di un peso specifico superiore, il saggio del profitto aumenta in quanto il lavoro che non è pagato come lavoro di qualità superiore, viene venduto come tale. La stessa situazione si può presentare rispetto ad un paese con il quale si stabiliscono rapporti di importazione e di esportazione: esso fornisce in natura una quantità di lavoro oggettivato superiore a quello che riceve e tuttavia ottiene la merce più a buon mercato di quanto non potrebbe esso stesso produrre. Caso analogo a quello di un fabbricante che, sfruttando una nuova invenzione prima che sia diventata di dominio pubblico, vende a minor prezzo dei suoi con correnti e tuttavia al di sopra del valore individuale della sua merce: utilizza insomma come pluslavoro la produttività specifica superiore del lavoro da lui impiegato, realizzando così un sovrapprofitto. Per quanto riguarda i capitali investiti nelle colonie ecc., essi possono offrire un saggio del profitto superiore sia perché di regola il saggio del profitto è più elevato in questi paesi a causa dell’insufficiente sviluppo della produzione, sia perché con l’impiego degli schiavi e dei coolies ecc. il lavoro viene sfruttato più intensa mente. Non si comprende ora il motivo per cui i maggiori saggi del profitto prodotti da capitali investiti in certi particolari rami produttivi e fatti proseguire verso la madre patria, non debbano qui — eccettuato nel caso che incontrino l’ostacolo di monopoli — intervenire ai fini del livellamento del saggio generale del profitto, elevandolo quindi pro tanto: soprattutto quando l’investimento di capitale avviene in rami produttivi sottoposti alle leggi della libera concorrenza. Ricardo al contrario ragionava nel modo seguente: i prezzi superiori ottenuti all’estero servono per acquistarvi delle merci che vengono inviate in patria e ivi vendute, cosicché ne può derivare al massimo un temporaneo beneficio a favore di questi rami privilegiati di produzione rispetto agli altri meno favoriti. Ragionamento tuttavia che cade non appena si faccia astrazione dalla forma monetaria. Il paese maggiormente favorito riceve un quantitativo di lavoro superiore a quello che offre in cambio, nonostante che questa differenza, questo sovrappiù, come del resto avviene in ogni scambio fra lavoro e capitale, vada a vantaggio solo di una determinata classe. In quanto dunque il saggio del profitto è più elevato, ed in generale è più elevato in colonia, esso può accompagnarsi, qualora le condizioni naturali siano favorevoli, a un livello inferiore dei prezzi. Si stabilisce una perequazione, ma non al livello primitivo, come Ricardo pensa. Ma lo stesso commercio estero produce a sua volta alla lunga l’effetto opposto sviluppando all’interno il modo capitalistico di produzione, provocando con ciò la diminuzione del capitale variabile rispetto al costante e dando luogo d’altro lato ad una sovrapproduzione in rapporto alla domanda estera. E così si è visto, in generale, che le medesime cause che determinano la caduta del saggio del profitto, danno origine a forze antagonistiche che ostacolano, rallentano e parzialmente paralizzano questa caduta. E se non fosse per questa azione contrastante non sarebbe la caduta del saggio del profitto ad essere incomprensibile, ma al contrario la relativa lentezza di questa caduta. In tal modo la legge si riduce ad una semplice tendenza, la cui efficacia si manifesta in modo convincente solo in condizioni determinate e nel corso di lunghi periodi di tempo. Prima di proseguire nella nostra indagine, al fine di evitare malintesi, vogliamo ripetere ancora una volta due principi, su cui peraltro ci siamo ripetutamente soffermati. Primo: Il medesimo processo che determina durante lo sviluppo della produzione capitalistica la diminuzione di prezzo delle merci, produce una modificazione nella composizione organica del capitale sociale investito nella produzione delle merci ed in conseguenza la caduta del saggio del profitto. La diminuzione del costo relativo di ogni singola merce, come pure della parte di questo costo che rappresenta il logorio del macchinario, non deve dunque essere identificata con il valore crescente del capitale costante confrontato con quello del capitale variabile, quantunque inversamente ogni diminuzione del costo relativo del capitale costante, restando invariato od anche aumentando il volume dei suoi elementi materiali, — agisce sull’aumento del saggio del profitto, vale a dire sulla diminuzione pro tanto del valore del capitale costante in rapporto al capitale variabile, impiegato in proporzioni decrescenti. Secondo: il fatto che il lavoro vivo addizionale che è contenuto nelle singole merci, la cui somma costituisce il prodotto del capitale, sta in un rapporto decrescente con i materiali di lavoro in esse incorporati e con i mezzi di lavoro in esse consumati; il fatto che una quantità sempre decrescente di lavoro vivo addizionale si trova oggettivata nelle singole merci, perché in seguito allo sviluppo della forza produttiva sociale esse richiedono per la loro produzione una massa minore di lavoro — tutto questo non altera la proporzione secondo cui il lavoro vivo contenuto nella merce si ripartisce fra lavoro pagato e non pagato. Al contrario. Benché la quantità complessiva del lavoro vivo addizionale in essa contenuta diminuisca, la parte non pagata aumenta rispetto a quella pagata in seguito alla diminuzione assoluta o relativa di questa ultima; poiché lo stesso modo di produzione, che diminuisce in una merce la massa complessiva del lavoro vivo addizionale provoca un aumento del plusvalore assoluto e relativo. La caduta tendenziale del saggio del profitto è collegata con un aumento tendenziale del saggio del plusvalore, ossia del grado di sfruttamento del lavoro. Nulla di più assurdo, allora, che spiegare la diminuzione del saggio del profitto con l’aumento del saggio dei salari, quantunque anche questo fatto possa presentarsi in via eccezionale. La statistica sarà in grado di intraprendere una vera analisi sul saggio dei salari per diverse epoche e per diversi paesi solo quando abbia compreso i rapporti che determinano il saggio del profitto. Il saggio del profitto diminuisce non perché il lavoro diviene meno produttivo, ma perché la sua produttività aumenta. L’aumento del saggio del plusvalore e la diminuzione del saggio del profitto non sono che forme particolari che costituiscono l’espressione capitalistica della crescente produttività del lavoro. VI. L’ACCRESCIMENTO DEL CAPITALE AZIONARIO. Ai cinque fattori sopra analizzati, può essere ancora aggiunto il seguente, nel quale non possiamo tuttavia per il momento addentrarci più profondamente. A misura che la produzione capitalistica, che va di pari passo con l’accumulazione accelerata, si sviluppa, una parte del capitale viene calcolata ed impiegata unicamente come capitale produttivo di interessi: non però nel senso che ogni capitalista il quale presti del capitale si accontenta degli interessi, mentre il capitalista industriale intasca il guadagno di imprenditore. Questo non ha nulla a che vedere col livello del saggio generale del profitto, poichè per esso il profitto corrisponde: all’interesse + profitto di qualsiasi natura + rendita fondiaria, indipendentemente dalla ripartizione fra queste diverse categorie; ma nel senso che questi capitali, quantunque investiti in grandi imprese industriali, come per esempio le ferrovie, una volta dedotti tutti i costi, rendono semplicemente degli interessi più o meno considerevoli, i cosi detti dividendi. Questi capitali non entrano nel livellamento del saggio generale del profitto, dando essi un saggio del profitto inferiore alla media: qualora vi entrassero questo saggio diminuirebbe in misura ben maggiore. Da un punto di vista teorico si potrebbe tenerne conto e si otterrebbe allora un saggio del profitto minore di quello che esiste in apparenza e che fa in realtà decidere i capitalisti, poiché è precisamente in queste imprese che il capitale costante è più grande in rapporto al variabile. |
AVVERTENZA PER IL LETTORE Il testo del III libro del Capitale che viene qui riportato NON È UNA DELLE TRADUZIONI INTEGRALI DEL TESTO ORIGINALE che sono disponibili: esso infatti è una rivisitazione delle traduzioni esistenti (in italiano ed in francese) a cui sono state apportate le seguenti modifiche: 1 – non sono state riportate le note che Marx ed Engels richiamano nel testo (fatte salve alcune eccezioni); 2 – sono state introdotte delle modifiche per quanto riguarda gli esempi numerici in cui, per facilitare la lettura; a – sono state cambiate le unità di misura e le grandezze; b – diversi dati richiamati nella forma di testo sono stati trasformati in tabelle; c – in alcuni esempi numerici le cifre decimali sono state limitate a due e nel caso di numeri periodici, ad esempio 1/3 o 2/3, la cifra periodica è stata indicata con un apice (‘). Ci rendiamo conto che leggere un testo del Capitale in cui Marx formula esempi in Euro (€) invece che in Lire Sterline (Lst) o scellini potrebbe far sorridere e far pensare ad uno scherzo o ad una manipolazione che ha travisato il pensiero dell’Autore, avvertiamo invece il lettore che il testo è assolutamente fedele al pensiero originale e che ci siamo permessi di introdurre alcune “varianti” per consentire a coloro che non hanno dimestichezza con le unità di misura e monetarie inglesi di non bloccarsi di fronte a questa difficoltà e di facilitarne così la lettura o lo studio. In altre parti si sono invece mantenute le unità di misura e monetarie inglesi originali perchè la lettura non creava problemi di comprensione o per ragioni di fedeltà storica. Ci facciamo altresì carico dell’osservazione che Engels ha formulato nelle “considerazioni supplementari” poste all’inizio del III Libro, laddove, di fronte alle molteplici interpretazioni del testo che vennero fatte dopo la prima edizione, sostiene: “Nella presente edizione ho cercato innanzitutto di comporre un testo il più possibile autentico, di presentare, nel limite del possibile, i nuovi risultati acquisiti da Marx, usando i termini stessi di Marx, intervenendo unicamente quando era assolutamente necessario, evitando che, anche in quest’ultimo caso, il lettore potesse avere dei dubbi su chi gli parla. Questo sistema è stato criticato; si è pensato che io avrei dovuto trasformare il materiale a mia disposizione in un libro sistematicamente elaborato, en faire un livre, come dicono i francesi, in altre parole sacrificare l’autenticità del testo alla comodità del lettore. Ma non è in questo senso che io avevo interpretato il mio compito. Per una simile rielaborazione mi mancava qualsiasi diritto; un uomo come Marx può pretendere di essere ascoltato per se stesso, di tramandare alla posterità le sue scoperte scientifiche nella piena integrità della sua propria esposizione. Inoltre non avevo nessun desiderio di farlo: il manomettere in questo modo perchè dovevo considerare ciò una manomissione l’eredità di un uomo di statura così superiore, mi sarebbe sembrato una mancanza di lealtà. In terzo luogo sarebbe stato completamente inutile. Per la gente che non può o non vuole leggere, che già per il primo Libro si è data maggior pena a interpretarlo male di quanto non fosse necessario a interpretarlo bene — per questa gente è perfettamente inutile sobbarcarsi a delle fatiche”. Marx ed Engels non ce ne vogliano, ma posti di fronte alle molteplici “fughe” dallo studio da parte di persone che non possedevano una cultura accademica, fughe che venivano imputate alla difficoltà presentate dal testo, abbiamo deciso di fare uno “strappo” alle osservazioni di Engels, intervenendo in alcune parti avendo altresì cura di toccare il testo il meno possibile. Nel fare questo “strappo” eravamo tuttavia confortati dal fatto che, a differenza della situazione in cui Engels si trovava, oggi chi vuole accedere al testo “originale”, dispone di diverse edizioni in varie lingue. Coloro che volessero accostarsi al testo originale in lingua italiana si consigliano le seguenti edizioni:
Chi volesse accedere ad edizioni del Capitale e di altri testi di Marx in lingue estere, si propone di consultare il sito internet di seguito riportato:http://www.marxists.org/xlang/marx.htm |