IL CAPITALE LIBRO II PREFAZIONE Non fu un lavoro facile approntare per le stampe il II Libro del Capitale in maniera tale che si presentasse, da una parte, come un’opera organica e il più possibile compiuta e d’altra, come opera esclusiva dell’autore, non dell’editore. Il grande numero degli studi, per lo più frammentari, che ci si trovava dinanzi rendeva più difficile il compito. Tutt’al più, uno solo (Ms. IV), fin dove arrivava, era redatto completamente per la stampa; ma anche di questo, la parte maggiore era invecchiata per l’aggiunta di redazioni posteriori. La massa principale del materiale, sebbene nella maggior parte elaborata compiutamente quanto alla sostanza, non lo era quanto alla lingua; redatto nella lingua in cui Marx era abituato a stendere i suoi estratti: stile trascurato, familiare, frequentemente espressioni e locuzioni ruvidamente umoristiche, definizioni tecniche inglesi e francesi, spesso intere frasi e anche pagine in inglese; pensieri buttati giù nella forma in cui a mano a mano si sviluppavano nella mente dell’autore. Accanto a singole parti trattate diffusamente, altre, ugualmente importanti, soltanto accennate; il materiale di fatti illustrativi raccolto ma a malapena raggruppato, non diciamo poi elaborato; alla fine dei capitoli, per l’urgenza di arrivare al capitolo successivo, spesso soltanto un paio di frasi tronche, come pietre miliari degli sviluppi lasciati incompiuti; infine la nota scrittura, a volte illeggibile per lo stesso autore. Io mi sono accontentato di riprodurre i manoscritti il più letteralmente possibile, di modificare nello stile soltanto ciò che Marx stesso avrebbe modificato e di interpolare proposizioni e passaggi esplicativi soltanto là dove era assolutamente necessario e dove, per di più, il senso era del tutto indubbio. Frasi la cui interpretazione permettesse il sia pur più lontano dubbio, sono state, di preferenza, riportate alla lettera. I rimaneggiamenti e le interpolazioni da me introdotti non ammontano in tutto a dieci pagine a stampa, e sono soltanto di natura formale. La semplice enumerazione del materiale manoscritto postumo di Marx per il Il Libro dimostra con quale impareggiabile coscienziosità, con quale rigorosa autocritica egli tendesse ad elaborare fino alla estrema perfezione, prima di pubblicarle, le sue grandi scoperte economiche; un’autocritica che solo raramente gli concesse di adeguare nella forma e nel contenuto l’esposizione al suo orizzonte che si allargava continuamente attraverso nuovi studi. Questi materiali sono dunque i seguenti. Innanzitutto, un manoscritto Per la critica dell’economia politica, 1472 pagine in quarto in 23 quaderni, scritto dall’agosto 1861 al giugno 1863. È la continuazione del primo fascicolo dallo stesso titolo, comparso a Berlino nel 1859. Nelle pagine 1-220 (quaderni I-V) e poi di nuovo nelle pagine 1159-1472 (quaderni XIX-XXIII) tratta i temi esaminati nel I Libro del Capitale, dalla trasformazione del denaro in capitale fino alla conclusione, ed è, per tale argomento, la prima redazione esistente. Le pagine 973-1158 (quaderni XVI- XVIII) trattano di: capitale e profitto, saggio del profitto, capitale commerciale e capitale monetario, dunque di temi che più tardi saranno sviluppati nel manoscritto per il Libro III. I temi trattati nel Libro Il, come pure parecchi trattati più tardi nel Libro III, non sono invece raggruppati in modo particolare. Essi vengono trattati a parte, particolarmente nella sezione che costituisce il corpo principale del manoscritto: pagine 220-972 (quaderni VI-XV): Teorie sul plusvalore. Questa sezione contiene una storia critica particolareggiata del nocciolo dell’economia politica, della teoria del plusvalore e sviluppa accanto a ciò, in polemica opposizione con i predecessori, la maggior parte dei punti esaminati più tardi in maniera particolare e in logica concatenazione nel manoscritto per i Libri lI e III. Mi riservo di pubblicare come Libro IV del Capitale la parte critica di questo manoscritto, escludendo i numerosi passi già svolti nei Libri Il e III. Per quanto di grande valore, tale manoscritto non era utilizzabile per la presente edizione del Il Libro. Il manoscritto cronologicamente seguente è quello del Libro III. Esso fu scritto, almeno per la maggior parte, nel 1864 e nel 1865. Soltanto dopo che questo fu terminato nella sua parte essenziale, Marx si apprestò a elaborare il I Libro, il primo volume stampato nel 1867. Questo manoscritto del III Libro vado ora a rielaborarlo per la stampa. Del periodo successivo, — dopo la pubblicazione del I Libro — esiste per il Il Libro una raccolta di quattro manoscritti in folio, da Marx stesso numerati I — IV. Di essi, il manoscritto I (150 pagine) è da datare presumibilmente nel 1865 o ‘67, ed è la prima elaborazione autonoma, ma più o meno frammentaria, del Il Libro nella sua suddivisione attuale. Anche di qui nulla era utilizzabile. Il manoscritto III consta, in parte, di una raccolta di citazioni e di riferimenti ai quaderni di estratti di Marx — che per lo più si riferiscono alla prima sezione del Il Libro — in parte di elaborazioni di singoli punti, particolarmente della critica dei principi di A. Smith sul capitale fisso e circolante e sulla fonte del profitto; inoltre, di una esposizione del rapporto fra saggio del plusvalore e saggio del profitto, che appartiene al III Libro. I riferimenti fornivano risultati non molto nuovi, mentre le elaborazioni, tanto per il Il Libro quanto per il III, erano superate da redazioni posteriori, e perciò sono state per la maggior parte messe in disparte. Il manoscritto IV è una elaborazione pronta per le stampe della prima sezione e dei primi capitoli della seconda sezione del Il Libro, ed è stato anche utilizzato a suo luogo. Sebbene risultasse che era stato composto prima del manoscritto Il, poté tuttavia, essendo più compiuto nella forma, essere utilizzato con vantaggio per la parte in questione del Libro; è stato sufficiente fare alcune aggiunte dal manoscritto Il. Quest’ultimo manoscritto è la sola elaborazione pressoché compiuta del Il Libro, ed è datato 1870. Le annotazioni da tener presenti per la redazione definitiva dicono espressamente: «La seconda elaborazione deve essere presa a fondamento». Dopo il 1870, subentrò una nuova pausa, causata principalmente dal cattivo stato di salute. Come di consueto, Marx occupò questo tempo con studi: agronomia, condizioni dell’agricoltura americana e particolarmente di quella russa, mercato monetario e banche, infine scienze naturali: geologia e fisiologia e specialmente lavori di matematica pura, formano il contenuto degli innumerevoli quaderni di estratti di questo tempo. All’inizio del 1877 egli si sentì ristabilito in modo da poter ritornare al suo lavoro vero e proprio. Alla fine del marzo 1877 risalgono riferimenti ed annotazioni dai quattro suddetti manoscritti che dovevano essere la base di una nuova elaborazione del Il Libro, il cui inizio si trova nel manoscritto V (56 pagine in folio). Esso abbraccia i primi quattro capitoli ed è ancora poco elaborato; punti essenziali vengono trattati in note sotto il testo; la materia è più raccolta che non vagliata, ma è l’ultima esposizione completa di questa che è la parte più importante della prima sezione. Un primo tentativo di farne un manoscritto per le stampe si trova nel manoscritto VI (dopo l’ottobre 1877 e prima del luglio 1878); soltanto 17 pagine in quarto, che comprendono la maggior parte del primo capitolo; un secondo — l’ultimo — nel manoscritto VII, «2 luglio 1878», di sole 7 pagine in folio. Intorno a questo tempo, Marx sembra aver compreso chiaramente che, senza un cambiamento totale del suo stato di salute, non sarebbe mai giunto a portar a termine una elaborazione del secondo e terzo Libro tale da soddisfarlo. Di fatto, i manoscritti V-VII recano anche troppo spesso le tracce di una dura lotta contro deprimenti stati di malattia. La parte più difficile della prima sezione era rielaborata nel manoscritto V; il resto della prima e l’intera seconda sezione (ad eccezione del capitolo diciassettesimo) non presentavano difficoltà teoriche degne di nota; la terza sezione, invece, la riproduzione e circolazione del capitale sociale, a suo giudizio andava profondamente rimaneggiata. Nel. Il manoscritto, infatti, la riproduzione dapprima era trattata senza riferimento alla circolazione del denaro che ne è la mediazione, e una seconda volta con riferimento a questa. Ciò andava eliminato, e l’intera sezione in generale doveva essere rimaneggiata in modo da corrispondere all’ampliato orizzonte dell’autore. Così ebbe origine il manoscritto VIII, un quaderno di sole 70 pagine in quarto; ma ciò che Marx seppe concentrare in tale spazio lo dimostra il confronto con la III sezione a stampa, esclusi i pezzi tratti dal II manoscritto. Anche questo manoscritto è soltanto una trattazione provvisoria dell’argomento, nel quale si dovevano anzitutto fissare e sviluppare i nuovi punti di vista acquisiti rispetto al Il manoscritto, con esclusione dei punti intorno ai quali non c’era nulla di nuovo da dire. Anche un brano essenziale del capitolo XVII della seconda sezione, che del resto, in certa misura, invade la terza sezione, viene nuovamente ripreso ed allargato. La successione logica molto spesso viene interrotta, la trattazione è qua e là lacunosa e, specialmente alla fine, del tutto frammentaria. Ma ciò che Marx voleva dire, in un modo o nell’altro vi è detto. Questo è il materiale per il Il Libro, del quale, secondo una espressione di Marx alla figlia Eleanor poco prima della sua morte, io avrei dovuto «fare qualcosa». Ho assunto questo incarico nei suoi limiti più stretti; dove appena era possibile, ho limitato la mia attività ad una pura e semplice scelta fra le differenti redazioni. E cioè, in modo che sempre venisse presa come base, confrontata con le precedenti, l’ultima redazione esistente. Difficoltà reali, cioè non meramente tecniche, presentarono a tale riguardo soltanto la prima e la terza sezione; ma si trattava, tuttavia, di difficoltà non piccole. Ho cercato di risolverle esclusivamente secondo lo spirito dell’autore. Le citazioni nel testo le ho per lo più tradotte quando documentavano dati di fatto, ovvero dove, come nei passi di A. Smith, l’originale è a disposizione di chiunque voglia andare a fondo della cosa. Solo nel capitolo X ciò non è stato possibile, perchè qui viene criticato direttamente il testo inglese. Le citazioni dal I Libro portano la numerazione delle pagine della seconda edizione, l’ultima che Marx vide ancora. Per il III Libro, oltre alla prima elaborazione del manoscritto Per la critica, i pezzi citati nel III manoscritto e alcune brevi note occasionalmente frammischiate in quaderni di estratti, esiste soltanto: il citato manoscritto in folio del 1864-65, elaborato press’a poco con la stessa completezza del Il manoscritto del II Libro, e infine un quaderno del 1875: Il rapporto tra saggio del plusvalore e saggio del profitto, sviluppato matematicamente (con equazioni). La preparazione di questo Libro per le stampe prosegue rapidamente. Per quanto posso giudicare finora, esso in generale presenterà difficoltà soltanto tecniche, ad eccezione, certo, di alcune sezioni molto importanti. È qui il caso di respingere un’accusa contro Marx, la quale, elevata dapprima solo sommessamente ed isolatamente, ora, dopo la sua morte, viene diffusa dai rappresentanti del socialismo tedesco della cattedra e di Stato e dal loro seguito come un fatto assodato: l’accusa che Marx abbia commesso un plagio ai danni di Rodbertus. Ho già detto in altra sede a questo proposito ciò che era più urgente[1], ma soltanto qui posso produrre la documentazione decisiva. Questa accusa, a quanto mi risulta, si trova per la prima volta nella Lotta per l’emancipazione del Quarto Stato, p. 43, di R. Meyer: :«Da queste pubblicazioni» (retrodatate da Rodbertus alla seconda metà del decennio ‘30-40) «Marx ha attinto e lo si può dimostrare, la maggior parte della sua critica». Posso a ragione supporre, fino a che non ci sia più ampia dimostrazione, che tutta la «dimostrabilità» di questa asserzione consiste nel fatto che Rodbertus ne ha dato assicurazione al signor Meyer. Nel 1879 Rodbertus stesso entra in scena e scrive a J. Zeller (Zeitschrift für die gesammte Staatswis senschaft di Tubinga, 1879, p. 219), riferendosi al proprio scritto Per la conoscenza delle condizioni della nostra economia pubblica (1842), quanto segue: «Ella troverà che lo stesso» (il corso delle idee ivi svolto) «è già stato da Marx... bellamente utilizzato, naturalmente senza citarmi». Cosa che il suo postumo editore Th. Kozak senz’altro ripete pedissequamente (Rodbertus, Il capitale, Berlino, 1884, Introduzione, p. XV). Infine, in Lettere e articoli politico-sociali del Dott. Rodbertus-Jagetzow editi nel 1881 da R. Meyer, Rodbertus dice addirittura: «Oggi mi vedo saccheggiato da Schäffle e da Marx senza esser nominato» (Lettera n. 60, p. 134). E in un altro passo, la pretesa di Rodbertus assume forma più definita: «Di dove scaturisca il plusvalore del capitalista ho mostrato nella mia terza lettera sociale in sostanza alla stessa maniera di Marx, solo con molto maggior brevità e chiarezza» (Lettera n. 48, p. 111). Di tutte queste accuse di plagio, Marx non aveva mai avuto sentore. Nel suo esemplare della Lotta per l’emancipazione erano state tagliate soltanto le pagine che concernono l’Internazionale, a tagliare le altre ho provveduto io stesso soltanto dopo la sua morte. Egli non vide mai la rivista di Tubinga. Le Lettere ecc. a R. Meyer gli rimasero ugualmente sconosciute, e soltanto nel 1884 la mia attenzione venne, dalla bontà dello stesso signor R. Meyer, richiamata sul passo, per via del «saccheggio» Invece Marx conosceva la lettera n. 48; il signor Meyer aveva avuto la compiacenza di regalare l’originale alla figlia più giovane di Marx. Marx, al quale senza dubbio era giunto all’orecchio qualche misterioso mormorio secondo cui le fonti segrete della sua critica dovevano ricercarsi presso Rodbertus, me la mostrò, osservando che qui egli aveva finalmente una informazione autentica su ciò che Rodbertus stesso pretendeva; se questi non affermava null’altro, per lui, Marx, poteva anche andare; e se Rodbertus riteneva la propria esposizione più breve e più chiara, questo piacere poteva anche lasciarglielo. Di fatto, egli considerò chiusa l’intera faccenda con questa lettera di Rodbertus. Tanto più lo poteva, in quanto, come so di positivo, l’intera attività letteraria di Rodbertus gli era rimasta sconosciuta fin verso il 1859, quando egli aveva già ultimato la sua critica della economia politica non soltanto nelle linee fondamentali ma anche nei particolari più importanti. Egli iniziò i suoi studi economici nel 1843 a Parigi con i grandi inglesi e francesi; dei tedeschi conosceva soltanto Rau e List, e ne aveva a sufficienza. Né Marx né io sapevamo nemmeno dell’esistenza di Rodbertus, fino a che nel 1848 non avemmo a criticare sulla Neue Rheinische Zeitung i suoi discorsi in quanto deputato berlinese, e le sue azioni in quanto ministro. Eravamo tanto ignari, che interrogammo i deputati renani per sapere chi mai fosse questo Rodbertus, che così ad un tratto era divenuto ministro. Ma neppure essi seppero dirci nulla sugli scritti economici dì Rodbertus. Che al contrario Marx, anche senza l’ausilio di Rodbertus, sapesse già allora molto bene non soltanto donde ma anche come «scaturisca il plusvalore del capitalista», lo dimostrano la Misère de la philosophie del 1847 e le conferenze sul lavoro salariato e il capitale tenute a Bruxelles nel 1847 e pubblicate nel 1849 nella Neue Rheinische Zeitung, nn. 264-69. Soltanto attraverso Lassalle Marx apprese, intorno al 1859, che esisteva anche un economista Rodbertus, e trovò poi al British Museum la sua «terza lettera sociale». Questo il complesso dei fatti. Come stanno ora le cose quanto al contenuto, del quale Marx avrebbe «saccheggiato» Rodbertus? «Di dove scaturisca il plusvalore del capitalista», dice Rodbertus, «ho mostrato nella mia terza lettera sociale in sostanza alla stessa maniera di Marx, solo con maggior brevità e chiarezza». Dunque, questo è il nocciolo: la teoria del plusvalore; e di fatto, non si può dire che cosa altro mai Rodbertus potesse reclamare presso Marx come sua proprietà. Rodbertus dunque si dichiara qui il reale autore della teoria del plusvalore, che Marx gli avrebbe saccheggiato. E che cosa ci dice la terza lettera sociale sull’origine del plusvalore? Semplicemente che la «rendita», giacché egli confonde rendita del suolo e profitto, non nasce da una aggiunta di valore al valore della merce, bensì «in seguito ad una sottrazione di valore che il salario subisce, in altre parole: perchè il salario ammonta ad una parte soltanto del valore del prodotto del lavoro» e, data una sufficiente produttività del lavoro, «non è necessario che sia uguale al naturale valore di scambio del suo prodotto affinché di questo rimanga ancora a sufficienza per una sostituzione di capitale (!) e una rendita». Dove non ci viene detto che razza di «valore naturale di scambio» del prodotto sia quello del quale non rimane nulla per «una sostituzione di capitale», quindi anche per una sostituzione della materia prima e del logorio degli strumenti di lavoro. Fortunatamente ci è permesso di constatare quale impressione fece su Marx questa storica scoperta di Rodbertus. Nel manoscritto Per la critica ecc., nel quaderno X, pp. 445 sgg., si trova una «Digressione. Il signor Rodbertus. Una nuova teoria della rendita fon diana». La terza lettera sociale viene qui considerata soltanto da questo punto di vista. La teoria del plusvalore di Rodbertus in generale viene sbrigata con l’ironica osservazione: «Il signor Rodbertus ricerca dapprima come appare la cosa in un paese in cui possesso fondiario e possesso del capitale non siano divisi, e perviene poi all’importante risultato che la rendita (con la quale egli intende l’intero plusvalore) è semplicemente pari al lavoro non pagato, ossia alla quantità di prodotti in cui esso è rappresentato». L’umanità capitalistica già da diversi secoli ormai ha prodotto plusvalore, e gradatamente è giunta anche a farsi delle idee sulla sua origine. La prima opinione fu quella derivante dalla diretta pratica commerciale: il plusvalore scaturisce da una aggiunta sul valore del prodotto. Essa dominò tra i mercantilisti, ma già James Steuart intravide il fatto che ciò che l’uno guadagna l’altro deve necessariamente perdere. Ciononostante, tale opinione continuò ad essere di moda, specialmente tra i socialisti; ma dall’economia classica venne eliminata per opera di A. Smith. Egli dice, in Wealth of Nations, Libro I, cap. VI: «Non appena nelle mani di singoli si è accumulato capitale (stock), alcuni tra essi naturalmente lo impiegheranno per mettere al lavoro personale diligente e fornire a questo materie prime e mezzi di vita, onde, per mezzo della vendita dei prodotti del suo lavoro, ovvero per mezzo di ciò che il suo lavoro ha aggiunto al valore di quelle materie prime, trarre un profitto... il valore che i lavoratori aggiungono alle materie prime, si risolve qui in due parti, delle quali una paga il loro salario, l’altra il profitto dell’imprenditore, sull’intero ammontare delle materie prime e dei salari, da lui anticipato». E più oltre: «Quando il suolo di un paese è diventato interamente proprietà privata, i proprietari fondiari amano, come anche altra gente, raccogliere dove non hanno seminato, ed esigono una rendita fondiaria anche per i prodotti naturali del suolo... Il lavoratore.., deve cedere al proprietario fondiario una porzione di ciò che il suo lavoro ha raccolto e prodotto. Questa porzione, o, ciò ch’è lo stesso, il prezzo di questa porzione, costituisce la rendita fondiaria». Rispetto allo stesso passo, Marx osserva nel già menzionato manoscritto Per la critica ecc., p. 253: «A. Smith intende dunque qui il plusvalore, cioè il pluslavoro, l’eccedenza del lavoro compiuto, ed oggettivato nella merce, sul lavoro pagato, dunque sul lavoro che ha ricevuto il suo equivalente in salario, come la categoria generale di cui il vero e proprio profitto e la rendita fondiaria sono sol tanto ramificazioni». Inoltre A. Smith dice, Libro I, cap. VIII: «Quando il suolo è diventato proprietà privata, il proprietario fondiario esige una porzione di quasi tutti i prodotti che il lavoratore può produrre o raccogliere su di esso. La sua rendita fondiaria compie la prima sottrazione dal prodotto del lavoro impiegato sul terreno. Ma il coltivatore del suolo ha raramente i mezzi per mantenersi fino al momento in cui ripone il raccolto. Il suo mantenimento d’ordinario gli viene anticipato dal capitale (stock) di un imprenditore, del fittavolo, il quale non avrebbe alcun interesse ad impiegarlo se egli non dividesse con lui il prodotto del suo lavoro, ovvero se il suo capitale non gli venisse restituito, unitamente ad un profitto. Questo profitto costituisce una seconda sottrazione dal lavoro impiegato sul terreno. Il prodotto di quasi ogni lavoro è sottoposto alla stessa sottrazione a favore del profitto. In tutte le industrie, la maggior parte dei lavoratori ha bisogno di un imprenditore che anticipi loro materie prime, salario e mantenimento fino al compimento del lavoro. Questo imprenditore divide con essi il prodotto del loro lavoro, ossia il valore che questo lavoro aggiunge alle materie prime lavorate, e in questa porzione consiste il suo profitto». Marx dice a questo proposito (Manoscritto, p. 256): «Qui dunque A. Smith con parole secche designa rendita fondiaria e profitto del capitalista come pure e semplici sottrazioni dal prodotto del lavoratore, o dal valore del suo prodotto, pari al lavoro da esso aggiunto alla materia prima. Ma questa sottrazione può, come lo stesso A. Smith aveva spiegato precedentemente, constare solo della parte del lavoro che il lavoratore aggiunge alle materie prime, oltre alla quantità di lavoro che paga soltanto il suo salario o fornisce solo un equivalente per il suo salario, dunque può constare del pluslavoro, della parte non pagata del suo lavoro». «Donde scaturisca il plusvalore del capitalista» e, per giunta, quello del proprietario fondiario, dunque, già A. Smith sapeva bene; Marx lo riconosce francamente già nel 1861, mentre Rodbertus e lo sciame dei suoi ammiratori spuntati come funghi sotto la calda pioggia del socialismo di Stato, sembrano averlo totalmente dimenticato. «Tuttavia», prosegue Marx, «Smith non ha distinto il plusvalore in quanto tale, come categoria propria, dalle forme particolari che esso assume nel profitto e nella rendita fondiaria. Donde in lui, come ,ancor più in Ricardo, molti errori e deficienze nella ricerca». Questa frase si può applicare perfettamente per Rodbertus. La sua «rendita» è semplicemente la somma di rendita fondiaria + profitto; intorno alla rendita fondiaria egli costruisce una teoria totalmente falsa, il profitto egli lo prende, senza esame, cosi come lo trova presso i suoi predecessori. Al contrario, il plusvalore di Marx è la forma generale della somma di valore appropriata senza equivalente dai possessori dei mezzi di produzione, la quale, secondo leggi del tutto peculiari, scoperte da Marx per primo, si scinde nelle forme particolari, trasmutate, di profitto e rendita fondiaria. Queste leggi verranno sviluppate nel III Libro, dove soltanto risulterà quanti termini medi siano necessari per giungere, dalla comprensione del plusvalore in generale, alla comprensione della sua trasformazione in profitto e rendita fondiaria, dunque alla comprensione delle leggi della ripartizione del plusvalore all’interno della classe dei capitalisti. Ricardo va già notevolmente al di là di Smith. Egli fonda la sua concezione del plusvalore su una nuova teoria del valore, che era bensì già presente in germe in Smith, ma nella trattazione, di fatto, quasi sempre dimenticata, teoria che è divenuta il punto di partenza di tutta la scienza economica posteriore. Dalla determinazione del valore della merce mediante la quantità di lavoro realizzata nelle merci, egli deriva la ripartizione tra operai e capitalisti della quantità di valore aggiunta alle materie prime mediante il lavoro, la sua scissione in salario e profitto (cioè, qui, plusvalore). Egli dimostra che il valore delle merci rimane lo stesso per quanto possa mutare il rapporto di queste due parti, una legge alla quale egli concede soltanto singole eccezioni. Egli pone addirittura alcune leggi fondamentali sul reciproco rapporto fra salario e plusvalore (inteso nella forma del profitto), anche se in una redazione troppo generale (Marx, Capitale, I, cap. XV, 1) e indica la rendita fondiaria come una eccedenza oltre il profitto, che si verifica in determinate circostanze. In nessuno di questi punti Rodbertus è andato oltre Ricardo. Le interne contraddizioni della teoria di Ricardo, di fronte alle quali la sua scuola naufragò, o gli rimasero totalmente sconosciute, ovvero lo indussero soltanto (Per la conoscenza ecc., p. 150) a rivendicazioni utopistiche anziché a soluzioni economiche. Ma la dottrina ricardiana del valore e del plusvalore non aveva bisogno di attendere il Per la conoscenza ecc. di Rodbertus, per essere utilizzata in senso socialista. A p. 617 del primo volume del Capitale si trova la citazione: «The possessors of surplus produce or capita!» da uno scritto: The Source and Remedy of the National Difficulties. A Letter to Lord John Russeil, Londra, 1821. In questo scritto, della cui importanza già «surplus produce or capita!» avrebbe dovuto rendere avvertiti, e che è un opuscolo di 40 pagine strappato da Marx al suo oblio, è detto: «Qualunque cosa possa spettare al capitalista» (dal punto di vista del capitalista) «egli può sempre appropriarsi soltanto il plus lavoro (surplus labour) del lavoratore, perchè il lavoratore deve vivere» (p. 23). Ma come il lavoratore viva e quanto grande sia perciò il pluslavoro che il capitalista si appropria, è molto relativo. «Se il capitale non decresce in valore nella proporzione in cui cresce in massa, il capitalista estorcerà al lavoratore il prodotto di ogni ora di lavoro al di là del minimo del quale il lavoratore può vivere.., il capitalista può infine dire al lavoratore: tu non devi mangiare pane perchè si può vivere di barbabietole e patate; e a questo siamo giunti» (p. 24). «Se il lavoratore può essere portato fino al punto di nutrirsi di patate anziché di pane, è incontestabilmente esatto che dal suo lavoro si possa guadagnare di più; cioè, se per vivere di pane egli era costretto, per mantenere sè e la sua famiglia, a ritenere per sè il lavoro del lunedì e del martedì, col nutrimento a patate egli riterrà per sè soltanto la metà del lunedì; e l’altra metà del lunedì e l’intero martedì verranno resi disponibili a vantaggio dello Stato o per il capitalista» (p. 26). «Non si contesta (it is admitted) che gli interessi pagati al capitalista, in forma di rendita o di interessi di denaro o di profitto di impresa, vengono pagati dal lavoro di altri» (p. 23). Qui dunque abbiamo in tutto e per tutto la «rendita» di Rodbertus, soltanto, anzichè «rendita», è detto interessi. Marx osserva a questo proposito (Manoscritto Per la critica ecc., p. 852): «Questo opuscolo quasi sconosciuto — apparso nel tempo in cui L’” incredibile ciabattino” Mac Culloch cominciava a far parlare di sè — presenta un importante progresso rispetto a Ricardo. Esso designa direttamente il plusvalore, o “profitto” come lo chiama Ricardo (spesso anche plusprodotto, surplus produce), o interest, come lo chiama l’autore dell’opuscolo, come surplus labour, pluslavoro, il lavoro che il lavoratore compie gratis, che egli compie oltre la quantità di lavoro mediante la quale viene sostituito il valore della sua forza-lavoro, quindi viene prodotto un equivalente per il suo salario. Come era importante risolvere il valore in lavoro, così era importante risolvere il plusvalore (surplus value), che si presenta come un plusprodotto (surplus produce), in pluslavoro (surplus labour). Di fatto, ciò è già detto in A. Smith, e costituisce un momento capitale nello sviluppo di Ricardo. Ma in essi non è espresso e fissato in alcun luogo nella forma assoluta». È detto poi più oltre, a p. 859 del Manoscritto: «Per il resto, l’autore è prigioniero delle categorie economiche, come le trova belle e fatte. Proprio come in Ricardo lo scambio tra plusvalore e profitto conduce a spiacevoli contraddizioni, così avviene in lui, giacché chiama interessi di capitale il plusvalore. Certo, egli va oltre Ricardo per il fatto che, innanzitutto, riduce tutto il plusvalore a pluslavoro e, chiamando interessi di capitale il plusvalore, sottolinea insieme il fatto che sotto interest of capital intende la forma generale del pluslavoro, distinguendola dalle sue forme particolari, rendita, interessi di denaro e profitto di impresa. Ma egli assume come nome della forma generale il nome di una di queste forme particolari, interest. E ciò è sufficiente perchè ricada di nuovo nel gergo economico (nel Manoscritto c’è: slang)». Quest’ultimo passo calza a pennello al nostro Rodbertus. Anch’egli è prigioniero delle categorie economiche, come le trova belle e fatte. Anch’egli battezza il plusvalore col nome di una delle sue trasmutate sottoforme, che per di più rende completamente indeterminata: rendita. Il risultato di questi due grossolani equivoci è che egli ricade nel gergo economico, non continua criticamente il suo progresso oltre Ricardo e si lascia invece indurre a prospettare la sua incompleta teoria, prima ancora che sia uscita dal guscio, a fondamento di una utopia con la quale, come dappertutto, arriva troppo tardi. L’opuscolo apparve nel 1821, e anticipa già completamente la «rendita» di Rodbertus del 1842. Il nostro opuscolo è solo l’estremo avamposto di tutta una letteratura che fra i 1820 e il ‘30 volge la teoria ricardiana del valore e del plusvalore nell’interesse del proletariato contro la produzione capitalistica e combatte la borghesia con le sue proprie armi. Tutto il comunismo di Owen, in quanto si presenta sotto un aspetto economico-polemico, si fonda su Ricardo. Accanto a lui, però, ancora tutta una schiera di scrittori, dei quali Marx già nel 1847 cita soltanto alcuni contro Proudhon (Misère de la philosophie, p. 49). Edmonds, Thompson, Hodgskin ( Ed. it. cit., p. 57. Hodgskin è da correggere in Hopkins. Vedi la nota a p. 23 della stessa edizione della Miseria della filosofia), ecc. ecc. «e ancora quattro pagine di eccetera», Da questa congerie di scritti, ne scelgo solo uno a caso: An Inquiry into the Principles of the Distribution of Wealth, most conducive to Human Happiness, di William Thompson; nuova edizione, Londra, 1850. Questo scritto composto nel 1822 comparve per la prima volta nel 1824. Anche qui la ricchezza appropriata dalle classi non produttive viene ovunque designata come sottrazione dal prodotto del lavoratore, e ciò con espressioni abbastanza forti. «La aspirazione costante di ciò che noi chiamiamo società consisteva nell’indurre con l’inganno o la persuasione, la paura o la costrizione, il lavoratore produttivo a compiere il lavoro, dietro compenso della più piccola parte possibile del prodotto del suo stesso lavoro» (p. 28). «Perché il lavoratore non deve ricevere l’intero prodotto assoluto del suo lavoro?» (p. 32). «Questo compenso che i capitalisti estorcono al lavoratore produttivo sotto il nome di rendita fondiaria o profitto, viene preteso per l’uso del suolo o di altri oggetti... Poichè tutte le materie fisiche, sulle quali, o per mezzo delle quali, il lavoratore produttivo non possessore, che non possiede altro che la sua capacità di produrre, può far valere questa sua capacità di produzione, sono in possesso di altri, i cui interessi sono opposti ai suoi e il cui con senso è una condizione preliminare della sua attività, non dipende forse e non deve dipendere dalla grazia di questi capitalisti, quale parte dei frutti del suo stesso lavoro essi vogliono che tocchi a lui come risarcimento per questo lavoro? (p. 125)... rispetto alla grandezza del prodotto trattenuto, si chiamino tassazione, profitto o furto... queste sottrazioni» (p. 126) ecc. Confesso di scrivere queste righe non senza una certa vergogna. Che la letteratura anticapitalistica inglese degli anni venti e trenta sia così totalmente sconosciuta in Germania, nonostante che Marx già nella Misère de la philosophie abbia fatto direttamente riferimento ad essa, e molte cose — l’opuscolo del 1821, Ravenstone, Hodgskin ecc. — abbia più volte citato nel primo volume del Capitale — questo ancora passi. Ma che non soltanto il literatus vulgaris, «il quale realmente non ha ancora imparato nulla», si aggrappi disperatamente alle falde di Rodbertus, ma anche il professore in carica e titolo, il quale «si pavoneggia della sua erudizione», abbia dimenticato la sua economia classica fino al punto di rimproverare seriamente Marx di avere sottratto a Rodbertus cose che si possono leggere già in A. Smith e in Ricardo, ciò dimostra quanto in basso sia caduta oggi la scienza economica ufficiale. Ma che cosa di nuovo ha detto Marx sul plusvalore? Come avviene, che la teoria del plusvalore di Marx sia caduta come un fulmine a ciel sereno, e ciò in tutti i paesi civili, mentre le teorie di tutti i suoi predecessori socialisti, Rodbertus compreso, sono scomparse senza lasciar traccia? La storia della chimica ci può offrire un ‘utile esempio. Ancora verso la fine del secolo scorso dominava, com’è noto, la teoria flogistica, secondo la quale l’essenza di ogni combustione consisteva nel fatto che dal corpo comburente si separa un altro corpo ipotetico, una materia combustibile assoluta, che veniva designata con il nome di flogisto. Questa teoria riusciva a spiegare la maggior parte dei fenomeni chimici allora conosciuti, se pure, in molti casi, non senza qualche violenza. Ora, nel 1774 Priestley descrisse una specie di aria «che trovò così pura, ossia così immune da flogisto, che l’aria comune al suo confronto appariva già corrotta». Egli la chiamò: aria deflogistizzata. Poco dopo Scheele in Svezia descrisse la stessa specie di aria, e ne dimostrò la presenza nell’atmosfera. Egli trovò pure che essa scompare se si brucia un corpo in essa o nell’aria comune, e la chiamò perciò aria di fuoco. «Da questi risultati trasse quindi la conclusione che la combinazione che nasce dall’unione del flogisto con una delle parti costitutive dell’aria» (dunque dalla combustione) «altro non è che fuoco o calore, che fugge attraverso il vetro»[2] Sia Priestley che Scheele avevano descritto l’ossigeno, ma non sapevano che cosa avessero tra le mani. Essi «rimanevano prigionieri delle categorie “flogistiche” così come le avevano trovate belle e fatte». L’elemento che doveva rovesciare tutta la concezione flogistica e rivoluzionare la chimica, era caduto infruttuosamente nelle loro mani. Ma Priestley subito dopo comunicò la propria scoperta a Lavoisier a Parigi, e Lavoisier, avendo a disposizione questo fatto nuovo, sottopose ad esame l’intera chimica flogistica, e scoperse solo che questa specie di aria era un nuovo elemento chimico, e che nella combustione non si diparte dal corpo comburente il misterioso flogisto, ma che questo nuovo elemento si combina con il corpo; così soltanto egli mise in piedi l’intera chimica, che nella sua forma flogistica se ne stava a testa in giù. E se anche non ha descritto, come più tardi ha preteso, l’ossigeno contemporaneamente agli altri e indipendentemente da essi, tuttavia egli rimane il vero e proprio scopritore dell’ossigeno di fronte a quei due, i quali lo hanno meramente descritto, senza minimamente sospettare che cosa avessero descritto. Come Lavoisier rispetto a Priestley e Scheele, così è Marx rispetto ai suoi predecessori per quanto riguarda la teoria del plusvalore. L’esistenza della parte di valore dei prodotti che noi ora chiamiamo plusvalore era stata stabilita molto prima di Marx; con maggiore o minore chiarezza, era stato altresì espresso in che cosa esso consista, cioè nel prodotto del lavoro per il quale colui che se lo appropria non ha pagato alcun equivalente. Ma non si andava oltre. Gli uni — gli economisti borghesi classici — indagavano tutt’al più il rapporto di grandezza secondo il quale il prodotto del lavoro si ripartisce tra il lavoratore e il possessore dei mezzi di produzione. Gli altri — i socialisti — trovavano ingiusta questa ripartizione e con mezzi utopistici cercavano di eliminare l’ingiustizia Entrambi restavano prigionieri delle categorie economiche così come le avevano trovate. Qui interviene Marx. E in diretta opposizione con tutti i suoi predecessori. Là dove questi avevano visto una soluzione, egli vide soltanto un problema. Egli vide che qui non c’era aria deflogistizzata né aria di fuoco, ma ossigeno, che si trattava non della pura e semplice constatazione di un fatto economico, né del conflitto di questo fatto con la giustizia eterna e la vera morale, bensì di un fatto che era chiamato a sovvertire l’intera economia, e che forniva la chiave per la comprensione dell’intera produzione capitalistica, per chi avesse saputo utilizzarla. Fondandosi su questo fatto, egli esaminò tutte le categorie già trovate, come Lavoisier fondandosi sull’ossigeno aveva esaminato le categorie già esistenti della chimica flogistica. Per sapere che cosa fosse il plusvalore, egli doveva sapere che cosa fosse il valore. Innanzitutto, doveva essere sottoposta alla critica la stessa teoria del valore di Ricardo. Marx esaminò dunque il lavoro nella sua qualità di formatore di valore e stabilì per la prima volta quale lavoro, e perchè, e come esso forma il valore, e che il valore in generale non è altro che lavoro di questa specie coagulato, un punto che Rodbertus fino all’ultimo non ha compreso. Marx esaminò poi il rapporto, tra merce e denaro, e dimostrò come e perchè, in forza della qualità di valore ad essa immanente, la merce e lo scambio di merci debbano generare la opposizione tra merce e denaro; la sua teoria del denaro su ciò fondata è la prima teoria esauriente, e oggi generalmente accettata senza discussione. Egli esaminò la trasformazione del denaro in capitale e dimostrò come essa poggi sulla compra-vendita della forza-lavoro. Ponendo qui la forza-lavoro, la proprietà di creare valore, al posto del lavoro, risolse d’un colpo una delle difficoltà per la quale era crollata la scuola di Ricardo: l’impossibilità di far concordare il reciproco scambio tra capitale e lavoro, con la legge ricardiana della determinazione del valore attraverso il lavoro. Soltanto constatando la distinzione del capitale in costante e variabile, Marx pervenne a descrivere fin nei minimi particolari, e con ciò a spiegare, il processo della formazione del plusvalore nel suo effettivo svolgersi; ciò che nessuno dei suoi predecessori aveva compiuto; egli constatò dunque una differenza all’interno del capitale stesso, dalla quale Rodbertus così come gli economisti borghesi non erano stati capaci di cavar nulla, ma che fornisce la chiave per la soluzione dei più intricati problemi economici, di cui qui di nuovo il II Libro — e ancor più, come si mostrerà, il III Libro — è la più convincente - dimostrazione. Egli continuò a indagare il plusvalore stesso, e trovò le sue due forme: plusvalore assoluto e relativo, e mostrò le due parti differenti, ma ugualmente decisive, che esso ha sostenuto nello sviluppo storico della produzione capitalistica. Sul fondamento del plusvalore, egli sviluppò la prima teoria razionale del salario che noi possediamo, e per la prima volta fornì le linee fondamentali di una storia dell’accumulazione capitalistica ed una esposizione della sua tendenza storica. E Rodbertus? Dopo aver letto tutto ciò, egli vi trova — come sempre economista di tendenza! — una «irruzione nella società», trova che egli stesso ha già detto con maggior brevità e chiarezza donde abbia origine il plusvalore, e trova infine che tutto ciò si adatta si «alla odierna forma del capitale», cioè al capitale quale esiste storicamente, ma non «al concetto di capitale», cioè alla utopistica rappresentazione che del capitale si è fatto il signor Rodbertus. Proprio come il vecchio Priestley, il quale fino alla morte giurò sul flogisto e non ne volle sapere dell’ossigeno. Solo che Priestley realmente descrisse per primo l’ossigeno, mentre Ròdbertus nel suo plusvalore, o piuttosto nella sua «rendita», ha riscoperto soltanto un luogo comune, e che Marx, a differenza di Lavoisier, non pretese di essere il primo ad aver scoperto il fatto dell’esistenza del plusvalore. Tutto il resto che ha compiuto Rodbertus nel campo dell’economia sta allo stesso livello. La sua elaborazione del plusvalore in senso utopistico è stata già criticata non intenzionalmente da Marx nella Misère de la philosophie; quanto ancora c’era da dire al riguardo, l’ho detto nella prefazione alla traduzione tedesca di quello scritto. La sua spiegazione delle crisi commerciali con il sottoconsumo della classe operaia si trova già nei Nouveaux principes de l’économie politique, Libro IV, cap. IV[3] del Sismondi. Solo che Sismondi guardava sempre al mercato mondiale, mentre l’orizzonte di Rodbertus non oltrepassa i confini della Prussia. Le sue speculazioni, se il salario derivi dal capitale o dal reddito, appartengono alla scolastica e sono definitivamente liquidate con la terza sezione di questo Il Libro del Capitale. La sua teoria della rendita è rimasta sua esclusiva proprietà, e può continuare a sonnecchiare finché non apparirà il mano scritto di Marx che la critica. Infine le sue proposte per la emancipazione della vecchia proprietà fondiaria prussiana dalla pressione del capitale sono a loro volta del tutto utopistiche; infatti, trascurano la sola questione pratica di cui in realtà si tratta, la questione: come può il vecchio agrario prussiano incassare anno per anno poniamo 20.000 marchi e spenderne poniamo 30.000 e tuttavia non fare debiti? La scuola di Ricardo verso il 1830 naufragò contro il plusvalore. Ciò che essa non poté risolvere, rimase tanto più insolubile per l’economia volgare, che le successe. I due punti contro i quali essa rovinò erano i seguenti: Primo: il lavoro è la misura del valore. Ma il lavoro vivente nello scambio con il capitale ha un valore minore del lavoro oggettivato contro il quale viene scambiato. Il salario, il valore di una determinata quantità di lavoro vivente, è sempre minore del valore del prodotto che viene prodotto da questa stessa quantità di lavoro vivente, ossia nel quale questa si rappresenta. Posta così, la questione, di fatto, è insolubile. Essa venne formulata esattamente da Marx, e con ciò risolta. Non è il lavoro ad avere un valore. In quanto attività creatrice di valore, esso non può avere un valore particolare così come la gravità non può avere un determinato peso, il calore una determinata temperatura, l’elettricità una determinata intensità di corrente. Non è il lavoro ad essere comprato e venduto come merce, ma la forza-lavoro. Non appena essa diviene merce, il suo valore si adegua al lavoro ad essa incorporato, in quanto prodotto sociale, è pari al lavoro socialmente necessario per la sua produzione e riproduzione. La compra-vendita di forza-lavoro sulla base di questo suo valore non contraddice dunque in alcun modo alla legge economica del valore. Secondo: in base alla legge ricardiana del valore, due capitali che siano uguali per quantità e impieghino lavoro vivente ugualmente pagato, essendo uguali tutte le altre circostanze, producono in uguali periodi prodotti di ugual valore, e parimenti plusvalore o profitto di uguale grandezza. Se invece impiegano disuguali quantità di lavoro vivente, non possono produrre plusvalore, o, come dicono i ricardiani, profitto di uguale grandezza. In realtà avviene il contrario. Di fatto, capitali uguali, indipendentemente dalla quantità più o meno grande di lavoro vivente che impiegano, in tempi uguali producono in media profitti uguali. Qui c’è dunque una contraddizione con la legge del valore, contraddizione già trovata da Ricardo e che la sua scuola fu parimenti incapace di risolvere. Anche Rodbertus non poté fare a meno di vedere questa contraddizione: anziché risolverla, egli ne fece il punto di partenza della sua utopia (Per la conoscenza ecc., p. 131). Marx aveva risolto questa contraddizione già nel manoscritto Per la critica ecc.; la soluzione è data, secondo il piano del Capitale, nel III Libro. Prima della sua pubblicazione, passeranno ancora dei mesi. Dunque, gli economisti che vogliono scoprire in Rodbertus la fonte segreta ed un più grande predecessore di Marx, hanno qui un’occasione per mostrare a che cosa può servire l’economia di Rodbertus. Se essi dimostrano che non soltanto senza pregiudizio della legge del valore, ma piuttosto sul fondamento di essa, può e deve formarsi un uguale saggio medio di profitto, allora continueremo a discutere con loro. Intanto, abbiano la compiacenza di affrettarsi. Le brillanti ricerche di questo Il Libro ed i suoi risultati interamente nuovi in campi finora pressoché inesplorati, sono soltanto premesse al contenuto del III Libro, che sviluppa i risultati finali dell’esposizione fatta da Marx del processo sociale di riproduzione su base capitalistica. Quando questo III Libro sarà apparso, non si parlerà quasi più di un economista Rodbertus. Il II ed il III Libro del Capitale, come Marx mi disse più volte, dovevano essere dedicati a sua moglie. Londra, nell’anniversario della nascita di Marx, 5 maggio 1885. Friedrich Engels La presente seconda edizione, quanto alle cose fondamentali, è una ristampa letterale della prima. Gli errori di stampa sono stati corretti, alcune trascuratezze stilistiche eliminate, soppressi alcuni brevi capoversi contenenti unicamente ripetizioni. Il III Libro, che ha offerto difficoltà del tutto inaspettate, è ora pure quasi pronto nel manoscritto. Se la salute me lo concede, potrò iniziarne la stampa già questo autunno. Londra, 15 luglio 1893. F. Engels NOTE [1] Nella prefazione a: La miseria della filosofia. Risposta alla Filosofia della miseria di Proudhon di K. MARX, trad. tedesca di E. Bernstein e K. Kautsky, Stoccarda 1885 [Edizione italiana: Edizioni Rinascita, Roma, 1950 (II ediz.), p. 9 sgg.]. [2] ROSCOE-SCHORLEMMER, Ausführliches Lehrbuch der Chemie, Braunschweig, 1877, I, pp. 13-18. [3] «Così dunque con la concentrazione delle fortune nelle mani di un piccolo numero di proprietari, il mercato interno si contrae sempre più e l’industria è sempre più costretta a cercare i suoi sbocchi nei mercati stranieri, dove la minacciano più grandi rivoluzioni» (cioè la crisi del 1817, che viene descritta subito dopo). Nouveaux principes, ed. 1819, parte I, p. 336. |