IL CAPITALE

LIBRO III

SEZIONE II

TRASFORMAZIONE DEL PROFITTO IN PROFITTO MEDIO

CAPITOLO 10

 LIVELLAMENTO DEL SAGGIO GENERALE DEL PROFITTO
AD OPERA DELLA CONCORRENZA.

PREZZI DI MERCATO E VALORI DI MERCATO.

SOVRAPROFITTO.

In un certo numero di sfere di produzione il capitale che vi è impiegato ha una composizione media, ossia una composizione identica o quasi a quella del capitale sociale medio.

In tali sfere di produzione il prezzo di produzione delle merci prodotte corrisponde esattamente o in modo approssimativo al loro valore espresso in denaro.

La concorrenza ripartisce il capitale sociale fra le diverse sfere di produzione in modo tale che in ognuna di esse i prezzi di produzione vengano formati sul modello dei prezzi di produzione di queste sfere di composizione media, ossia corrispondono a (prezzo di costo + prezzo di costo moltiplicato per il saggio del profitto medio):

k + kp’ = k. (1 + p’)

Ma questo saggio del profitto medio (p’) non è altro che il profitto calcolato in percentuale in quella sfera di composizione media dove dunque plusvalore e profitto coincidono.

Il saggio del profitto è dunque uguale in tutte le sfere di produzione, ossia viene livellato al saggio di profitto di queste sfere di produzione medie che hanno una composizione sociale media.

Da ciò deriva che la somma dei profitti di tutte le diverse sfere di produzione deve essere uguale alla somma dei plusvalori e che la somma dei prezzi di produzione del prodotto complessivo sociale deve essere uguale alla somma dei valori.

Esempio:

 

c

v

C = k

pv

Valore prodotto

Valore della merce

pv%

p’%

p’%
livellato

Prezzo di produzione

I

80

20

100

20

40

120

100

20

20

120

II

83

17

100

17

34

117

100

17

20

120

III

77

23

100

23

46

123

100

23

20

120

totale

240

60

300

60

120

360

 

60

 

360

Valor medio

80

20

100

20

40

120

 

20

 

120

E’ tuttavia evidente che il livellamento fra le sfere di produzione che hanno una composizione diversa deve sempre tendere ad eguagliarle alle sfere di composizione media, sia che quest’ultime corrispondano esattamente o solo approssimativamente alla composizione sociale media.

Fra queste sfere di produzione più o meno avvicinantesi si manifesta di nuovo la tendenza al livellamento, cioè alla posizione media ideale, che non trova riscontro nella realtà, ossia si manifesta la tendenza ad adeguarsi a tale posizione ideale.

Di qui necessariamente prevale la tendenza a fare dei prezzi di produzione semplicemente forme trasformate del valore o a trasformare i profitti  in semplici parti del plusvalore che però non sono distribuite in proporzione al plusvalore prodotto in ogni particolare sfera di produzione, ma in proporzione alla massa di capitale impiegato in ciascuna di esse, cosicchè a masse uguali di capitale, qualunque ne sia la composizione, corrispondono uguali frazioni della massa globale del plusvalore prodotto dal capitale complessivo sociale.

Per i capitali di composizione media o approssimativamente analoga alla media, il prezzo di produzione è uguale dunque in senso assoluto o approssimativo al valore ed il profitto al plusvalore da essi prodotto.

Tutti gli altri capitali, qualsiasi possa essere la loro composizione, tendono sotto la pressione della concorrenza ad eguagliarsi a quelli di composizione media.

Ma poichè capitali di composizione media corrispondono in modo assoluto o approssimativo al capitale sociale medio, allora tutti i capitali, qualsiasi possa essere il plusvalore da essi prodotto, tendono sempre a realizzare, nei prezzi delle merci che essi producono, il profitto medio in luogo di questo plusvalore, ossia tendono a realizzare il prezzo di produzione.

Si può d’altro lato affermare che ogni volta che viene a stabilirsi un profitto medio e di conseguenza un saggio generale del profitto, tale profitto non può essere che il profitto del capitale sociale medio, la cui somma è uguale alla somma dei plusvalori e che i prezzi ottenuti aggiungendo questo profitto medio ai prezzi di costo non possono essere altro che i valori trasformati in prezzi di produzione.

Non modificherebbe  quanto si è detto il fatto che capitali di certe determinate sfere di produzione non subiscano, per un motivo qualsiasi, questo processo di livellamento (è il caso dell’agricoltura e della rendita fondiaria, a seguito del formarsi della rendita assoluta). Il profitto medio sarebbe allora calcolato in base a quella parte del capitale sociale che rientra in questo processo.

E’ chiaro che il profitto medio non può essere altro che il risultato della ripartizione della massa complessiva del plusvalore fra le varie masse di capitale delle diverse sfere di produzione, proporzionalmente alla loro grandezza.

Tale massa totale di plusvalore costituisce tutto il lavoro realizzato non pagato che si trova materializzato nella massa complessiva di merci e di denaro che va ai capitalisti.

Il problema veramente difficile consiste nel determinare come avviene questo livellamento dei profitti al saggio generale del profitto, essendo questo evidentemente un risultato e non un punto di partenza.

E’ innanzitutto evidente che, ad esempio, una stima monetaria dei valori delle merci non può essere fatta se non dopo il loro scambio e che se noi presupponiamo tale stima, dobbiamo considerarla come risultato di scambi effettivi di (valore – merce)  contro  (valore – merce).

Ma come questo scambio di merci ha potuto aver luogo ai loro valori reali?

Supponiamo innanzitutto che nei diversi rami di produzione tutte le merci vengano vendute ai loro valori reali. Cosa si verificherebbe?

Secondo quanto è stato precedentemente dimostrato, nelle diverse sfere di produzione esisterebbero dei saggi del profitto molto diversi.

A prima vista sono due cose completamente diverse il fatto che le merci siano vendute ai loro valori oppure che vengano vendute a prezzi tali che la loro vendita frutti dei profitti uguali per uguali masse di capitali anticipati per la loro produzione.

Il fatto che capitali che mettono in opera quantità diverse di lavoro vivo, producano quantità ineguali di plusvalore presuppone, almeno in una certa misura, che il grado di sfruttamento del lavoro o il saggio del plusvalore sia lo stesso o che le differenze esistenti vengano annullate da elementi reali o immaginari di compensazione.

Perchè ciò si verifichi occorre che gli operai siano fra loro in concorrenza e che si produca un livellamento mediante il loro continuo spostamento da una sfera di produzione ad un’altra.

L’esistenza di un tale saggio generale del plusvalorequale tendenza, come tutte le leggi economicheè stata da noi ammessa  per semplificazione teorica.

Essa costituisce per altro nella vita reale una condizione effettiva del modo capitalistico di produzione, ostacolata in grado maggiore o minore da attriti che nella pratica provocano differenze locali più o meno importanti, come per esempio la legislazione sul domicilio per i braccianti agricoli in Inghilterra.

In teoria si postula che le leggi del modo capitalistico di produzione si sviluppino senza interferenze.

Nella vita reale c’è solo un’approssimazione e questa è tanto maggiore quanto maggiore è il grado di sviluppo del modo capitalistico di produzione e quanto più esso è riuscito a liberarsi da contaminazioni ed interferenze con i residui di situazioni economiche anteriori.

Tutta la difficoltà consiste nel fatto che le merci non vengono scambiate semplicemente come merci ma come prodotti di capitali che, in proporzione alla loro grandezza o a parità di grandezza, pretendono una parte uguale di partecipazione alla massa complessiva del plusvalore.

Il prezzo complessivo delle merci prodotte da un capitale determinato in un tempo determinato deve soddisfare questa rivendicazione.

Ma il prezzo complessivo di queste merci non è altro che la somma dei prezzi delle merci individuali che costituiscono il prodotto del capitale.

Sarà più facile far risaltare il punto saliente del problema, se l’impostiamo nel modo seguente: supponiamo che gli operai siano essi stessi proprietari dei loro rispettivi mezzi di produzione e scambino reciprocamente i loro prodotti. Tali merci non sarebbero quindi il prodotto del capitale. Il valore dei mezzi di lavoro e dei materiali di lavoro impiegati nei diversi rami di lavoro varierebbe secondo la natura tecnica dei loro lavori, e, pur astraendo dal diverso valore dei mezzi di produzione impiegati, varierebbe anche la quantità di tali mezzi richiesta da una determinata massa di lavoro, per il fatto che una merce può essere finita in un’ora, una seconda solo in un giorno e così via. Si supponga inoltre che il tempo di lavoro di questi operai sia  in media uguale, tenuto conto delle compensazioni che derivano dalla diversa intensità del lavoro, ecc. Due operai avrebbero quindi reintegrato entrambi nelle merci che rappresentano la loro giornata lavorativa, innanzitutto le loro spese ed il prezzo di costo del mezzi di produzione adoperati: spese che varieranno in relazione alla natura tecnica dei loro rami di produzione. In secondo luogo entrambi avrebbero creato un eguale ammontare di valore nuovo che rappresenta la giornata lavorativa che essi hanno aggiunto ai mezzi di produzione e che comprende il loro salario più il plusvalore, il pluslavoro che eccede i loro bisogni essenziali che apparterebbe a loro stessi.

Esprimendoci in termini capitalistici, entrambi gli operai ricevono lo stesso salario più lo stesso profitto = al valore espresso ad esempio nel prodotto di una giornata lavorativa della durata ad esempio di dieci ore.

Tuttavia i valori delle loro merci sarebbero diversi dato che nella merce I sarebbe ad esempio contenuta una frazione di valore dei mezzi di produzione impiegati maggiore della merce II e per prospettare tutte le possibili differenze, che la merce I, assorbendo una maggiore quantità di lavoro vivo, esiga dunque per la sua fabbricazione un tempo più lungo di lavoro rispetto alla merce II.

Il valore di queste due merci risulterebbe quindi assai diverso, come egualmente diverse sono le somme dei valori – merce che rappresentano il prodotto del lavoro dell’operaio I e dell’operaio II in un tempo determinato.

Se si considera in questo caso come saggio del profitto il rapporto tra il plusvalore ed il valore complessivo dei mezzi di produzione impiegati, anche i saggi del profitto sarebbero molto diversi nei due casi.

I mezzi di sussistenza che I e II consumano ogni giorno durante la produzione e che rappresentano il salario, costituiranno qui la parte dei mezzi di produzione anticipati che avevamo indicato col termine di capitale variabile.

Ma per una stessa durata di tempo di lavoro, i plusvalori sarebbero uguali per I e II o, più esattamente, poichè I e II ricevono ciascuno il prodotto di una giornata di lavoro, essi ricevono, una volta che sia detratto il valore degli elementi costanti che erano stati anticipati, valori uguali di cui una parte può essere considerata come sostituzione dei mezzi di sussistenza consumati nella produzione e l’altra come il plusvalore che rimane.

Qualora I avesse fatto degli anticipi maggiori, tali anticipi sarebbero rimborsati da una frazione maggiore del valore della sua merce che sostituisce questa parte costante e di conseguenza I sarebbe costretto a riconvertire una parte più cospicua del valore complessivo del suo prodotto in elementi materiali di questa parte costante, mentre II ne incasserebbe è vero una parte minore, ma avrebbe anche meno da riconvertire.

Nell’ipotesi fatta la differenza del saggio del profitto sarebbe dunque senza importanza, precisamente come per l’operaio salariato è oggi indifferente quale sia il saggio del profitto che corrisponde al plusvalore che gli è estorto, e precisamente come nel commercio internazionale, la differenza dei saggi del profitto non interessa le diverse nazioni che scambiano i loro prodotti.

Lo scambio delle merci ai loro valori o approssimativamente ai loro valori richiede dunque un grado di sviluppo assai inferiore che non lo scambio ai prezzi di produzione, per il quale è necessario un determinato grado di sviluppo del capitalismo.

In qualsiasi modo i prezzi delle diverse merci vengano all’inizio fissati o regolati reciprocamente, il loro movimento è determinato dalla legge del valore.

I prezzi diminuiscono quando diminuisce il tempo necessario per la loro produzione; aumentano quando questo tempo di lavoro aumenta, rimanendo invariate tutte le altre circostanze.

Anche astraendo dall’azione decisiva della legge del valore sui prezzi e sul loro movimento, è dunque conforme alla realtà considerare i valori delle merci non solo da un punto di vista teorico ma anche storico, come l’antecedente dei prezzi di produzione.

Quanto si afferma trova riscontro in situazioni nelle quali il lavoratore è proprietario dei mezzi di produzione e, precisamente, nel mondo antico come in quello moderno, presso il contadino che possiede la terra che lui lavora o presso l’artigiano. E si accorda anche con l’opinione da noi precedentemente espressa, che i prodotti si trasformano in merci quando lo scambio non è limitato ai membri di una stessa comunità, ma avviene fra comunità diverse. E ciò che trova applicazione in questi stadi primitivi, trova ugualmente applicazione in stadi posteriori, i quali sono fondati sulla schiavitù e sulla servitù della gleba, come pure nell’organizzazione corporativa degli artigiani, fintanto che i mezzi di produzione investiti in ogni ramo produttivo solo con difficoltà sono da una sfera all’altra, e perciò le diverse sfere di produzione si trovano, entro certi limiti, l’una rispetto all’altra nella stessa situazione di paesi stranieri o di collettività comuniste.

Le condizioni sufficienti affinchè i prezzi ai quali le merci si scambiano reciprocamente corrispondano approssimativamente ai loro valori sono:

1 - che lo scambio delle merci cessi di essere un fatto puramente casuale od occasionale;

2 - che queste merci — in quanto noi consideriamo lo scambio diretto delle merci — siano prodotte da ambo le parti in quantità approssimativamente corrispondenti ai bisogni reciproci, condizione che si verifica con l’esperienza del commercio acquisita da entrambe le parti e che è quindi un risultato dello scambio continuato;

3 - che non esista – in quanto noi parliamo di vendita - nessun monopolio naturale od artificiale che permetta ad una delle parti contraenti di vendere le proprie merci al di sopra del valore o la costringa a disfarsene al di sotto del valore. Per monopolio accidentale noi intendiamo quello che al compratore deriva in seguito ad un rapporto accidentale stabilitosi tra domanda ed offerta.

Quando si afferma che le merci delle varie sfere di produzione vengono vendute ai loro valori, si vuole naturalmente solo dire che il loro valore costituisce il punto attorno al quale gravitano i prezzi di queste merci e verso il quale si ristabilisce l’equilibrio delle incessanti oscillazioni sopra e sotto tale valore.

Sarà inoltre sempre necessario fare una distinzione tra il valore di mercato ed il valore individuale delle singole merci che vengono prodotte dai diversi produttori.

Per alcune di queste merci il valore individuale sarà inferiore al valore di mercato (ossia per la loro produzione è richiesto meno tempo di lavoro di quello che corrisponde al valore del mercato) per altre esso sarà superiore.

Il valore di mercato dovrà quindi da un lato essere considerato come il valore medio delle merci prodotte in una certa sfera di produzione, dall’altro come il valore individuale delle merci che sono prodotte nelle condizioni medie della loro rispettiva sfera di produzione e che costituiscono la grande massa dei suoi prodotti.

Occorrono veramente delle circostanze straordinarie, perchè le merci prodotte nelle condizioni più sfavorevoli o nelle condizioni più favorevoli determinino il valore di mercato, che a sua volta costituisce il centro di oscillazione per i prezzi di mercato che tuttavia sono uguali per le merci della stessa natura.

Quando l’offerta di merci al valore medio soddisfa la domanda abituale, le merci il cui valore individuale è inferiore a quello di mercato, realizzano un extra profitto o plusprofitto mentre le merci il cui valore individuale è superiore a quello di mercato non possono realizzare una parte del plusvalore che esse contengono.

Non ha nessun valore l’affermazione, che la vendita delle merci prodotte nelle condizioni meno favorevoli sta a dimostrare che esse sono necessarie per coprire la domanda: poichè se nel caso dato il prezzo fosse superiore al valore medio di mercato, la domanda sarebbe minore.

A certi prezzi, merci di una determinata natura possono occupare sul mercato un certo spazio e tale spazio, qualora si modifichino i prezzi,  può rimanere invariato solo a condizione che il prezzo più elevato (pmag) coincida con una quantità minore di merci (nmin) ed il prezzo più basso(pmin) coincida con una quantità maggiore (nmag) per cui:

(pmag) . (nmin) = (pmin) . (nmag)

Se al contrario la domanda è così forte che non si contrae quando il prezzo è regolato dal valore delle merci prodotte nelle condizioni più sfavorevoli, allora sono quest’ultime che determinano il valore di mercato.

Tale caso si può verificare solo quando la domanda sia superiore alla domanda normale o l’offerta sia inferiore all’offerta normale.

Quando la massa delle merci prodotte è superiore a quella che può essere venduta ai valori medi di mercato, sono le merci prodotte nelle condizioni più favorevoli che regolano il valore di mercato.

Esse possono ad esempio essere vendute esattamente o approssimativamente al loro valore individuale mentre può accadere che le merci prodotte nelle condizioni più sfavorevoli non giungano forse a realizzare neppure il loro prezzo di costo e le merci prodotte nelle condizioni medie non possano realizzare che una parte del plusvalore che esse contengono.

Quanto si è qui detto per il valore di mercato, trova applicazione anche per ciò che riguarda il prezzo di produzione, non appena questo si sia sostituito al valore di mercato.

In ogni sfera di produzione il prezzo di produzione è regolato ed è regolato anch’esso secondo le particolari circostanze. Ma esso costituisce a sua volta il centro di gravità attorno al quale oscillano i prezzi quotidiani del mercato ed al quale essi finiscono per livellarsi in periodi determinati (vedi Ricardo sulla determinazione dei prezzi di produzione da parte dei produttori che lavorano nelle condizioni più sfavorevoli [ Principles ecc. ediz. Mac Culloch, Londra 1852, pp 37-38]).

Quali che siano i fattori che regolano i prezzi, si ha:

1 – la legge del valore determina il loro movimento poichè un aumento o una diminuzione del tempo di lavoro necessario alla produzione fa aumentare o diminuire i prezzi di produzione.

È in questo senso che Ricardo (il quale ben comprende che i suoi prezzi di produzione differiscono dai valori delle merci) dice che l’indagine sulla quale egli desidera richiamare l’attenzione dei lettori, si riferisce all’effetto delle variazioni del valore relativo alle merci e non del loro valore assoluto.

2 – il profitto medio che determina i prezzi di produzione deve sempre essere approssimativamente uguale alla quantità di plusvalore che tocca a un capitale dato, considerato come parte aliquota del capitale complessivo sociale.

Supponiamo che il valore monetario del saggio generale del profitto e quindi del profitto medio sia superiore al valore monetario del plusvalore medio reale.

Per quanto riguarda i capitalisti è indifferente che essi si attribuiscano reciprocamente un profitto del 10% o del  15% dato che l’uno di questi saggi non corrisponde al valore reale della merce più dell’altro, essendo uguale sia da una parte che dall’altra l’esagerazione dell’espressione monetaria.

Per quanto riguarda gli operai invece (poichè si suppone che essi ricevano il loro salario normale e che la maggiorazione del profitto medio non esprima dunque una effettiva riduzione del salario, vale a dire qualche cosa di completamente diverso dal normale plusvalore del capitalista), all’aumento del prezzo delle merci che deriva dall’aumento dei profitti medi, deve corrispondere un aumento dell’espressione monetaria del capitale variabile. In realtà un tale aumento nominale generale del saggio del profitto medio oltre il saggio dato dal rapporto fra il plusvalore reale ed il capitale complessivo non è possibile senza che esso sia accompagnato da un aumento dei salari ed anche da un aumento dei prezzi che costituiscono le merci che costituiscono il capitale costante.

Quando invece si ha una diminuzione, il processo avviene in modo analogo ma in senso contrario.

Poichè dunque il valore complessivo delle merci regola il plusvalore complessivo e questo a sua volta la grandezza del profitto medio e, di conseguenza, del saggio generale del profitto – come legge generale o come legge che domina le oscillazioni – è la legge del valore che determina i prezzi di produzione.

Quello che la concorrenza consegue, in primo luogo entro una sfera di produzione, è comporre i diversi valori individuali delle merci in un unico valore di mercato ed in un unico prezzo di mercato.

Ma la concorrenza dei capitali nei diversi rami di produzione crea innanzitutto il prezzo di produzione che a sua volta livella i saggi del profitto fra le diverse sfere di produzione.

Affinchè quest’ultimo fenomeno si manifesti è necessario che il modo capitalistico di produzione abbia raggiunto un grado di sviluppo superiore che nel primo caso.

Due sono le condizioni necessarie affinchè le merci della stessa sfera di produzione, aventi la stessa natura ed approssimativamente la medesima qualità, siano vendute ai loro valori:

Prima  condizione

I diversi valori individuali devono essere livellati ad un valore sociale unico, al valore di mercato e per questo occorre che vi sia concorrenza fra i produttori del medesimo tipo di merci, come è pure necessaria l’esistenza di un mercato sul quale tutti mettano in vendita le loro merci. Affinchè il prezzo di mercato di merci identiche, prodotte ciascuna in circostanze individuali leggermente diverse, corrisponda al valore di mercato e non si scosti da questo valore elevandosi al di sopra o cadendo al di sotto di esso, è necessario che la pressione che i diversi venditori esercitano l’uno sull’altro sia abbastanza forte per far gettare sul mercato la massa di merci richiesta dai bisogni sociali, ossia la massa per cui la società può pagare il valore di mercato.

Qualora la massa dei prodotti superasse questo bisogno, le merci dovrebbero essere vendute al di sotto del loro valore di mercato; inversamente le merci sarebbero vendute al di sopra del loro valore qualora la massa dei prodotti non fosse sufficiente a coprire la domanda ovvero qualora la pressione della concorrenza fra i venditori non fosse abbastanza forte da costringerli a portare questa massa di merci sul mercato.

Se si modificasse il valore di mercato, si modificherebbero anche le condizioni alle quali la massa complessiva delle merci potrebbe essere venduta.

Se cade il valore del mercato ne risulta un’estensione in generale del bisogno sociale (si fa riferimento sempre ad un bisogno che possiede la possibilità di pagare) e, entro certi limiti, può essere assorbita una maggiore quantità di merci.

Se aumenta il valore di mercato, si contrae il bisogno sociale di merci e di conseguenza ne viene assorbita una quantità minore.

Se dunque la domanda e l’offerta regolano il mercato, o più esattamente, gli scarti tra prezzo di mercato e valore di mercato, il valore di mercato da parte sua regola il rapporto fra domanda ed offerta, vale a dire determina il punto attorno al quale le fluttuazioni della domanda  e dell’offerta fanno oscillare i prezzi di mercato.

Considerando le cose più da vicino si vede che le medesime condizioni che determinano il valore di una singola merce, si ripresentano qui come condizioni che determinano il valore dell’insieme delle merci di uno stesso tipo.

Questo si verifica perchè la produzione capitalistica è per sua natura produzione in massa, e perchè anche altri modi di produzione, meno sviluppati, concentrano (almeno per quanto riguarda i prodotti principali) in grandi quantità sul mercato, nelle mani di un numero relativamente modesto di commercianti, ammassano e vendono come prodotto comune, la produzione fatta in piccola quantità da molti piccoli produttori isolati; la vendono come prodotto comune di tutto un ramo di produzione o come un contingente più o meno considerevole.

Si nota qui di passaggio che il “bisogno sociale”, ossia cìò che regola il principio della domanda, risulta essenzialmente dal rapporto che esiste fra le diverse classi e dalla rispettiva posizione economica, vale a dire dipende innanzitutto dal rapporto fra il plusvalore complessivo ed il salario. e, in secondo luogo, dal rapporto fra le diverse parti nelle quali si scompone il plusvalore (profitto, interesse, rendita fondiaria, imposte, ecc.).

Si dimostra qui una volta di più che il rapporto fra domanda e offerta non può spiegare assolutamente nulla fino a che non si sia messa in luce la base su cui si fonda questo rapporto.

Quantunque merce e denaro siano entrambe unità del valore di scambio e del valore d’uso, si è già visto (libro I - cap I, 3 ) che nella compera e nella vendita ambedue queste forme sono polarizzate ai due estremi dato che la merce (il venditore) rappresenta il valore d’uso ed il denaro (compratore) il valore di scambio.

Condizioni per la vendita sono:

·              che la merce abbia un valore d’uso e soddisfi quindi un bisogno sociale;

·              che la quantità di lavoro contenuta nella merce rappresenti un lavoro socialmente necessario;

·              che il valore individuale della merce sia uguale al suo valore sociale.

Applichiamo questi principi alla massa delle merci che si trovano sul mercato e che costituiscono il prodotto di tutta una sfera di produzione.

Al fine di semplificare le cose, consideriamo come una unica merce tutta la massa di merci  di un ramo di produzione e come unico prezzo la somma dei prezzi di tutte le merci identiche.

Tutto quello che è stato detto a proposito di una singola merce, può essere integralmente applicata alla massa di merci di un determinato ramo di produzione, disponibile sul mercato.

E quanto si è affermato, ossia che il valore individuale della merce corrisponde al suo valore sociale, esprime ora, in una ulteriore applicazione o determinazione, il fatto che la quantità complessiva della merci contiene la quantità di lavoro sociale necessaria alla sua produzione e che il valore di tale quantità corrisponde al suo valore di mercato.

Si prendono in esame tre casi:

Caso A – la maggior parte delle merci ha un valore uguale al valore individuale ed un’aliquota insignificante ha invece un valore superiore ed inferiore rispetto alla maggior parte delle merci.

Supponiamo ora che la maggior parte delle merci considerate sia prodotta approssimativamente nelle medesime condizioni sociali normali ed abbia perciò un valore uguale al valore individuale di esse. Supponiamo inoltre che un’aliquota relativamente insignificante venga prodotta al di sotto ed un’altra al di sopra di tali condizioni e che pertanto il valore individuale della prima sia superiore e quello della seconda inferiore al valore medio della maggior parte delle merci e che tuttavia questi due estremi si compensino in modo che il valore medio delle merci sia uguale al valore delle merci che si appartengono alla massa intermedia. In questo caso il valore di mercato è determinato dal valore delle merci prodotte nelle condizioni intermedie. Il valore della massa complessiva delle merci corrisponde alla somma effettiva dei valori di tutte le singole merci riunite, tanto di quelle prodotte nelle condizioni intermedie come quelle prodotte al di sopra ed al di sotto di tali condizioni.

In questa ipotesi il valore di mercato o il valore sociale della massa delle merci – cioè il tempo di lavoro necessario in esse contenuto - è determinato dal valore della grande massa intermedia.

Caso B – massa di merci vendute costante e  la massa prodotta nelle condizioni più sfavorevoli determina il valore di mercato .

Supponiamo ora al contrario che la massa delle merci portate al mercato rimanga invariata. ma  che il valore delle merci ottenute nelle condizioni più favorevoli non compensi il valore di quelle ottenute nelle condizioni sfavorevoli, di modo che queste ultime costituiscono una parte relativamente importante tanto rispetto alla massa intermedia quanto a quella prodotta all’altro estremo: allora la massa prodotta nelle condizioni più sfavorevoli determina il valore di mercato, ossia il valore sociale.

Caso C –  massa di merci vendute costante e  la massa prodotta nelle condizioni più favorevoli determina il valore di mercato.

Supponiamo infine che la massa di merci prodotta in condizioni più favorevoli di quelle medie sia considerevolmente superiore a quella prodotta nelle condizioni più sfavorevoli e rappresenti un’entità importante rispetto a quella prodotta nelle condizioni medie; allora la frazione prodotta nelle condizioni più favorevoli determina il valore di mercato.

Si astrae qui dalla possibilità che si verifichi un ingorgo di mercato, in questo caso la parte prodotta nelle condizioni più favorevoli determina necessariamente il prezzo di mercato; d’altro lato noi non dobbiamo occuparci qui del prezzo di mercato, in quanto esso differisce dal valore di mercato, ma unicamente dei diversi fattori che determinano il valore di mercato stesso.

A rigor di termini (naturalmente la realtà si presenta solo in forma approssimativa e con mille modificazioni) nel caso A, il valore di mercato determinato dai valori intermedi della massa complessiva delle merci è uguale alla somma dei loro valori individuali, quantunque questo valore di mercato appaia imposto come valore medio alle merci prodotte ai due estremi.

Le merci prodotte all’estremo più sfavorevole e quelle prodotte all’estremo più favorevole devono essere rispettivamente vendute al di sotto ed al di sopra del valore individuali.

Nel caso B le masse dei valori individuali prodotte nelle due condizioni estreme non si compensano ed è la massa prodotta nelle condizioni più sfavorevoli che predomina.

A rigor di termini il prezzo medio o il valore di mercato di ogni singola merce o di ogni parte aliquota della massa complessiva, sarebbe ora determinato dal valore complessivo della massa che risulterebbe sommando i valori delle merci prodotte nelle diverse condizioni e dalla parte aliquota di questo valore complessivo che si ripartirebbe su ogni merce individuale. Il valore di mercato così ottenuto sarebbe superiore al valore individuale non solo delle merci prodotte nelle condizioni più favorevoli ma anche di quelle che appartengono alla categoria intermedia; sarebbe tuttavia sempre inferiore al valore individuale delle merci prodotte all’estremo più sfavorevole. Che esso si accosti più o meno o che coincida con il valore di queste ultime, dipende esclusivamente dal volume che la massa di merci prodotte all’estremo più sfavorevole raggiunge nella sfera in questione. Se la domanda supera solo di poco l’offerta, il valore individuale delle merci prodotte nelle condizioni più sfavorevoli determina il prezzo di mercato.

Nel caso C la quantità di merci ottenute nelle condizioni più favorevoli rappresenta una massa che supera per importanza non soltanto la massa ottenuta nelle condizioni più sfavorevoli ma anche quella ottenuta nelle condizioni medie, in questo caso il valore di mercato cade al di sotto del valore medio.

Il valore medio ottenuto addizionando le somme di valore di ambedue gli estremi e della posizione intermedia è in questo caso inferiore al valore dei prodotti medi e lo scarto sarà più o meno accentuato in proporzione all’importanza relativa delle merci prodotte nelle condizioni più favorevoli. Se la domanda è debole in rapporto all’offerta, la parte che si trova nelle condizioni più favorevoli, qualunque ne sia l’entità, prende necessariamente il sopravvento, contraendo il suo prezzo al suo valore individuale. Il valore di mercato non potrà tuttavia mai coincidere con questo valore individuale delle merci prodotte  nelle condizioni più favorevoli, salvo nel caso che l’offerta sia in misura considerevole superiore alla domanda.

Questa determinazione del valore di mercato che è stata sin’ora esposta in forma astratta viene realizzata sul mercato reale per mezzo dell’azione della concorrenza fra i compratori, a condizione che la domanda sia in proporzioni esattamente sufficienti ad assorbire la massa di merci al suo valore così determinato.

Seconda condizione.

Quando si dice che la merce ha un valore d’uso, si afferma che essa soddisfa un bisogno sociale qualsiasi.

Fino a che si sono considerate soltanto le merci individuali, si poteva supporre che il bisogno ad ogni merce determinata – essendo la sua quantità già espressa nel prezzo – esistesse realmente.

Tale quantità diventa tuttavia un fattore essenziale non appena si considerino da un lato il prodotto di un intero ramo di produzione e dall’altro il bisogno sociale.

Si impone ora di esaminare la misura , ossia la quantità di questo bisogno sociale.

Nella determinazione precedentemente fatta dei fattori che regolano il valore di mercato, si è presupposto che la massa delle merci prodotte rimanga invariata, sia una grandezza determinata e che vari soltanto il rapporto tra gli  elementi di questa massa  che sono prodotti in condizioni differenti in modo che il valore di mercato della stessa massa di merci viene ad essere determinato in modo diverso.

Si supponga che questa massa di merci rappresenti l’offerta ordinaria, astraendo dalla possibilità che una parte delle merci prodotte venga temporaneamente sottratta al mercato.

Ora se la domanda corrispondente a questa massa di merci rappresenta la domanda ordinaria, la merce sarà venduta al suo valore di mercato indipendentemente da quale dei tre casi appena esaminati possa avere determinato tale valore di mercato.

La massa di merci soddisfa non solo un  bisogno sociale, ma soddisfa questo bisogno nella sua estensione sociale.

Se invece  la quantità è inferiore o superiore alla domanda, si avrà uno scarto fra il prezzo di mercato ed il valore di mercato.

E precisamente:quando essa è inferiore, è sempre la merce prodotta nelle condizioni meno favorevoli che determina il valore di mercato;quando è superiore, si verifica il caso inverso.

In entrambe le ipotesi sono sempre le merci prodotte ad uno degli estremi che determinano il valore di mercato quantunque il semplice rapporto delle masse prodotte nelle diverse condizioni dovrebbe portare ad altro risultato. Lo scarto positivo o negativo fra il prezzo di mercato ed il valore di mercato sarà tanto più considerevole quanto maggiore sarà la differenza fra la domanda e la quantità di merci prodotte.

La differenza fra quantità delle merci prodotte e quella che consente che le merci siano vendute al loro valore di mercato, può avere una duplice causa.

Può accadere cioè che questa stessa quantità cambi, diventi troppo piccola o troppo grande, di modo che la riproduzione avrebbe avuto luogo ad una scala diversa da quella che ha regolato il valore di mercato dato. In questo caso l’offerta si è modificata, quantunque la domanda sia rimasta inalterata e perciò si è verificata una relativa sovrapproduzione o sottoproduzione. Oppure può accadere che la riproduzione, ossia l’offerta, non abbia subito modificazioni, ma la domanda sia diventata più intensa o più debole, il che può verificarsi per diversi motivi. Quantunque in questo caso la grandezza assoluta dell’offerta sia rimasta inalterata, si è modificata la sua grandezza relativa, confrontata o commisurata al bisogno. Le conseguenze sono identiche a quelle che si verificano nel primo caso, solo che si manifestano in direzione contraria. Infine quando si presentano delle modificazioni tanto da parte della domanda quanto da parte dell’offerta, ma in senso opposto, oppure nello stesso senso ma in misura diversa, quando dunque, in una parola, ha luogo una modificazione bilaterale che altera il rapporto primitivamente esistente fra domanda ed offerta, il risultato finale deve sempre corrispondere a uno dei due casi appena considerati.

La reale difficoltà che si incontra nel dare una definizione generale del concetto di domanda ed offerta, consiste nel fatto che essa sembra risolversi in una tautologia.

Consideriamo l’offerta

Consideriamo innanzitutto l’offerta, ossia sia il prodotto che si trova sul mercato o che vi può essere portato.

E per non addentrarci in particolari assolutamente inutili in questo caso, consideriamo la massa della riproduzione annua in ogni determinato ramo industriale e trascuriamo la possibilità, comune  a molte merci, di essere sottratte in misura maggiore o minore al mercato ed immagazzinate per essere ad esempio riservate al consumo dell’anno seguente. Questa riproduzione annua esprime innanzitutto una quantità determinata in misura o numero a seconda che la massa di merci sia misurata come prodotto continuo o discontinua. Non si tratta solo di valori d’uso atti a soddisfare i bisogni umani, ma di quantità determinate di questi valori d’uso che si trovano sul mercato. In secondo luogo, questa massa di merci ha un valore di mercato determinato che si può esprimere in un multiplo del valore di mercato della merce individuale o della misura che serve da unità.

Fra la quantità di merci che si trovano sul mercato ed il loro valore di mercato non esiste necessariamente un rapporto: alcune merci possono per esempio avere un valore specifico elevato ed altre un valore specifico esiguo. Una determinata somma di valore può quindi corrispondere ad una quantità molto considerevole di una merce ed a una quantità molto minore di un’altra.

Fra una determinata quantità di articoli che si trovano sul mercato ed il loro valore di mercato esiste unicamente il seguente rapporto: presupposto un determinato grado di produttività del lavoro, la produzione d’una quantità determinata di articoli richiede, in ogni particolare sfera produttiva, una quantità determinata di tempo di lavoro sociale; tale rapporto varia tuttavia completamente da una sfera di produzione all’altra e non dipende né dall’utilità di questi articoli né dalla particolare natura dei loro valori d’uso. Tutte le altre circostanze rimanendo invariate, se la quantità (a) di un certo tipo di merci costa (b) di tempo di lavoro, la quantità (n.a) dello stesso prodotto costerà (n.b) di tempo di lavoro. Inoltre, dato che la società vuole che i suoi bisogni siano soddisfatti ed a tal fine richiede la produzione di un determinato articolo, essa deve necessariamente pagarlo. In realtà, poichè alla base della produzione delle merci si presuppone la divisione del lavoro, la società compera questi articoli devolvendo alla loro produzione una parte del suo tempo di lavoro disponibile; li compera mediante una quantità determinata di tempo di lavoro di cui essa può disporre. Quella parte della società alla quale, in seguito alla divisione del lavoro, spetta il compito di devolvere il proprio lavoro alla produzione di questi determinati articoli, deve ricevere in cambio un equivalente fornito dal lavoro sociale, rappresentato dagli articoli che soddisfano i suoi bisogni. Ma non esiste alcun rapporto necessario fra la quantità complessiva di lavoro sociale che viene impiegato per la produzione di un articolo sociale, ossia fra la parte aliquota della forza-lavoro complessiva dedicata dalla società alla produzione di tale articolo e l’intensità del bisogno sociale che tale articolo deve soddisfare: esiste semplicemente un rapporto casuale. Il fatto che ogni singolo articolo, od ogni determinata quantità di un certo tipo di merci, possa contenere soltanto il lavoro sociale richiesto per la sua produzione e che di conseguenza il valore di mercato complessivo di tale tipo di merci rappresenti, da questo punto di vista, soltanto il lavoro sociale necessario, non esclude che una parte del tempo di lavoro sociale vada disperso qualora quella merce sia stata prodotta in una quantità superiore a quella richiesta temporaneamente dal bisogno sociale: in tal caso la massa di merci rappresenta sul mercato una quantità di lavoro sociale assai inferiore a quella che essa contiene in realtà.

(È solo quando la società controlla efficacemente la produzione, regolandola in anticipo, che essa crea il legame fra la misura del tempo di lavoro sociale dedicato alla produzione di un articolo determinato e la estensione del bisogno sociale che tale articolo deve soddisfare).

Di conseguenza queste merci devono essere vendute al di sotto del loro valore di mercato e può anche accadere che una parte di esse rimanga completamente invenduta.

Il contrario si verifica quando la massa del lavoro sociale impiegato per la produzione di un determinato tipo di merci è inferiore all’estensione del particolare bisogno sociale che il prodotto deve soddisfare.

Infine, quando la quantità di lavoro sociale dedicato alla produzione di un determinato articolo corrisponde all’estensione del bisogno sociale da soddisfare, per cui la massa prodotta corrisponde alla scala ordinaria della riproduzione, allora la merce viene venduta al suo valore di mercato. Lo scambio o la vendita delle merci al loro valore costituisce la legge razionale, naturale, del loro equilibrio; è su di essa che bisogna fondarsi per spiegare le eccezioni. e non sulle eccezioni per spiegare la legge stessa.

Consideriamo ora la domanda.

Le merci sono acquistate come mezzi di produzione o mezzi di sussistenza — non ha qui importanza il fatto che alcune merci possano servire ai due scopi ossia per entrare  nel consumo produttivo o nel consumo individuale. La domanda proviene dunque sia dai produttori (i capitalisti in questo caso, poiché si è presupposto che i mezzi di produzione siano trasformati in capitale) sia dai consumatori. Le due forme della domanda sembrano a prima vista presupporre una quantità determinata di bisogni sociali alla quale, da parte dell’offerta, corrispondono delle quantità determinate di produzione sociale nei diversi rami di produzione. Perché l’industria del cotone possa compiere la sua riproduzione annuale ad una data scala, è necessario che essa abbia a sua disposizione la quantità abituale di cotone, e, tenuto conto dell’estensione annuale della riproduzione proveniente dall’accumulazione di capitale anche un quantitativo supplementare, le altre circostanze rimanendo invariate. Lo stesso si può ripetere per quanto riguarda i mezzi di sussistenza. Perché la classe operaia possa continuare a vivere nel suo tradizionale tenore di vita medio è necessario che essa riceva almeno l’abituale quantità di mezzi di sussistenza necessari, nonostante che possa più o meno variare la loro ripartizione fra le varie categorie di beni;  tenuto conto dell’incremento annuale della popolazione, occorre che ne riceva anche un quantitativo addizionale. La stessa regola, con modificazioni più o meno accentuate, è applicabile alle altre classi sociali.

Sembra dunque che la domanda rappresenti un bisogno sociale, determinata di una certa grandezza, che esige, per essere soddisfatto, la presenza sul mercato di una quantità determinata di un certo articolo. Ma la determinazione quantitativa di questo bisogno è assolutamente elastica e fluttuante. Il suo carattere di immobilità è puramente apparente. Qualora i mezzi di sussistenza diminuissero di prezzo o aumentasse il salario monetario, gli operai accrescerebbero il loro consumo e di conseguenza diventerebbe più intenso il bisogno sociale di queste merci, anche non tenendo conto dei poveri, ecc. la cui “domanda” rimane sempre inferiore ai ristretti limiti dei loro bisogni fisici. D’altro lato, qualora il cotone per esempio diminuisse di prezzo, i capitalisti aumenterebbero la loro domanda ed impiegherebbero una maggiore quantità di capitale supplementare nell’industria del cotone, ecc. Non si deve dimenticare che nella nostra ipotesi la domanda di beni destinati al consumo produttivo proviene dal capitalista e che il suo unico scopo è la produzione del plusvalore.  Questo fatto non impedisce d’altra parte che quando si presenta sul mercato in qualità di compratore, ad esempio di cotone, egli rappresenta il bisogno di cotone e per il venditore di cotone è indifferente se il compratore lo trasforma in stoffa per far camicie, in fulmicotone o pensa di usarlo per tamponare le orecchie a se stesso ed al mondo intero. Esercita tuttavia un forte influsso sul modo in cui egli è compratore.

Il suo bisogno di cotone risulta essenzialmente modificato dal fatto che esso nasconde in realtà solo il suo bisogno di realizzare del profitto.

Lo scarto fra la domanda - ossia il bisogno di merci rappresentato sul mercato — ed il vero bisogno sociale, varia in modo considerevole da una merce ad un’altra; intendo dire la differenza fra la quantità di merci richieste e la quantità che sarebbe richiesta se la mercanzia avesse un altro prezzo monetario o i compratori si trovassero in una diversa situazione economica od avessero un altro tenore di vita.

Non vi è nulla di più facile che comprendere le ineguaglianze dell’offerta e della domanda e gli scarti che esse determinano fra prezzo di mercato e valore di mercato.

La vera difficoltà consiste nel determinare che cosa bisogna intendere per equilibrio fra domanda e offerta.

In primo luogo si dice che domanda e offerta si equilibrano allorché il loro rapporto permette che la massa di merci di una certa branca produttiva possa essere venduta al suo valore di mercato, quindi né al di sopra né al di sotto di esso.

In secondo luogo: tale equilibrio esiste allorché le merci possono essere vendute al loro valore di mercato.

Quando l’offerta e la domanda si equilibrano, la loro azione viene meno ed proprio per questo che le merci vengono vendute al loro valore di mercato. Due forze che si neutralizzano agendo in direzione contraria con la medesima intensità, non possono far trasparire all’esterno alcun fenomeno e tutto ciò che appare in questa situazione non può essere attribuito a tali forze, ma deve essere spiegato con qualcos’altro. Allorché domanda e offerta si equilibrano, esse non possono spiegare alcun fenomeno, non esercitano influenza alcuna sul valore di mercato e non ci dicono proprio nulla sulla ragione per cui il valore di mercato si esprime per l’appunto in tale somma di denaro invece che in un’altra. Le vere leggi connaturate alla produzione capitalistica non possono certo essere spiegate sul fondamento dell’azione reciproca tra la domanda e l’offerta (a parte il fatto che tutte e due queste forze sociali dovrebbero essere analizzate in maniera più approfondita, seppure non in questa sede) dato che queste leggi appaiono nella loro forma pura solo allorché domanda e offerta  si equilibrano. In pratica domanda e offerta non trovano mai equilibrio oppure lo trovano solo casualmente in maniera che il fenomeno non interessa affatto da un punto di vista scientifico e deve essere ritenuto come inesistente.

Ciononostante l’economia politica presuppone tale equilibrio. Per qual motivo?

In primo luogo per studiare i fenomeni nella loro forma regolare, conforme al concetto che si ha di essi, indipendentemente dalle manifestazioni esteriori che risultano dal movimento della domanda e dell’offerta; in secondo luogo per delineare la vera tendenza del loro movimento, e, in qualche modo, fissarla.

Poichè le disuguaglianze tra la domanda e l’offerta appaiono in direzione contraria e si susseguono costantemente, finiscono per trovare un equilibrio nelle loro opposte direzioni, nel loro reciproco conflitto. E per questo dunque, malgrado non avvenga mai che domanda ed offerta si equilibrino, le loro disuguaglianze si ripetono in maniera tale —  per il fatto che  ogni differenza in un senso causa una differenza in senso contrario — che, considerando tutto un periodo di tempo più o meno lungo, domanda e offerta trovano continuamente equilibrio; tuttavia soltanto come media del loro movimento trascorso e come espressione del loro costante movimento generato dalla contraddizione che v’è tra queste due forze. In tal modo i prezzi di mercato che si allontanano dai valori di mercato, considerati in base alla loro media, finiscono per livellarsi fino a tali valori, in quanto le differenze in più o in meno vengono compensate reciprocamente. Tale media non ha un’importanza soltanto teorica per i capitali, bensì essenzialmente pratica, poiché il loro investimento viene calcolato sul fondamento delle oscillazioni e delle compensazioni che si hanno in periodi di tempo più o meno determinati.

Il rapporto tra domanda e offerta spiega dunque da un lato soltanto la differenza fra prezzi di mercato e valori di mercato e dall’altro la tendenza all’equilibrio di queste oscillazioni, ovvero la tendenza all’annullamento della reciproca azione tra domanda e offerta. (Qui non debbono essere prese in considerazione le eccezioni concernenti merci che posseggono prezzi senza possedere valore ).

Domanda ed offerta possono arrivare ad annullare le conseguenze derivanti dalla loro disuguaglianza in modo assai diverso. Per esempio una diminuzione della domanda e di conseguenza del prezzo di mercato può portare a una sottrazione di capitale e quindi a una diminuzione dell’offerta. Ma può anche succedere che lo stesso valore di mercato diminuisca fino al livello del prezzo di mercato in seguito alle invenzioni che riducono il tempo di lavoro necessario. Qualora invece la domanda aumenta e quindi il prezzo di mercato sale oltre il valore di mercato, può darsi che una quantità troppo grande di capitale sia investita nella branca produttiva in oggetto e che la produzione si veda tanto accresciuta da far calare lo stesso prezzo di mercato al di sotto del valore di mercato; e questo a meno che si abbia un aumento di prezzo si ripercuota in una diminuzione della stessa domanda. In ultimo può anche accadere che in questa o quella branca produttiva lo stesso valore di mercato vada incontro ad un aumento che si mantiene per più o meno tempo per il fatto che una parte delle merci richieste in questo periodo deve essere prodotta a condizioni meno favorevoli.

Domanda e offerta determinano il prezzo di mercato e dal canto loro vengono determinate dal prezzo di mercato e in ultima analisi dal valore di mercato.

Per quanto riguarda la domanda questo fatto risulta evidente dato che essa cambia in ragione inversa del prezzo, aumentando allorché esso diminuisce e diminuendo in caso contrario.

Questo però vale anche per l’offerta: infatti sono i prezzi dei mezzi di produzione, incorporati nella merce offerta, che determinano la loro domanda e quindi l’offerta di quelle merci che per questo comportano una domanda di tali mezzi di produzione. I prezzi del cotone, per esempio, determinano l’offerta dei tessuti di cotone.

Questa confusione — determinazione dei prezzi tramite la domanda e l’offerta e allo stesso tempo determinazione della domanda e dell’offerta tramite i prezzi — viene ancor più aggravata dal fatto che l’offerta è determinata dalla domanda e la domanda dall’offerta,  il mercato dalla produzione e la produzione dal mercato.

Lo stesso economista volgare si rende conto che, pur non intervenendo un mutamento provocato da circostanze esterne nell’offerta o nei bisogni, il rapporto tra la domanda e l’offerta può cambiare in seguito a un mutamento del valore di mercato delle merci. E deve ammettere del resto che, qualunque sia tale valore di mercato, domanda e offerta debbono essere in equilibrio perché questo valore venga determinato. Insomma il valore di mercato non può essere spiegato sul fondamento del rapporto tra domanda e offerta; al contrario è il valore di mercato stesso che spiega le oscillazioni della domanda e dell’offerta. L’autore delle Observations continua, di seguito al passo citato nella nota: «Tuttavia questo rapporto (tra domanda e offerta) — qualora si continui a dare a “domanda” e  a “prezzo naturale” lo stesso significato che è stato dato loro sino ad ora rifacendosi ad Adam Smith, deve essere sempre un rapporto di uguaglianza; infatti, soltanto allorché l’offerta corrisponde alla reale domanda, ossia corri sponde a quella domanda che è disposta a pagare un prezzo né più alto né più basso del prezzo naturale, tale prezzo naturale viene effettivamente pagato; quindi in epoche diverse si possono avere per la medesima merce due prezzi naturali essenzialmente differenti, e, ciò nonostante il rapporto tra domanda e offerta può conservarsi inalterato (rapporto di uguaglianza) in entrambi i casi». Qui perciò v’è l’ammissione che, pur potendo esistere per la medesima merce due differenti prezzi naturali in epoche diverse, domanda ed offerta possono e debbono equilibrarsi ogni volta perché la merce in entrambi i casi venga venduta al suo prezzo naturale. Dato che nei due casi non si tratta di una differenza nel rapporto tra domanda e offerta, bensì di una differenza nella grandezza dello stesso prezzo naturale, tale prezzo senz’altro viene determinato a prescindere dalla domanda e dall’offerta e perciò non può essere determinato da esse in nessuna maniera.

Perché una merce sia venduta al suo valore di mercato, ovvero a un prezzo corrispondente al lavoro sociale necessario che essa contiene, occorre che la quantità complessiva di lavoro sociale destinato alla massa complessiva di questo genere di merci corrisponda alla quantità del bisogno sociale esistente per essa, ovvero del bisogno sociale che è in grado di pagare. La concorrenza e le oscillazioni dei prezzi di mercato che corrispondono alle oscillazioni del rapporto tra offerta e domanda, tendono continuamente a riportare a questo livello la quantità complessiva del lavoro utilizzato per ogni tipo di merce.

Nel rapporto tra domanda e offerta delle merci si trova riprodotto innanzitutto il rapporto tra valore d’uso e valore di scambio, tra merce e denaro, tra acquirente e venditore; e poi il rapporto tra produttore e consumatore, malgrado sia l’uno che l’altro possano essere rappresentati da terzi, ovvero da commercianti. Per considerare bene il rapporto esistente tra acquirente e venditore è sufficiente esaminarli separatamente l’uno contrapposto all’altro. Solo tre persone occorrono per la completa metamorfosi della merce e quindi per l’atto della compra vendita.

La persona A converte la sua merce nel denaro di B, cui egli vende il prodotto e trasforma il denaro ricevuto in merce acquistandola presso C. Tutto il processo si svolge tra queste tre persone.

Per giunta, trattando del denaro, abbiamo presupposto che le merci fossero vendute al loro valore, giacché non v’è alcuna ragione di considerare il caso di una differenza tra prezzo e valore trovandosi di fronte a soli cambiamenti formali cui la merce va incontro nella sua conversione in denaro e nella riconversione di denaro in merce. Allorché la merce è stata venduta e con il danaro ricavato è stata comperata una nuova merce, abbiamo la metamorfosi completa e da tale punto di vista poco importa che il prezzo della merce sia più alto o più basso del suo valore. In tale fenomeno il valore della merce conserva tuttavia una posizione rilevante dato che è solo in base ad esso che è possibile sviluppare il concetto del denaro e del prezzo, che, stando al suo concetto generale, è sin dall’inizio unicamente la forma monetaria del valore. Senz’altro nell’esaminare il denaro come mezzo di circolazione si presuppone che una merce non vada incontro soltanto a un’unica trasformazione: piuttosto si fa oggetto di studio il complesso intersecarsi di queste trasformazioni nella società. Solo così si può giungere alla circolazione del denaro e allo sviluppo della sua funzione come mezzo di circolazione Tuttavia se da un lato tale rapporto è importante per determinare il processo per cui il denaro si converte in mezzo di circolazione e prende una forma conforme a tale funzione, dall’altro non importa affatto per quel che concerne le transazioni tra gli acquirenti e i venditori individuali.

Nell’offerta e nella domanda, al contrario, l’offerta rappresenta l’insieme dei venditori o dei produttori di un certo genere di merci e la domanda l’insieme degli acquirenti o dei consumatori (individuali o produttivi) dello stesso genere di merci. Queste totalità agiscono reciprocamente come complessi, come aggregati di forze, dato che l’individuo qui conta soltanto come elemento di una forza sociale, come atomo di una massa. Ed è in questa maniera che la concorrenza fa valere il carattere sociale della produzione e del consumo.

Il lato della concorrenza che momentaneamente è il più debole è allo stesso tempo quello in cui l’individuo agisce separatamente dalla massa dei suoi concorrenti e spesso direttamente contro di essi, ponendo così in evidenza la loro reciproca dipendenza, mentre la parte più forte si contrappone in qualche maniera, come unità chiusa in sé, alla parte contraria. Allorché la domanda per un certo tipo di merce è più alta dell’offerta, ogni acquirente — entro certi limiti — offre un prezzo maggiore dell’altro e in tale maniera fa salire per tutti il prezzo delle merci oltre il valore di mercato, mentre i venditori costituiscono un fronte unico per vendere al prezzo di mercato più alto possibile. Allorché invece l’offerta supera la domanda, uno dei venditori comincia a vendere a prezzo minore degli altri e questi debbono seguirlo, mentre gli acquirenti di comune proposito cercano di far calare quanto più è possibile il prezzo di mercato al di sotto del valore di mercato. Ciascuno si sente interessato alla causa comune solo fino a quando difendendola ne ottiene un utile maggiore che combattendola. E una simile solidarietà viene meno allorché quella parte diventa più debole di quella contraria e ciascuno cerca di barcamenarsi da solo quanto meglio può. Per giunta, qualora un produttore arriva a fabbricare a un prezzo e quindi può vendere meno caro degli altri ed estendersi a un settore più grande del mercato vendendo al di sotto del prezzo normale di mercato o del valore di mercato, egli lo fa naturalmente; in tal modo comincia quel processo per cui i concorrenti si vedono costretti uno dopo l’altro ad utilizzare il sistema di produzione più economico, e il lavoro socialmente necessario viene ridotto a una misura più piccola di quella precedente. Allorché le condizioni sono favorevoli da una parte, ne approfittano tutti quelli che si trovano da codesta parte, esattamente come se essi di proposito sfruttassero un monopolio. Invece, riguardo alla parte più debole, ognuno cerca di persona di essere il più forte (per esempio come colui che lavora a costi di produzione più bassi) o almeno cerca di uscirne fuori il meglio possibile e poco gli importano per questo le sorti del proprio vicino, malgrado i risultati della sua azione interessino non soltanto lui direttamente, ma tutti i suoi compari. La domanda e l’offerta presuppongono la conversione del valore in valore di mercato, e dato che esse agiscono sul fondamento capitalistico, dato che le merci sono un prodotto del capitale, presuppongono altresì i processi di produzione capitalistici e di conseguenza rapporti assai più complessi della semplice compra vendita delle merci. Con esse non si ha a che fare più semplicemente con una conversione formale del valore delle merci in prezzo, ossia con un mero cambia mento di forma; si ha a che fare con determinate differenze quantitative che si stabiliscono tra i prezzi di mercato e i valori di mercato e per giunta tra i prezzi di mercato e i prezzi di produzione. Trattandosi solo di compra-vendita, basta considerare i produttori delle merci come tali contrapposti gli uni agli altri. Ma andando avanti nell’indagine, si vede che domanda e offerta presuppongono l’esistenza di classi e categorie differenti, che si ripartiscono il reddito totale della società consumandolo tra di loro come reddito e così generano la domanda che corrisponde a un simile reddito, mentre d’altro canto, perché si comprenda la domanda e l’offerta che generano tra i produttori come tali, occorre che si conosca tutta la struttura del processo di produzione capitalistico.

Nel modo di produzione capitalistico non si tratta unicamente di ottenere dalla massa di valore posta in circolazione come merce una massa di valore equivalente sotto altra forma — denaro o altra merce —, bensì si tratta di ottenere dal capitale anticipato per la produzione lo stesso plusvalore o profitto di ogni altro capitale di ugual volume, o ‘pro rata’ della sua grandezza, quale che sia la branca produttiva in cui esso viene utilizzato, perciò si tratta di vendere le merci a prezzi che almeno garantiscano il profitto medio, ovvero di venderle ai loro prezzi di produzione. Da questo punto di vista il capitale stesso prende coscienza di essere una forza sociale; di cui ogni capitalista rappresenta un elemento tanto più importante quanto più importante è la sua partecipazione al capitale totale della società.

Innanzitutto alla produzione capitalista poco importa lo specifico valore d’uso, né, in generale, la particolare natura delle merci prodotte da essa. In ciascuna sfera della produzione il suo solo scopo è produrre plusvalore, far suo nel pro dotto del lavoro una certa quantità di lavoro non retribuito. E ugualmente rientra nella stessa natura del lavoro salariato, che è servo del capitale, l’essere indifferente allo specifico carattere del suo lavoro; esso deve trasformarsi in base ai bisogni del capitale e deve lasciarsi trasportare da una sfera di produzione all’altra.

E poi ogni sfera di produzione non è in effetti né migliore né peggiore di un’altra; ognuna produce il medesimo profitto ed ognuna diverrebbe inutile allorché la merce prodotta da essa non soddisfacesse un qualunque. bisogno sociale.

Qualora le merci, tuttavia, vengano vendute ai loro valori, si hanno, come abbiamo visto saggI del profitto assai diversi nelle varie sfere della produzione, in base alla differente composizione organica delle masse di capitali ivi investite. Il capitale però esce da una sfera di produzione in cui il saggio del profitto è basso per entrare in un’altra dove esso è più alto. Tramite questa continua immigrazione ed emigrazione da una branca all’altra della produzione, distribuendosi insomma tra le differenti sfere in base ai cambiamenti del saggio del profitto, il capitale genera un tale rapporto tra domanda e offerta per cui il saggio medio del profitto si livella nelle varie branche produttive e quindi i valori si convertono in prezzi di produzione. Tale azione di livellamento si realizza più o meno in base al grado di sviluppo capitalistico di una data società nazionale; ovvero a seconda che le condizioni del paese siano adatte al modo di produzione capitalistico. Progredendo la produzione capitalistica, si sviluppano anche le sue condizioni e l’insieme dei presupposti sociali entro i quali si svolge il processo produttivo viene sottomesso da essa alla sua specifica legislatura e alle sue leggi immanenti.

Le costanti disparità si compensano continuamente e tale processo si svolge tanto più celermente:

1. quanto più mobile è il capitale, ovvero quanto più facilmente esso può essere trasportato da una sfera di produzione all’altra, da un posto all’altro;

2. quanto più celermente la forza lavorativa può essere portata da una sfera di produzione all’altra, da una località di produzione ad un’altra. La mobilità di un capitale presuppone un’assoluta libertà del commercio in seno alla società e una soppressione di ogni genere di monopolio ad eccezione dei monopoli naturali, cioè di quelli che sono propri dello stesso modo di produzione capitalistico. E per giunta presuppone lo sviluppo del sistema creditizio, che concentra la massa inorganica del capitale sociale disponibile rendendola disponibile per i capitalisti individuali; e inoltre la subordinazione delle diverse sfere di produzione ai capitalisti. Quest’ultima condizione è già inclusa nella premessa, giacché abbiamo supposto che si tratta della conversione dei valori in prezzi di produzione in tutte le sfere di produzione che vengono sfruttate secondo il sistema capitalistico; tuttavia, sotto questo aspetto, la compensazione si imbatte in ostacoli più gravi allorché sfere di produzione condotte in maniera non capitalistica (per esempio la coltivazione della terra da parte di piccoli contadini) interferiscono massicciamente e in maniera numerosa nelle condizioni ‘capitalistiche. In ultimo presuppone una elevata densità della popolazione. La mobilità della forza - lavoro comporta innanzitutto che vengano abrogate tutte le leggi che non consentono all’operaio di trasferirsi da una sfera di produzione all’al tra o da una località di produzione ad un’altra qualunque; comporta parimenti che l’operaio sia indifferente alla natura intrinseca del suo lavoro, che in tutte le branche produttive il lavoro venga ridotto quanto più possibile al lavoro semplice; che l’operaio abbandoni qualunque pregiudizio professionale; in ultimo, e in particolar modo, che gli operai siano sottomessi al modo di produzione capitalistico. L’analisi più dettagliata di tale questione rientra nella considerazione particolare della concorrenza.

Da quello che abbiamo esposto si ricava che ogni singolo capitalista, come anche il complesso dei capitalisti in ogni particolare sfera della produzione, hanno un interesse particolare allo sfruttamento e al grado di sfruttamento di tutta la classe operaia da parte del capitale totale non solo per solidarietà di classe, ma per un diretto interesse economico, giacché, supponendo immutata ogni altra circostanza; fra cui il valore del capitale totale costante anticipato, il saggio medio del profitto è legato al grado di sfruttamento del lavoro complessi vo da parte del capitale complessivo.

Il profitto medio coincide con il plusvalore medio, prodotto ‘pro’ 100 dal capitale e, quanto al plusvalore, quello che abbiamo or ora esposto è di per sé evidente. Esaminando il profitto medio, occorre considerare per giunta il valore del capitale anticipato come uno dei fattori che entrano nella determinazione del saggio del profitto In pratica il particolare interessamento che un capitali sta, oppure il capitale di una certa sfera della produzione, reca allo sfruttamento degli operai da lui direttamente impiegati, si riduce a questo, che egli sia in grado di ricavare un particolare guadagno, un profitto superiore alla media sia tramite un sopralavoro eccezionale, sia tramite la riduzione del salario, al di sotto della media, sia tramite una estrema produttività del lavoro utilizzato. Se tali differenze nello sfruttamento del lavoro non esistessero, un capitalista il quale nella propria sfera di produzione non utilizzasse affatto del capitale varia bile e quindi non utilizzasse alcun operaio (ipotesi in pratica troppo azzardata), sarebbe interessato allo sfruttamento della classe operaia da parte del capitale e ricaverebbe il suo profitto dal plusvalore non retribuito, esattamente come un capitalista il quale (altra supposizione esagerata) utilizzasse tutto il proprio capitale in salari. Tuttavia il grado di sfruttamento del lavoro dipende, per una giornata lavorativa determinata, dalla intensità media del lavoro e, per una in intensità determinata, dalla durata della giornata lavorativa. Il grado di sfrutta mento determina l’importo del saggio del plusvalore e, una volta data la massa totale del capitale variabile, determina l’importo del plusvalore e quindi del profitto. L’interessamento particolare che il capitale di una sfera della produzione, contrariamente al capitale complessivo, reca per lo sfruttamento degli operai che esso impiega direttamente, il capitalista particolare lo reca, in contrapposizione alla sua sfera, per lo sfruttaménto degli operai che lui sfrutta personal mente.

Del resto ogni particolare sfera del capitale ed ogni singolo capitalista sono ugualmente interessati alla produttività del lavoro sociale attivato dal capitale totale. Difatti da questa produttività dipendono in primo luogo la massa dei valori d’uso in cui trova espressione il profitto medio, la qual c importa doppiamente giacché il profitto medio dà vita sia al fondo di accumulazione dei nuovo capitale, sia al fondo di reddito per il consumo; in secondo luogo l’ammontare del valore del capitale totale anticipato (costante e variabile) che, a importo del plusvalore o del profitto di tutta la classe capitalistica dato, determina il saggio del profitto, ovvero il profitto per una certa quantità di capitale. La produttività particolare del lavoro in una specifica sfera della produzione o in una impresa individuale di questa sfera interessa unicamente  i capitalisti che vi prendono parte diretta, giacché essa dà alla sfera specifica o al capitalista singolo la possibilità di realizzare un profitto extra nei confronti del capitale complessivo o della sfera di produzione.

Quanto esposto sta a dimostrare con una precisione che potremmo definire matematica i motivi per cui i capitalisti, i quali si comportano come dei falsi fratelli allorché si fanno concorrenza, rappresentano ugualmente una vera e propria massoneria nei confronti della classe operaia nella sua totalità.

Il prezzo di produzione include il profitto medio.

Noi l’abbiamo chiamato prezzo di produzione; in effetti corrisponde a ciò che A. Smith definisce ‘natural price’ , Ricardo ‘price of production, ‘cost of production’,  i fisiocratici ‘prix nécessaire’ — del resto nessuno di essi ha dimostrato la differenza tra il prezzo e il valore — giacché questo elemento infine diviene la condizione dell’offerta, della riproduzione della merce di ogni specifica sfera della produzione . Si intuisce anche il motivo per cui quegli stessi economisti i quali non sono d’accordo che il valore delle merci venga determinato dal tempo lavorativo, dalla quantità di lavoro racchiuso in esso, parlano sempre dei prezzi di produzione come dei punti intorno ai quali gravitano i prezzi di mercato. Essi lo possono fare giacché il prezzo di produzione è già una forma affatto esteriore, e ‘prima facie’ vuota di contenuto, del valore, la forma che si presenta nella concorrenza, nella coscienza del capitalista volgare e quindi può presentarsi anche in quella dell’economista volgare.

Da quanto detto si vede che il valore di mercato (e tutto quello che abbiamo affermato a tal riguardo vale con le necessarie restrizioni per il prezzo di produzione) include un sovrapprofitto a vantaggio di coloro i quali in ogni specifica sfera della produzione producono nelle condizioni più propizie. Lasciando da parte del tutto le crisi o la sovrapproduzione, tale regola vale per tutti i prezzi di mercato, quale che sia la differenza dai valori di mercato o dai prezzi di produzione di mercato. Il prezzo di mercato vuoi dire sempre che lo stesso prezzo viene pagato per le merci di un medesimo tipo, malgrado esse vengano prodotte in condizioni individuali assai differenti e quindi possano presentare prezzi di costo assai differenti. (Qui vengono tralasciati i sovrapprofitti che si hanno dai monopoli nel senso comune della parola, naturali o artificiali.)

Per giunta si ha un sovrapprofitto allorché alcune sfere di produzione possono eludere la conversione dei valori delle loro merci, in prezzi di produzione, e quindi la riduzione del loro profitto al profitto medio. Parlando della rendita fondiaria avremo occasione di approfondire ancor più la formazione di queste due forme di sovrapprofitto.

 

AVVERTENZA PER IL LETTORE

Il testo del III libro del Capitale che viene qui riportato NON È UNA DELLE TRADUZIONI INTEGRALI DEL TESTO ORIGINALE che sono disponibili: esso infatti è una rivisitazione delle traduzioni esistenti (in italiano ed in francese) a cui sono state apportate le seguenti modifiche:

1 – non sono state riportate le note che Marx ed Engels richiamano nel testo (fatte salve alcune eccezioni);

2 – sono state introdotte delle modifiche per quanto riguarda gli esempi numerici in cui, per facilitare la lettura;

a – sono state cambiate le unità di misura e le grandezze;

b – diversi dati richiamati nella forma di testo sono stati trasformati in tabelle;

c – in alcuni esempi numerici le cifre decimali sono state limitate a due e nel caso di numeri periodici, ad esempio 1/3 o 2/3, la cifra periodica è stata indicata con un apice (‘).

Ci rendiamo conto che leggere un testo del Capitale in cui Marx formula esempi in Euro (€) invece che in Lire Sterline (Lst) o scellini potrebbe far sorridere e far pensare ad uno scherzo o ad una manipolazione che ha  travisato il pensiero dell’Autore, avvertiamo invece il lettore che il testo è assolutamente fedele al pensiero originale  e che ci siamo permessi di introdurre alcune “varianti” per consentire a coloro che non hanno dimestichezza con le unità di misura e monetarie inglesi di non bloccarsi di fronte a questa difficoltà e di facilitarne così la lettura o lo studio.

In altre parti si sono invece mantenute le unità di misura e monetarie inglesi originali perchè la lettura non creava problemi di comprensione o per ragioni di fedeltà storica.

Ci facciamo altresì carico dell’osservazione che Engels ha formulato nelle “considerazioni supplementari” poste all’inizio del III Libro, laddove, di fronte alle molteplici interpretazioni del testo che vennero fatte dopo la prima edizione, sostiene: “Nella presente edizione ho cercato innanzitutto di comporre un testo il più possibile autentico, di presentare, nel limite del possibile, i nuovi risultati acquisiti da Marx, usando i termini stessi di Marx, intervenendo unicamente quando era assolutamente necessario, evitando che, anche in quest’ultimo caso, il lettore potesse avere dei dubbi su chi gli parla. Questo sistema è stato criticato; si è pensato che io avrei dovuto trasformare il materiale a mia disposizione in un libro sistematicamente elaborato, en faire un livre, come dicono i francesi, in altre parole sacrificare l’autenticità del testo alla comodità del lettore. Ma non è in questo senso che io avevo interpretato il mio compito. Per una simile rielaborazione mi mancava qualsiasi diritto; un uomo come Marx può pretendere di essere ascoltato per se stesso, di tramandare alla posterità le sue scoperte scientifiche nella piena integrità della sua propria esposizione. Inoltre non avevo nessun desiderio di farlo: il manomettere in questo modo perchè dovevo considerare ciò una manomissione l’eredità di un uomo di statura così superiore, mi sarebbe sembrato una mancanza di lealtà. In terzo luogo sarebbe stato completamente inutile. Per la gente che non può o non vuole leggere, che già per il primo Libro si è data maggior pena a interpretarlo male di quanto non fosse necessario a interpretarlo bene — per questa gente è perfettamente inutile sobbarcarsi a delle fatiche”.

Marx ed Engels non ce ne vogliano, ma posti di fronte alle molteplici “fughe” dallo studio da parte di persone che non possedevano una cultura accademica, fughe che venivano imputate alla difficoltà presentate dal testo, abbiamo deciso di fare uno “strappo” alle osservazioni di Engels, intervenendo in alcune parti  avendo altresì cura di toccare il testo il meno possibile. Nel fare questo “strappo” eravamo tuttavia confortati dal fatto che, a differenza  della situazione in cui Engels si trovava, oggi chi vuole accedere al testo “originale”, dispone di diverse edizioni in varie lingue.

Coloro che volessero accostarsi al testo originale in lingua italiana si consigliano le seguenti edizioni:

  • Il capitale, Le Idee, Editori Riuniti, traduzione di Maria Luisa Boggeri;
  • Il capitale, Edizione Einaudi, traduzione di Maria Luisa Boggeri;
  • Il capitale, Edizione integrale - I mammut – Newton Compton, a cura di Eugenio Sbardella.

Chi volesse accedere ad edizioni del Capitale e di altri testi di Marx in lingue estere, si propone di consultare il sito internet di seguito riportato:

http://www.marxists.org/xlang/marx.htm