IL CAPITALE LIBRO II SEZIONE II LA ROTAZIONE DEL CAPITALE CAPITOLO 13 IL TEMPO DI PRODUZIONE Il tempo di lavoro è sempre tempo di produzione, cioè tempo durante il quale il capitale è vincolato nella sfera della produzione. Ma, inversamente, non tutto il tempo durante il quale il Capitale si trova nel processo di produzione è perciò anche necessariamente tempo di lavoro. Si tratta qui non delle interruzioni del processo lavorativo che sono condizionate dai confini naturali della forza-lavoro stessa, sebbene si sia mostrato quanto la pura e semplice circostanza per cui il capitale fisso, edifici di fabbriche, macchinario ecc., giace ozioso durante le pause del processo lavorativo, sia diventata uno dei motivi dell’innaturale prolungarsi del processo lavorativo e del lavoro ininterrotto, giorno e notte. Si tratta qui di una interruzione indipendente dalla durata del processo lavorativo, condizionata dalla natura del prodotto e della sua stessa fabbricazione, durante la quale l’oggetto del lavoro è sottoposto a processi naturali che durano più o meno a lungo, deve compiere trasformazioni fisiche, chimiche, fisiologiche, durante le quali il processo lavorativo è sospeso del tutto o in parte. Così il vino spremuto deve fermentare per un certo tempo e poi di nuovo riposare per un certo tempo, per raggiungere un determinato grado di stagionatura. In molti rami d’industria, il prodotto deve subire un essiccamento, come nella ceramica, o essere esposto a!l’azione di determinate circostanze per mutare la sua composizione chimica, come nel candeggio. Il grano invernale ha bisogno d circa nove mesi per la maturazione. Tra il tempo della semina e il tempo del raccolto il processo lavorativo è quasi del tutto interrotto. Nella silvicoltura, una volta terminata la semina e i lavori preparatori ad essa necessari, il seme abbisogna di circa 100 anni Per essere trasformato in prodotto finito; durante tutto questo tempo, esso abbisogna di un’azione di lavoro relativamente assai insignificante. In tutti questi casi, durante una gran parte del tempo di produzione soltanto sporadicamente viene aggiunto lavoro addizionale Il rapporto descritto nel capitolo precedente, per cui al capitale già immobilizzato nel processo di produzione dev’essere aggiunto capitale addizionale e lavoro, avviene qui soltanto con interruzioni più o meno lunghe. In tutti questi casi, dunque, il tempo di produzione del capi tale anticipato consta di due periodi: un periodo, nel quale il capitale si trova nel processo lavorativo; un secondo periodo, in cui la sua forma di esistenza — quella di prodotto non finito — è abbandonata all’azione di processi naturali, senza trovarsi nel processo lavorativo. Il fatto che ambedue questi periodi sporadicamente si incrocino e si inseriscano l’uno nell’altro, non cambia nulla alla cosa. Periodo di lavoro e periodo di produzione qui non coincidono. Il periodo di produzione è maggiore del periodo di lavoro. Ma soltanto dopo aver tra il periodo di produzione il prodotto è finito, maturo, trasformabile quindi dalla forma di capitale produttivo in quella di capitale-merce. Secondo la durata del tempo di produzione che non consta di tempo di lavoro, si prolunga dunque anche il suo periodo di rotazione. In quanto il tempo di produzione eccedente il tempo di lavoro non è determinato da leggi naturali date una volta per tutte, come per la maturazione del grano, la crescita delle querce, ecc., il periodo di rotazione spesso può essere più o meno abbreviato mediante abbreviazione artificiale del tempo di produzione. Così, mediante l’introduzione del candeggio chimico in luogo del candeggio sui prati, mediante essiccatoi più efficaci nei processi di essiccamento. Così nella concia, in cui la penetrazione del tannino nelle pelli secondo il vecchio metodo portava via da 6 a 18 mesi, secondo quello nuovo, in cui viene impiegata la pompa ad aria, da un mese e mezzo a due mesi. (J. G. COURCELLE-SENEUIL, Traité théorique et pratique des entreprìses industrielles ecc., Parigi, 1857, H ed.). L’esempio più grandioso di abbreviazione artificiale del puro e semplice tempo di produzione occupato da processi naturali, lo offre la storia della produzione del ferro e particolarmente la trasformazione del ferro grezzo in acciaio degli ultimi 100 anni, dal puddling scoperto nel 1780 fino al moderno processo Bessemer ed ai più moderni procedimenti da allora introdotti. Il tempo di produzione è stato enormemente abbreviato, ma nella stessa misura è stato aumentato l’investimento in capitale fisso. Un esempio particolare della disparità tra il tempo di produzione e il tempo di lavoro lo fornisce la fabbricazione americana di forme da scarpe. Qui una parte importante delle spese deriva dal fatto che il legno deve giacere immagazzinato fino a 18 mesi per la stagionatura affinché in seguito il pezzo finito non si contragga, non alteri la sua forma. Durante questo tempo, il legno non passa per nessun altro processo lavorativo. Il periodo di rotazione del capitale investito, perciò, è determinato non soltanto dal tempo richiesto per la fabbricazione delle forme stesse, ma anche dal tempo durante il quale esso giace ozioso nel legno che si stagiona. Esso si trova per 18 mesi nel processo di produzione, prima di poter entrare nel vero proprio processo lavorativo. L’esempio mostra contemporaneamente quanto i tempi di rotazione di differenti parti del capitale circolante complessivo possono essere differenti in seguito a circostanze che non scaturiscono entro la sfera della circolazione, ma dal processo di produzione. La distinzione tra tempo di produzione e tempo di lavoro emerge in modo particolarmente chiaro nell’agricoltura. Nei nostri climi temperati, la terra produce grano una volta all’anno. L’abbreviarsi o il prolungarsi del periodo di produzione (per la semina invernale in media nove mesi) dipende esso stesso a sua volta dall’alternarsi di annate buone o cattive, perciò non è esattamente determinabile e controllabile prima, come nell’industria vera e propria. Solo prodotti accessori, latte, formaggio ecc., sono correntemente producibili e vendibili in periodi più brevi. Invece il tempo di lavoro si presenta come segue: «Il numero delle giornate lavorative nelle diverse regioni della Germania, in relazione alle condizioni climatiche e alle altre condizioni determinanti, per i tre principali periodi di lavoro sarà da presumere: per il periodo di primavera, dalla fine di marzo o principio di aprile fino alla metà di maggio, 50-60 giornate di lavoro; per il periodo estivo, dal principio di giugno fino alla fine di agosto, 65-80; e per il periodo autunnale, dal principio di settembre fino alla fine di ottobre o metà o fine di novembre, 55-75. Per l’inverno, sono da considerare meramente i lavori da assolvere in esso, come trasporto di concime, legname, mercato, costruzioni ecc.» (F. KIRCHH0F, Handbuch der landwirtschaftlichen Betriebslehre, Dessau, 1852, p. 160). Perciò, quanto più sfavorevole è il clima, tanto più si condensa in un breve spazio di tempo il periodo di lavoro dell’agricoltura, e perciò l’esborso in capitale e lavoro. Ad esempio in Russia. Là, in alcune Contrade nordiche, il lavoro dei campi è possibile solo per 130-150 giorni all’anno. Si comprende quale perdita dovrebbe sopportare la Russia se 50 dei 65 milioni della sua popolazione europea rimanessero senza lavoro durante i sei o otto mesi invernali, nei quali deve cessare ogni lavoro dei campi. A parte i 200.000 contadini che lavorano nelle 10.500 fabbriche della Russia, dovunque nei villaggi si sono sviluppate industrie domestiche proprie. Così ci sono villaggi nei quali tutti i contadini da generazioni sono tessitori, conciatori, calzolai, fabbri, coltellinai, ecc., particolarmente ciò avviene nei governatorati di Mosca, Vladimir, Kaluga, Kostroma e Pietroburgo. Fra parentesi, ormai quest’industria domestica viene sempre più costretta al servizio della produzione capitalistica; ai tessitori, ad esempio, ordito e trama vengono forniti da commercianti, direttamente o per mezzo di intermediari. (Estratto da: Reports by H. M. Secretaries of Embassy and Legation on the Manufactures, Commerce ecc., n. 8. 1865, pp. 86, 87). Si vede qui come la disparità di periodo di produzione e periodo di lavoro, il quale ultimo costituisce soltanto una parte del primo, costituisca il naturale fondamento dell’unione dell’agricoltura con l’industria agricola collaterale, come, d’altra parte, quest’ultima a sua volta divenga un punto d’appoggio per il capitalista, che da principio vi si introduce come commerciante. In quanto poi la produzione capitalistica produce più tardi la separazione tra manifattura e agricoltura, il lavoratore agricolo diventerà sempre più dipendente da occupazioni accessorie puramente casuali, e in tal modo la sua situazione verrà peggiorata. Per il capitale, come si vedrà in seguito, tutte le differenze si compensano nella rotazione, per il lavoratore no. Mentre nella massima parte delle branche dell’industria vera e propria, mineraria, dei trasporti ecc., l’esercizio è regolare, anno per anno si lavora con un uguale tempo di lavoro, e, prescindendo da oscillazioni dei prezzi, perturbazioni negli affari ecc., considerate interruzioni anormali, gli esborsi per il capitale che entra nel quotidiano processo di circolazione sono suddivisi ugualmente; mentre, altresì, restando invariate le altre condizioni del mercato, anche il riflusso del capitale circolante, ossia il suo rinnovo, si suddivide lungo l’anno in periodi uguali, negli esborsi di capitale in cui il tempo di lavoro costituisce soltanto una parte del tempo di produzione, nel corso dei diversi periodi dell’anno si verifica la massima ineguaglianza nell’esborso di capitale circolante, mentre il riflusso avviene tutto in una volta, al tempo fissato dalle condizioni naturali. A pari dimensioni d’impresa, cioè a pari grandezza del capitale circolante anticipato, esso dev’essere perciò anticipato in più grandi quantità, in una sola volta e per più lungo tempo, che nelle imprese a periodo di lavoro continuo. Anche la durata del capitale fisso qui si distingue di più dal tempo in cui esso opera realmente in modo produttivo. Con la differenza tra tempo di lavoro e tempo di produzione, naturalmente anche il tempo d’uso del capitale fisso impiegato viene continuamente interrotto per un tempo più o meno lungo, come ad esempio nell’agricoltura per il bestiame da lavoro, attrezzi e macchine. In quanto questo capitale fisso consta di bestiame da lavoro, esso esige continuamente le stesse, o quasi, spese in foraggio ecc., che durante il tempo in cui lavora. Per mezzi di lavoro inanimati, anche il non uso determina una certa svalorizzazione. Si verifica, dunque, in generale un rincaro del prodotto, in quanto si calcola la cessione di valore al prodotto non secondo il tempo in cui il capitale fisso opera, ma secondo il tempo in cui perde valore. In questi rami di produzione, il giacere ozioso del capitale fisso, sia o no accompagnato ancora da spese correnti, costituisce una condizione del suo impiego normale, così come ad esempio la perdita di una certa quantità di cotone nella filatura; e parimenti per ogni processo lavorativo conta la forza- lavoro spesa in condizioni tecniche normali improduttivamente ma inevitabilmente, proprio come quella produttiva. Ogni miglioramento che diminuisca la spesa improduttiva di mezzi di lavoro, materie prime e forza-lavoro, diminuisce anche il valore del prodotto. Nell’agricoltura confluiscono ambedue le cose, la più lunga durata del periodo di lavoro e la grande differenza fra tempo di lavoro e tempo di produzione. Hodgskin osserva giustamente al riguardo: «La differenza fra il tempo» (sebbene egli qui non distingua tra tempo di lavoro e tempo di produzione) «che è richiesto per approntare i prodotti dell’agricoltura e quello degli altri rami di lavoro, è l’origine principale del notevole stato di dipendenza in cui si trovano gli agricoltori. Essi non possono portare le loro merci sul mercato in un tempo più breve di un anno. Durante tutto questo spazio di tempo, essi devono prendere a credito dal calzolaio, dal sarto, dal fabbro, dal carrozziere e da diversi altri produttori dei cui prodotti essi hanno bisogno, e i cui prodotti vengono approntati in pochi giorni o settimane. In conseguenza di questa circostanza naturale, e in conseguenza del più rapido aumento della ricchezza negli altri rami di lavoro, i proprietari fondiari che hanno monopolizzato il suolo di tutto il Regno, sebbene si siano per di più appropriati il monopolio della legislazione, sono tuttavia incapaci di far valere se stessi e i loro servi, i fittavoli, dalla sorte di diventare il ceto più dipendente del paese». (Thomas HODGSKIN, Popular Political Economy, Londra, 1827, p. 147, nota). Tutti i metodi mediante i quali in parte le spese in salario e mezzi di lavoro nell’agricoltura vengono ripartite più regolarmente lungo l’intero anno, in parte viene abbreviata la rotazione, essendo creati prodotti più vari ed essendo così possibili differenti raccolti durante l’anno, richiedono un ingrandimento del capitale circolante anticipato nella produzione, sborsato in salario, concime, sementi ecc. Così nel passaggio dal triplice avvicendamento della coltivazione con maggese alla rotazione senza maggese. Così nelle cultures dérobées delle Fiandre. «Si prendono le piante a radice commestibile nella culture dérobée; lo stesso campo reca dapprima cereali, lino, colza per i bisogni degli uomini, e piante a radice commestibile seminate dopo il raccolto, per il mantenimento del bestiame. Questo sistema, per il quale il bestiame cornuto può rimanere continuamente nelle stalle, dà un considerevole ammassarsi di concime e diviene così il perno della rotazione agricola. Più di un terzo della superficie coltivata nelle regioni sabbiose viene trasformato in cultures dérobées ed è proprio come se si fosse aumentata di un terzo l’estensione della terra coltivata». Accanto alle piante a radici commestibili, si usano anche il trifoglio e altre erbe da foraggio. «L’agricoltura così portata a un punto in cui passa nell’orticoltura richiede naturalmente un capitale d’investimento relativamente considerevole. In Inghilterra si calcolano che siano investiti 250 franchi di capi tale per ogni ettaro. Nelle Fiandre, i nostri contadini troverebbero probabilmente troppo basso un capitale di investimento di 500 franchi per ettaro». (EMILE DE LAVELEYE, Essais sur l’économie rurale de la Belgique, Parigi, 1863, p. 45, 46, 48). Prendiamo infine la silvicoltura. «La produzione del legname si distingue dalla maggior parte delle altre produzioni essenzialmente in ciò, che in essa la forza della natura opera autonomamente e, in caso di rinnovo naturale, non ha bisogno della forza dell’uomo e del capitale. Del resto, anche là dove i boschi vengono artificialmente rinnovati, l’impiego della forza dell’uomo e del capitale accanto all’opera delle forze naturali è assai piccolo. Inoltre, il bosco prospera anche su qualità del suolo e in luoghi in cui i cereali non attecchiscono più, o in cui la loro produzione non conviene più. La coltura boschiva esige però anche, per un’economia regolata... un’area più grande che non la coltura dei cereali, dacché in lotti più piccoli non è effettuabile un taglio secondo le regole dell’economia forestale, l’utilizzazione accessoria per lo più va perduta, la tutela del patrimonio forestale è più difficile da esercitare, ecc. Il processo di produzione è però anche legato a così lunghi spazi di tempo, che va oltre i piani di un’economia privata, talvolta addirittura oltre il tempo di una vita umana Il capitale investito per l’acquisto di un suolo boschivo» (nella produzione comune questo capitale non esiste, e il problema è soltanto: quanto terreno la comunità può sottrarre al terreno coltivato e al pascolo, per la produzione boschiva) «infatti soltanto dopo lungo tempo porta frutti remunerativi, e compie una rotazione solo parziale, mentre ne compie una totale, per determinate specie di legname, in uno spazio di tempo che giunge fino a 150 anni. Inoltre la produzione durevole di legname esige a sua volta una scorta di legno vivo, che ammonta da dieci a quaranta volte il ricavato annuo. Perciò chi non ha altre entrate e possiede considerevoli distese di boschi, non può condurre un’economia forestale regolare». (KIRCHHOF p. 58). Il lungo tempo di produzione (che include solo una durata relativamente breve del tempo di lavoro), e la lunghezza dei periodi di rotazione che ne deriva, fa della silvicoltura un ramo di esercizio privato, e perciò capitalistico, svantaggioso; nell’essenza quest’ultimo è esercizio privato, anche se al posto. del singolo capitalista compare il capitalista associato. Lo sviluppo della civiltà e dell’industria in generale si è sempre mostrato così attivo nella distruzione dei boschi, che, al paragone, tutto ciò che essa fa invece per la loro conservazione e produzione è una grandezza assolutamente infinitesimale. Particolarmente degno di osservazione nella citazione di Kirchhof è il passo seguente: «Inoltre la produzione durevole del legname esige a sua volta una scorta di legno vivo, che ammonta da dieci a quaranta volte il ricavato annuo». Dunque, una sola rotazione in un periodo da dieci a quarant’anni e più. Lo stesso avviene nell’allevamento del bestiame. Una parte dell’armento (scorta di bestiame) resta nel processo di produzione, mentre un’altra parte dello stesso viene venduta come prodotto annuo. Soltanto una parte del capitale compie qui una rotazione annua, proprio come accade per il capitale fisso, macchinario, bestiame da lavoro, ecc. Sebbene questo capitale sia capitale fisso nel processo di produzione per più lungo tempo e prolunghi così la rotazione del capitale complessivo, esso non costituisce capitale fisso in senso categorico. Ciò che viene qui chiamato scorta — una determinata quantità d legno o bestiame vivo — si trova in modo relativo nel processo di produzione (contemporaneamente come mezzo di lavoro e come materiale di lavoro); secondo le condizioni naturali della sua riproduzione, in un’azienda ben regolata, una parte importante deve Sempre trovarsi in questa forma. Similmente opera sulla rotazione un’altra specie di scorta, che costituisce solo capitale produttivo potenziale, ma in conseguenza della natura dell’azienda dev’essere ammucchiata in masse più o meno grandi, perciò anticipata alla produzione per più lungo tempo, sebbene entri solo progressivamente nel processo attivo di produzione. A questa specie appartiene, ad esempio, il concime, prima che venga portato sul campo, e altresì grano, fieno ecc., e quelle scorte di mezzi di sussistenza che entrano nella produzione del bestiame. «Una parte considerevole del capitale d’esercizio è contenuta nelle scorte dell’azienda. Queste possono però perdere più o meno del loro valore quando non vengano adottate in modo appropriato quelle misure di precauzione richieste per la loro buona conservazione; anzi, per difetto di cura, una parte delle scorte di prodotti può addirittura andare totalmente perduta per l’azienda. Sotto questo riguardo, si richiede perciò prima di tutto una sorveglianza accurata dei granai, fienili e cantine, così come bisogna sempre chiudere bene i magazzini e inoltre tenerli puliti, aerarli ecc.; i cereali e altri frutti destinati alla conservazione devono di tanto in tanto essere debitamente rivoltati, le patate e le carote devono essere protette sufficientemente contro il gelo così come contro acqua e putrefazione, ecc.» (KIRCHH0F, p. 292). «Nel calcolare il bisogno personale, specialmente per l’allevamento del bestiame, in cui bisogna seguire la ripartizione secondo il prodotto e lo scopo, non bisogna badare soltanto alla copertura del bisogno, ma in più anche a che rimanga ancora una scorta adeguata per casi imprevisti. Nel caso che il bisogno non sia coperto completamente dal prodotto proprio, occorre, innanzitutto, prendere in considerazione se non si possa coprire questa mancanza mediante altri prodotti (surrogati) ovvero acquistarne più a buon mercato al posto di quelli mancanti. Se, ad esempio, dovesse verificarsi una deficienza di fieno, essa può essere compensata con barbe con aggiunta di paglia. In generale, a questo riguardo si deve tenere sempre presente il valore della cosa e il prezzo di mercato dei differenti prodotti e in conformità disporre per il consumo; se, ad esempio, l’avena è più cara, mentre piselli e segale sono relativamente più a buon mercato, si può vantaggiosamente sostituire con piselli o segale una parte dell’avena per i cavalli, e vendere l’avena così risparmiata, ecc. » (ivi, p. 300). Nel considerare la formazione di scorte, si è già osservato sopra come sia richiesta una determinata quantità più o meno grande di capitale produttivo potenziale, cioè di mezzi di produzione desti nati alla produzione, che dovrebbero essere disponibili in masse più o meno grandi per entrare a poco a poco nel processo di produzione. È stato osservato al riguardo che per una data impresa industriale o per un’impresa capitalistica di determinata entità, la grandezza di questa scorta di produzione dipende dalla maggiore o minore difficoltà del suo rinnovo, dalla relativa vicinanza dei mercati d’approvvigionamento, dallo sviluppo dei mezzi di trasporto e comunicazione, ecc. Tutte queste circostanze agiscono sul minimo di capitale che deve esistere nella forma di scorta produttiva, quindi sullo spazio di tempo per il quale si devono fare gli anticipi di capitale e sul volume della massa di capitale da anticipare in una sola volta. Questo volume, che quindi influisce anche sulla rotazione, viene condizionato dal tempo più o meno lungo per il quale il capitale circolante nella forma di scorta produttiva giace fermo come capitale produttivo puramente potenziale. D’altra parte, in quanto questo ingorgo dipende dalle maggiori o minori possibilità di una rapida sostituzione, dalle condizioni di mercato ecc., esso a sua volta scaturisce dal tempo di circolazione, da circostanze che appartengono alla sfera di circolazione. «Inoltre tutti questi oggetti da inventano o accessori, come utensili, crivelli, ceste, corde, sugna, chiodi ecc. devono tanto più essere presenti come scorta per una immediata sostituzione, quanto meno si abbia nelle vicinanze la possibilità di procurarseli rapidamente. Infine, ogni inverno la attrezzatura dev’essere accuratamente riveduta e si deve provvedere immediata mente al suo completamento e alle riparazioni necessarie. In generale sono le condizioni locali che principalmente determinano se si debbano tenere scorte maggiori o minori per i bisogni dell’attrezzatura. Là dove non siano nelle vicinanze artigiani e negozi, si devono tenere scorte più grandi che non là dove se ne trovino sul posto o molto vicini. Se, rimanendo invariate le altre condizioni, si acquistano in una sola volta e in più grandi quantità le scorte necessarie, si ottiene di regola il vantaggio dell’acquisto a buon mercato, purché si sia scelto all’uopo un momento opportuno; certamente però a questo modo si sottrae in una sola volta al capitale d’esercizio che circola una somma tanto più grande, della quale non sempre Si può tranquillamente privare l’esercizio dell’azienda » (KIRCHH0F, p. 301). La differenza tra tempo di produzione e tempo di lavoro rende possibili, come abbiamo visto, casi assai differenti. Il capitale circolante può trovarsi nel tempo di produzione prima di entrare nel vero e proprio processo lavorativo (fabbricazione di forme di Scarpe); oppure si trova nel tempo di produzione dopo aver compiuto il vero e proprio processo lavorativo (vino, grano da semina); ovvero il tempo di produzione viene interrotto a tratti dal tempo di lavoro (agricoltura, silvicoltura); una gran parte del prodotto capace di circolare resta incorporata nel processo attivo di produzione, mentre una parte molto più piccola entra nella circolazione annua (silvicoltura, allevamento del bestiame); il periodo di tempo maggiore o minore per il quale dev’essere sborsato capitale circolante nella forma di capitale produttivo potenziale, quindi anche la massa maggiore o minore in cui questo capitale dev’essere sborsato in una sola volta, scaturisce in parte dal genere del processo di produzione (agricoltura), e in parte dipende dalla vicinanza di mercati ecc., insomma da circostanze che appartengono alla sfera della circolazione. Si vedrà in seguito (Libro III) quali assurde teorie abbia originato presso MacCulloch, James Mill ecc., il tentativo di identificare il tempo di produzione, non coincidente con il tempo di lavoro, con quest’ultimo; un tentativo che, a sua volta, scaturisce da un’errata applicazione della teoria del valore. Il ciclo di rotazione che abbiamo considerato è dato dalla durata del capitale fisso che è stato anticipato al processo di produzione. Poiché quest’ultimo comprende una serie più o meno lunga di anni, comprende anche una serie di rotazioni del capitale fisso annue, oppure ripetute durante l’anno. Nell’agricoltura, un tale ciclo di rotazione deriva dal sistema dell’avvicendamento. «La durata dell’affitto, in ogni caso, non può essere più breve di quel che indica il tempo di rotazione dell’avvicendamento introdotto, perciò nella coltivazione a triplice avvicenda mento viene sempre calcolata con 3, 6, 9 ecc. Supponendo un triplice avvicendamento e puro maggese, però, il campo in sei anni viene coltivato solo quattro volte, e negli anni di coltivazione l’avvicendamento avviene con cereali invernali ed estivi e, se la composizione del suolo esige o permette anche con grano e segale, orzo e avena. Ogni specie di cereali si riproduce allora sullo stesso terreno più o meno delle altre, ognuna ha un valore diverso e viene anche venduta a un prezzo diverso. Perciò il raccolto di un campo riesce diverso ogni anno di coltivazione, diverso anche nella prima metà della circolazione» (i primi tre anni) «diverso nella seconda. Anche il provento medio nel tempo di circolazione non è ugualmente grande nell’uno come nell’altro, giacché la fertilità dipende non soltanto dal la bontà del suolo ma anche dall’andamento meteorologico dell’annata, così come il prezzo dipende da parecchie condizioni variabili. Se si calcola il provento del campo secondo le annate produttive medie dell’intero tempo di circolazione per sei anni e secondo i prezzi medi di esso, si è trovato il provento totale per un anno tanto nell’uno quanto nell’altro tempo di circolazione. Tuttavia ciò non avviene se il provento viene calcolato soltanto per la metà del tempo di circolazione, cioè per tre anni, giacché il provento totale riuscirebbe allora disuguale. Da ciò deriva che la durata dell’affitto per la coltivazione a triplice avvicendamento deve essere fissata almeno in sei anni. Cosa assai più desiderabile e vantaggiosa per fittavoli e concedenti è però sempre che il tempo di affitto ammonti a un multiplo del tempo di affitto [Evidentemente un errore di Kirchhof per: tempo di circolazione. Red. IMEL] (proprio così! F. E.) e dunque per l’avvicendamento triplice, anziché a 6, sia stabilito a 12, 18 e anche più anni, per l’avvicendamento a sette colture invece, anziché a 7, a 14, 28 anni» (KIRCHHOF, pp. 117, 118). (A questo punto il manoscritto reca: «La rotazione agricola inglese. Fare qui delle note». F. E.) |