IL CAPITALE LIBRO I SEZIONE VII IL PROCESSO DI ACCUMULAZIONE DEL CAPITALE CAPITOLO 21RIPRODUZIONE SEMPLICE Qualunque sia la forma sociale del processo di produzione, questo o dev’essere continuativo o deve sempre tornar a percorrere periodicamente gli stessi stadi. Come una società non può smettere di consumare, così non può smettere di produrre. Quindi ogni processo sociale di produzione, considerato in un nesso continuo e nel fluire costante del suo rinnovarsi, è insieme processo di riproduzione. Le condizioni della produzione sono insieme condizioni della riproduzione. Nessuna società può produrre in continuazione, cioè riprodurre, senza riconvertire in continuazione una parte dei suoi prodotti in mezzi di produzione ossia in elementi di una produzione nuova. Rimanendo uguali per ogni altro verso le circostanze, la società può riprodurre o conservare la propria ricchezza sulla stessa scala soltanto reintegrando in natura per esempio i mezzi di produzione cioè mezzi di lavoro, materie prime, materie ausiliarie consumati durante l’anno, con una quantità eguale di nuovi articoli dello stesso genere, che vengono distaccati dalla massa annua dei prodotti e vengono incorporati di nuovo nel processo di produzione. Dunque una quantità determinata del prodotto annuo spetta alla produzione: destinata fin dal principio al consumo produttivo, essa esiste in gran parte in forme naturali che escludono di per sè il consumo individuale. Se la produzione ha forma capitalistica, l’avrà anche la riproduzione. Come nel modo di produzione capitalistico il processo lavorativo si presenta solo come mezzo del processo di valorizzazione, così la riproduzione si presenta come semplice mezzo per riprodurre come capitale, cioè come valore che si valorizza, il valore anticipato. La maschera economica caratteristica di capitalista rimane aderente all’uomo soltanto perché il suo denaro funziona in continuazione come capitale. Se per esempio quest’anno la somma di denaro anticipata di 1200 € si è convertita in capitale e ha prodotto un plusvalore di 240 €, essa deve ripetere la stessa operazione l’anno prossimo e così via. Il plusvalore, come incremento periodico del valore del capitale ossia frutto periodico del capitale nel suo procedere, assume la forma di un reddito che nasce dal capitale[1]. Se questo reddito serve al capitalista solo come fondo di consumo ossia se viene consumato periodicamente come è periodicamente ottenuto, ha luogo, eguali rimanendo le altre circostanze, la riproduzione semplice. Ma, benchè quest’ultima sia pura e semplice ripetizione del processo di produzione sulla stessa scala, questa semplice ripetizione ossia questa continuità imprime al processo certi caratteri nuovi o, anzi, dissolve i caratteri apparenti che esso aveva come processo isolato. Il processo di produzione ha inizio con l’acquisto della forza- lavoro per un tempo determinato: e questo inizio si rinnova costantemente, appena viene a scadere il termine di vendita del lavoro, e con esso è trascorso un determinato periodo della produzione, settimana, mese, ecc. Ma l’operaio viene pagato soltanto dopo che la sua forza-lavoro ha operato e ha realizzato in merci tanto il proprio valore che il plusvalore. Quindi l’operaio ha prodotto tanto il plusvalore, che momentaneamente consideriamo solo come fondo di consumo del capitalista, quanto il fondo del proprio pagamento, cioè il capitale variabile, prima che questo gli riaffluisca in forma di salario; ed egli viene occupato soltanto finchè lo riproduce costantemente. Di qui viene la formula degli economisti che presenta il salario come partecipazione al prodotto stesso, e che abbiamo ricordato nel capitolo sedicesimo al numero II[2]. È una parte del prodotto costantemente riprodotto dall’operaio stesso, che gli ritorna costantemente in forma di salario. Certo, il capitalista gli paga in denaro il valore in merci. Ma questo denaro è soltanto la forma trasmutata del prodotto del lavoro o, piuttosto, di una parte del prodotto del lavoro. Mentre l’operaio converte in prodotto una parte dei mezzi di produzione, una parte della sua precedente produzione si riconverte in denaro. È col suo lavoro, della settimana precedente o del l’ultimo semestre che gli viene pagato il suo lavoro di oggi o del semestre successivo. L’illusione generata dalla forma di denaro scompare subito, appena invece del singolo capitalista e del singolo operaio vengono considerate la classe capitalista e la classe operaia. La classe capitalista dà costantemente alla classe operaia, in forma di denaro, assegni su una parte dei prodotti che questa ha prodotto e che la classe capitalista si è appropriata. E l’operaio restituisce anch’esso costantemente quegli assegni alla classe capitalista sottraendole così la parte del proprio prodotto che spetta a lui. La forma di merce del prodotto e la forma di denaro della merce travestono la transazione. Dunque il capitale variabile è soltanto una forma fenomenica storica particolare nella quale si presenta il fondo dei mezzi di sussistenza ossia il fondo di lavoro del quale l’operaio abbisogna per il proprio mantenimento e la propria riproduzione, e che egli deve sempre produrre e riprodurre da sè in tutti i sistemi della produzione sociale. Il fondo di lavoro gli affluisce costantemente in forma di mezzi di pagamento del suo lavoro soltanto perchè il suo proprio prodotto si allontana da lui costantemente in forma di capitale. Ma questa forma fenomenica del fondo di lavoro non cambia nulla al fatto che il capitalista anticipa all’operaio il lavoro oggettivato dell’operaio stesso[3]. Prendiamo un contadino soggetto a servitù feudali: egli lavora coi propri mezzi di produzione sul proprio campo per esempio per 3 giorni alla settimana; negli altri 3 giorni della settimana compie il lavoro cui è soggetto nelle terre del signore. Egli riproduce costantemente il proprio fondo di lavoro, il quale nei suoi confronti non riceve mai la forma di mezzi di pagamento anticipati a compenso del suo lavoro da una terza persona. In cambio però il suo lavoro coatto non retribuito non riceve mai la forma di lavoro volontario e retribuito. Se domani il signore si appropria il campo, il bestiame da tiro, le sementi, in breve i mezzi di produzione del contadino, a costui non rimane d’ora in poi che vendere al signore la propria forza-lavoro. Eguali rimanendo le altre circostanze, egli lavorerà 6 giorni alla settimana, come prima, 3 per sè, 3 per quello che era il padrone feudale, ed ora è trasformato in padrone che gli paga un salario; continuerà a consumare come prima i mezzi di produzione come mezzi di produzione, e a trasferire nel prodotto il loro valore; una certa parte del prodotto passerà come prima nella riproduzione. Ma, come il lavoro servile assume la forma del lavoro salariato, così il fondo di lavoro che il contadino soggetto a prestazioni continua a produrre e riprodurre assume la forma di un capitale anticipatogli da quello che era il suo signore feudale. L’economista borghese, il cui cervellino ristretto non è in grado di separare la forma fenomenica da ciò che in essa si presenta, chiude gli occhi dinanzi al dato di fatto che nell’orbe terracqueo anche oggigiorno il fondo di lavoro si presenta solo eccezionalmente nella forma di capitale[4]. Certo, il capitale variabile perde il significato d’un valore anticipato dal fondo proprio del capitalista4a soltanto quando consideriamo il processo di produzione capitalistico nel fluire costante del suo rinnovarsi. Ma questo processo deve pur cominciare a un certo momento e in qualche punto. Quindi dal punto di vista che abbiamo tenuto finora è verosimile che il capitalista, una qualche volta, sia diventato possessore di denaro mediante una qualche accumulazione originaria non dipendente da lavoro altrui non retribuito, e che quindi abbia potuto entrare nel mercato come acquirente di forza-lavoro. Però la semplice continuità del processo di produzione capitalistico ossia la riproduzione semplice opera anche altre strane variazioni che non agiscono soltanto sulla parte variabile del capitale, ma anche sul capitale complessivo. Se il plusvalore generato periodicamente, per esempio annualmente, con un capitale di 12.000 € ammonta a 2400 €, e se questo plusvalore viene consumato di anno in anno, è chiaro che dopo una ripetizione quinquennale dello stesso processo la somma del plusvalore consumato è eguale a 2400 per cinque, cioè è eguale al valore capitale di 12.000 € originariamente anticipato. Se il plusvalore annuo venisse consumato solo parzialmente, per esempio solo per metà, lo stesso risultato si avrebbe dopo una ripetizione decennale del processo di produzione, poichè 1.200 x 10 = 12.000. In generale: il valore capitale che viene anticipato, diviso per il plusvalore annualmente consumato, dà il numero degli anni ossia il numero dei periodi di riproduzione, trascorsi i quali il capitale originariamente anticipato è stato consumato dal capitalista e quindi è scomparso. Che il capitalista s’immagini di consumare il prodotto del lavoro altrui non retribuito, il plusvalore, e di conservare il valore capitale originario, non può cambiar nulla a questo stato di fatto. Decorso un certo numero d’anni, il valore capitale del quale egli è proprietario, è eguale al totale del plusvalore che egli si è appropriato senza equivalente durante lo stesso numero d’anni, e la somma di valore da lui consumata è eguale al valore capitale originario. Certo, egli conserva un capitale la cui grandezza non si è cambiata, una parte del quale, edifici, macchine, ecc esisteva già quando egli mise in moto la sua impresa. Ma qui si tratta del valore del capitale e non delle sue parti costitutive materiali. Se qualcuno consuma tutto quel che possiede facendo debiti che ammontano a una somma eguale al valore di quel che possiede, tutto il suo possesso rappresenta per l’appunto solo la somma totale dei suoi debiti. E così pure, se il capitalista ha consumato l’equivalente del suo capitale anticipato, il valore di questo capitale rappresenta ormai soltanto la somma totale del plusvalore che egli si è appropriato senza alcuna spesa. Non continua più ad esistere neppure un atomo del valore del suo vecchio capitale. Dunque, prescindendo completamente da ogni accumulazione, la pura e semplice continuità del processo di produzione, ossia la riproduzione semplice, converte necessariamente ogni capitale, dopo un periodo più o meno lungo, in capitale accumulato cioè in plusvalore capitalizzato. Anche se al suo ingresso nel processo di produzione questo capitale era proprietà, frutto del lavoro personale di colui che lo adopera, prima o poi esso diventa valore appropriato senza equivalente, ossia materializzazione, in forma di denaro o altra, di lavoro altrui non retribuito. Nel quarto capitolo abbiamo visto che per trasformare denaro in capitale non bastava che ci fossero la produzione e la circolazione delle merci. Bisognava prima che si trovassero l’uno di fronte all’altro come acquirente e venditore qua il possessore di valore ossia denaro, là il possessore della sostanza che crea il valore; qua il possessore di mezzi di produzione e di mezzi di sussistenza, là il possessore di nient’altro che forza-lavoro. Dunque il fondamento realmente dato, il punto di partenza del processo di produzione capitalistico è stato il distacco fra il prodotto del lavoro e il lavoro stesso, fra le condizioni oggettive del lavoro e la forza lavorativa soggettiva. Ma attraverso la pura e semplice continuità del processo cioè attraverso la riproduzione semplice, quel che all’inizio era solo punto di partenza, torna sempre ad esser prodotto di nuovo e viene perpetuato come risultato proprio della produzione capitalistica. Da una parte il processo di produzione converte continuamente in capitale, cioè in mezzi di valorizzazione e di godimento per il capitalista, la ricchezza dei materiali. Dall’altra parte l’operaio esce costantemente dal processo come vi era entrato: fonte personale di ricchezza, ma spoglio di tutti i mezzi per realizzare per sè questa ricchezza. Poichè prima della sua entrata nel processo il suo stesso lavoro è stato alienato a lui, appropriato al capitalista e incorporato al capitale, durante il processo il suo lavoro si oggettiva costantemente in prodotti altrui. Poichè il processo di produzione è insieme processo di consumo della forza-lavoro da parte del capitalista, il prodotto del lavoratore non solo si converte continuamente in merce ma anche in capitale: valore che succhia la forza creatrice di valore, mezzi di sussistenza che acquistano persone, mezzi di produzione che adoperano il produttore[5]. Quindi l’operaio stesso produce costantemente la ricchezza oggettiva in forma di capitale, potenza a lui estranea, che lo domina e lo sfrutta, e il capitalista produce con altrettanta costanza la forza- lavoro in forma di fonte soggettiva di ricchezza, separata dai suoi mezzi di oggettivazione e di realizzazione, astratta, che esiste nella pura e semplice corporeità dell’operaio, in breve, egli produce l’operaio come operaio salariato[6]. Questa costante riproduzione ossia perpetuazione dell’operaio è il sine qua non della produzione capitalistica. Il consumo dell’operaio è di duplice specie. Nella produzione, l’operaio consuma col suo lavoro mezzi di produzione e li trasforma in prodotti di un valore superiore a quello del capitale anticipato. Questo è il consumo produttivo dell’operaio, che è insieme consumo della sua forza-lavoro da parte del capitalista che l’ha comprata. Dall’altra parte l’operaio trasforma in mezzi di sussistenza il denaro pagatogli per l’acquisto della sua forza-lavoro: questo è il suo consumo individuale. Dunque il consumo produttivo e il consumo individuale dell’operaio sono totalmente differenti. Nel primo egli agisce come forza motrice del capitale e appartiene al capitalista; nel secondo appartiene a se stesso e compie funzioni vitali estranee al processo di produzione. Il risultato del primo è la vita del capitalista, il risultato del secondo è la vita dell’operaio stesso. Quando abbiamo esaminato la «giornata lavorativa » ecc., si è visto che l’operaio è spesso costretto a far del proprio consumo individuale un puro e semplice incidente del processo di produzione. In questo caso egli si dà mezzi di sussistenza per tenere in moto la propria forza-lavoro, come alla macchina a vapore vengono dati acqua e carbone, come alla ruota dà l’olio. E allora i mezzi di consumo dell’operaio sono puri e semplici mezzi di consumo di un mezzo di produzione e di consumo individuale dell’operaio e consumo direttamente produttivo. Eppure questo fatto appare come un abuso, non essenziale per il processo di produzione capitalistico[7]. La cosa assume un altro aspetto appena non consideriamo più il singolo capitalista e il singolo operaio, ma la classe capitalista e la classe operaia, non più il processo isolato di produzione della merce, ma il processo di produzione capitalistico in pieno movimento e in tutto il suo ambito sociale. Quando il capitalista converte una parte del suo capitale in forza-lavoro, valorizza con questa conversione il suo capitale complessivo. Prende due piccioni con una fava. Non trae profitto soltanto da ciò che riceve dall’operaio, ma anche da quello che gli dà. Il capitale alienato in cambio di forza- lavoro viene convertito in mezzi di sussistenza il cui consumo serve a riprodurre muscoli, nervi, ossa, cervello degli operai esistenti e a generarne di nuovi. Dunque, entro i limiti di quanto è assolutamente necessario, il consumo individuale della classe operaia è riconversione dei mezzi di sussistenza, alienati dal capitale in cambio di forza-lavoro, in forza-lavoro di nuovo sfruttabile dal capitale. Esso è produzione e riproduzione del mezzo di produzione più indispensabile per il capitalista, cioè dell’operaio stesso. Il consumo individuale dell’operaio continua dunque ad essere sempre un momento della produzione e della riproduzione del capitale, tanto che avvenga dentro o fuori dell’officina, fabbrica, ecc., dentro o fuori del processo lavorativo, proprio come la pulizia della macchina, tanto che avvenga durante il processo lavorativo o durante determinate pause di questo. A ciò, nulla cambia il fatto che l’operaio compia il proprio consumo individuale per amore di se stesso e non per amore del capitalista. Neppure il consumo delle bestie da soma cessa di essere un momento del processo di produzione per il fatto che il bestiame stesso gusta quello che mangia. La conservazione e la riproduzione costante della classe operaia rimane condizione costante della riproduzione del capitale. Il capitalista può tranquillamente affidare all’istinto di conservazione e di procreazione degli operai il soddisfacimento di questa condizione. Egli provvede soltanto a limitare il più possibile al puro necessario il loro consumo individuale, ed è lontanissimo da quella rozzezza sudamericana che costringe l’operaio a nutrirsi di cibi più sostanziosi invece che di cibi meno sostanziosi[8]. Ed è per questo che il capitalista e il suo ideologo, l’economista politico, considerano produttiva solo quella parte del consumo individuale dell’operaio che è richiesta per la perpetuazione della classe operaia, cioè quella parte che di fatto deve essere consumata affinchè il capitale possa consumare la forza-lavoro; ma quel che l’operaio può aver voglia di consumare in più per proprio piacere, è consumo improduttivo[9]. Se l’accumulazione del capitale determinasse un aumento del salario e quindi un accrescimento dei mezzi di consumo dell’operaio, senza consumo di più forza-lavoro da parte del capitale, il capitale addizionale sarebbe consumato improduttivamente[10]. E di fatto: il consumo individuale dell’operaio è improduttivo per l’operaio stesso, perchè riproduce soltanto l’individuo pieno di bisogni; è produttivo per il capitalista e per lo Stato, perchè è produzione di quella forza che produce la ricchezza degli altri[11]. Dunque dal punto di vista sociale la classe operaia, anche al di fuori dell’immediato processo lavorativo, è un accessorio del capitale quanto il morto strumento di lavoro. Perfino il suo consumo individuale è entro certi limiti solo un momento del processo di riproduzione del capitale. Ma il processo provvede a far sì che questi suoi strumenti autocoscienti della produzione non scappino, spostando continuamente il loro prodotto dal loro polo al polo opposto, quello del capitale. Il consumo individuale da una parte provvede alla loro conservazione e riproduzione, dall’altra, distruggendo mezzi di sussistenza, provvede al loro costante riapparire sul mercato del lavoro. Lo schiavo romano era legato da catene al suo proprietario, il salariato è legato al suo da fila invisibili. L’apparenza della sua autonomia viene mantenuta dal costante variare del padrone individuale e dalla fictio juris del contratto. In passato il capitale faceva valere con leggi coercitive, quando gli sembrava necessario, il suo diritto di proprietà sul libero operaio. Così per esempio in Inghilterra fino al 1815 era vietata, pena gravissime sanzioni, l’emigrazione degli operai impiegati nella costruzione di macchine. La riproduzione della classe operaia implica anche il tramandarsi e l’accumularsi dell’abilità da una generazione all’altra[12]. Fino a che punto il capitalista annoveri fra le condizioni di produzione che gli appartengono l’esistenza di tale classe operaia esperta e abile, considerandola in realtà come esistenza reale del suo capitale variabile, si vede non appena una crisi ne minaccia la perdita. È noto come, in seguito alla guerra civile americana e alla carestia di cotone che ne derivò, la maggior parte degli operai cotonieri del Lancashire ecc. venissero gettati sul lastrico. Dal seno della stessa classe operaia come di altri strati sociali si elevò l’invocazione di un aiuto da parte dello Stato oppure di una colletta nazionale volontaria per rendere possibile l’emigrazione dei «superflui » nelle colonie inglesi o negli Stati Uniti. Allora il Times pubblicò il 24 marzo 1863 una lettera di Edmund Potter, ex presidente della Camera di commercio di Manchester. Alla Camera bassa la sua lettera venne chiamata giustamente « il manifesto dei fabbricanti»[13]. Qui ne diamo alcuni passi caratteristici nei quali viene affermato senza complimenti il titolo di proprietà del capitale sulla forza-lavoro. «Agli operai cotonieri si può dire che la loro offerta è troppo grande... che dovrebbe essere ridotta forse di un terzo, dopo di che ci sarebbe una sana domanda per i rimanenti due terzi... L’opinione pubblica preme per l’emigrazione... Il padrone (cioè l’industriale cotoniere) non può vedere di buon animo allontanarsi la sua provvista di lavoro; può pensare che ciò sia tanto ingiusto quanto errato... Se l’emigrazione viene sovvenzionata con denaro pubblico, egli ha diritto di chiedere ascolto e forse di protestare». Lo stesso Potter spiega poi anche quanto sia utile l’industria del cotone, come essa abbia «indubbiamente prosciugato della popolazione l’Irlanda e i distretti agricoli inglesi», quanto ne sia enorme il volume, come nel 1860 abbia fornito i cinque tredicesimi dell’intero commercio d’esportazione inglese, come, passati alcuni anni, si sarebbe di nuovo estesa per l’allargamento del mercato, particolarmente di quello indiano e con l’imposizione di una sufficiente «importazione di cotone a sei pence la libbra». E poi continua: «Il tempo — uno, due, tre anni forse — produrrà la quantità necessaria... Vorrei poi porre la domanda: non merita conservare questa industria, non merita tener in ordine il macchinario (cioè le macchine viventi da lavoro), non è follia massima pensare a rinunciarvi? Io credo di sì. Ammetterò che gli operai non sono una proprietà («I allow that the workers are not a property»), non sono proprietà del Lancashire e dei padroni; ma essi costituiscono la forza dell’uno e degli altri, sono l’energia intellettuale e addestrata che non può essere sostituita in una generazione; l’altro macchinario, invece, col quale essi lavorano («the mere machinery which they work») potrebbe esser in gran parte vantaggiosamente sostituito e perfezionato in dodici mesi[14]. Incoraggiate o permettete (!) l’emigrazione della forza-lavoro, e che mai ne sarà del capitalista? («Encourage or allow the working power to emigrate, and what of the capitalist?». Questo sospiro sentimentale fa venire in mente il maresciallo di corte Kalb (Personaggio ipocrita del dramma di SCHILLER, Intrigo e amore)) Togliete il fior fiore degli operai, e il capitale fisso sarà deprezzato di molto, e il capitale circolante non si esporrà alla lotta con una scarsa offerta di una specie inferiore di lavoro... Ci si dice che gli operai stessi desiderano l’emigrazione. È del tutto naturale che la desiderino... Riducete, comprimete l’industria del cotone togliendole le sue forze-lavoro («by taking away its working power») e riducendo le spese che queste fanno col loro salario, diciamo di un terzo, cioè di cinque milioni, e che mai sarà allora della classe immediatamente superiore a quella degli operai, quella dei piccoli negozianti? Che sarà delle rendite fondiarie, dei fitti dei cottages ?... Che sarà dei piccoli fittavoli, dei padroni di case un po’ più a modo, dei proprietari fondiari? E diteci ora se ci può essere un progetto più suicida di questo per ogni classe del paese, indebolire la nazione esportando i suoi migliori operai di fabbrica e deprezzando una parte del suo capitale e della sua ricchezza più produttivi?» «Consiglio un prestito di cinque-sei milioni, distribuito su due o tre anni, amministrato da commissari speciali, coordinato alla assistenza ai poveri dei distretti cotonieri, sottoposto a speciali disposizioni di legge, con un certo lavoro coatto per tenere alta la valuta morale dei sussidiati... Ci può essere qualcosa di peggio per dei proprietari fondiari o per dei padroni (« can anything be worse for landowners or masters ») che rinunciare ai loro migliori operai e demoralizzare i rimasti e indisporli con una emigrazione estesa che svuoterebbe una provincia intera di valore e di capitale?». Il Potter, portavoce d’elezione dei fabbricanti cotonieri, distingue due specie di «macchinario», ognuna delle quali appartiene al capitalista; una che sta nella sua fabbrica, l’altra che abita la notte e la domenica fuori della fabbrica, in cottages. Una è morta, l’altra è vivente. Il macchinario morto non solo peggiora e si svaluta ogni giorno, ma una gran parte della sua massa, così com’è, invecchia tanto, continuamente, per il continuo progresso tecnico, da render vantaggioso sostituirla anche in pochi mesi con macchinario nuovo. Il macchinario vivente, invece, più invecchia, più migliora, cioè più accumula in sè l’abilità di generazioni. Il Times rispose al magnate industriale, fra l’altro, come segue: «Il signor E. Potter è così compreso dell’importanza eccezionale e suprema del padrone cotoniere che, per conservare questa classe e perpetuare la sua professione, vuol confinare mezzo milione della classe operaia contro la sua volontà in una grande w o r k h o u s e morale. Merita mantenere questa industria? ci domanda il signor Potter. Certo, rispondiamo noi, con tutti i mezzi onesti. Merita tener in ordine il macchinario? torna a domandare il signor Potter. Qui noi esitiamo. Per macchinario il signor Potter intende il macchinario umano, poichè protesta che egli non si propone di usarlo come proprietà assoluta. Dobbiamo confessare che non riteniamo “che valga la pena ” e neppure che sia possibile tenere in ordine il macchinario umano, cioè rinchiuderlo e tenerlo oliato fino al momento del bisogno. Il macchinario umano, oliatelo pure e strofinatelo come volete, arrugginisce lo stesso nell’inazione. Inoltre, il macchinario umano, come abbiamo visto proprio ora con i nostri occhi, è capace di far entrar sotto pressione il vapore per conto proprio e di scoppiare o di fare il ballo di San Vito nelle nostre grandi città. Ci potrebbe volere un certo tempo, come dice il signor Potter, per la riproduzione degli operai, ma con meccanici e capitalisti sotto mano troveremo sempre uomini industriosi, duri, intraprendenti, per improvvisare più maestri manifatturieri di quanti ci possano mai occorrere... Il signor Potter parla di un ravvivamento dell’industria in uno, due o tre anni, e pretende che noi non incoraggiamo o permettiamo l’emigrazione della forza-lavoro! Dice che è naturale che gli operai desiderino emigrare, ma opina che malgrado il loro desiderio la nazione debba tener chiuso nei distretti cotonieri questo, mezzo milione di operai assieme alle 700.000 persone che ne dipendono; e, come conseguenza necessaria, deve naturalmente ritenere che la nazione debba reprimere con la forza il loro malcontento e mantenerli con l’elemosina: e tutto questo per la possibilità che i padroni cotonieri possano aver ancora bisogno di loro un giorno o l’altro... È giunta l’ora in cui la grande opinione pubblica di queste isole deve far qualcosa per salvare “questa forza-lavoro” da coloro che la tratterebbero come trattano carbone, ferro e cotone» («to save this “working power” from those who would deal with it as they deal with iron, coal and cotton»)[15]. L’articolo del Times era solo un jeu d’esprit. La « grande opinione pubblica» era infatti dell’opinione del signor Potter, che gli operai delle fabbriche sono accessori mobili delle fabbriche. La loro emigrazione fu impedita[16]. Essi furono chiusi nella « workhouse morale» dei distretti cotonieri, e continuano ancora a costituire « la forza (the strength) dei padroni dell’industria del cotone del Lancashire ». Dunque il processo di produzione capitalistico riproduce col suo stesso andamento la separazione fra forza-lavoro e condizioni di lavoro. E così riproduce e perpetua le condizioni per lo sfruttamento dell’operaio. Esso costringe costantemente l’operaio a vendere la sua forza-lavoro, per vivere, e costantemente mette il capitalista in grado di acquistarla, per arricchirsi[17]. Non è più il caso che pone capitalista e operaio l’uno di fronte all’altro sul mercato delle merci come compratore e venditore. È il doppio mulinello del processo stesso che torna sempre a gettare l’operaio sul mercato delle merci come venditore della propria forza-lavoro e a trasformare il suo prodotto in mezzo d’acquisto del capitalista. In realtà, l’operaio appartiene al capitale anche prima di essersi venduto al capitalista. La sua servitù economica[18] mediata e insieme dissimulata dal rinnovamento periodico della sua vendita di se stesso, dal variare del suo padrone salariale individuale e dall’oscillazione nel prezzo di mercato del lavoro[19]. Il processo di produzione capitalistico, considerato nel suo nesso complessivo, cioè considerato come processo di riproduzione, non produce dunque solo merce, non produce dunque solo plusvalore, ma produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall’altra l’operaio salariato [20]. NOTE [1] «I ricchi che consumano i prodotti del lavoro degli altri li possono ottenere soltanto mediante atti di scambio (acquisto merci)... Quindi sembrano esposti a un rapido esaurimento dei loro fondi di riserva... Ma nell’ordine sociale la ricchezza ha acquistato la forza di riprodursi mediante lavoro altrui... La ricchezza dà un frutto annuale, come il lavoro e mediante il lavoro: frutto che può essere distrutto ogni anno senza che il ricco ne diventi più povero. Questo frutto è il reddito che nasce dal capitale » (SISMONDI, Nouveaux Principes ecc., vol. I, pp. 81, 82). [2] « Tanto i salari che i profitti debbono essere considerati gli uni e gli altri come parte del prodotto finito » (RAMSAY, An Essay on the Distribution of Wealth, p. 142). « La quota parte del prodotto che spetta all’operaio sotto forma di salario » (J. MILL Elements of Political Economy, trad. Parisot, Parigi, 1823, pp. 33, 34). [3] «Se si adopera capitale per anticipare i salari degli operai, esso non aggiunge nulla al fondo per la conservazione del lavoro» (CAZENOVE in nota alla sua edizione delle Definitions in Political Economy di Malthus, Londra, 1853, p. 22). [4] «I mezzi di sussistenza degli operai non vengono ancora anticipati dai capitalisti ai lavoratori neppure su un quarto della terra » (RICHARD JONES, Textbook of Lectures on the Political Economy of Nations, Hertford, 1852, p. 36). 4a «Benchè all’operaio manifatturiero il salario venga anticipato dal suo padrone, ciò non rappresenta in realtà nessun costo per quest’ultimo, poichè il valore di questi salari viene reintegrato abitualmente, assieme a un profitto, nel valore migliorato dell’oggetto al quale era stato applicato il lavoro (A. SMITH, Wealth of Nations, libro II cap. III, p. 355). [5] «Questa è una proprietà particolarmente peculiare del lavoro produttivo. Tutto quel che è consumato produttivamente è capitale e diventa capitale attraverso il consumo » (JAMES MILL, Elements of Political Economy, p. 242). Tuttavia J. Mill non è riuscito a individuare questa «proprietà particolarmente peculiare». [6] «È vero infatti che la prima introduzione di una manifattura impiega molti poveri, ma essi non cessano di essere poveri, e la continuazione della manifattura ne genera molti altri » (Reasons for a limited Exportation of Wool, Londra, 1677, p. 19). «Il fittavolo (farmer) afferma ora assurdamente di mantenere i poveri: in realtà sono mantenuti nella povertà » (Reasons for the late Increase of the Poor Rates: or a comparative View of the Prices of Labour and Provisions, Londra, 1777, p. 31). [7] Il Rossi non polemizzerebbe su questo punto con tante enfatiche declamazioni se avesse penetrato realmente il segreto del « productive consumption» . [8] «Gli operai delle miniere dell’America del Sud, il cui lavoro quotidiano (forse il più pesante del mondo) consiste nel portare alla luce del giorno, sulle spalle, dalla profondità di circa 450 piedi, minerale del peso di 180-200 libbre, vivono soltanto di pane e fagioli; preferirebbero nutrirsi di solo pane, ma i loro padroni, i quali hanno scoperto che essi col solo pane non possono lavorare così forte, li trattano come cavalli e li costringono a mangiare fagioli. E i fagioli sono per l’appunto relativamente molto più ricchi del pane in fosfato di calcio » (LIEBIG, Die Chemie in ihrer Anwendung auf Agrikultur und Physiologie, parte I, p. 194, nota). [9] JAME5 MILL, Elements of Political Economy, [trad. cit.], p. 238 e sgg. [10] «Se il prezzo del lavoro dovesse salire tanto che, malgrado l’aumento del capitale, non si potesse impiegare una maggior quantità di lavoro, direi che tale aumento di capitale è consumato improduttivamente » (Ricardo, Principles of Political Economy, p. 163). [11] «L’unico consumo produttivo in senso proprio è il consumo ossia la distruzione di ricchezza » (egli intende il consumo dei mezzi di produzione) «ad opera di capitalisti allo scopo della riproduzione... L’operaio... è consumatore produttivo per la persona che lo impiega e per lo Stato, ma non per se stesso, rigorosamente parlando ». (MALTHUS, Definitions ecc., p. 30). [12] «L’unica cosa della quale si può dire sia immagazzinata e precedentemente preparata è l’abilità dell’operaio... L’accumulazione e l’immagazzinamento di lavoro esperto, operazione importantissima, si compie, per quel che riguarda la gran massa degli operai, senza nessun capitale di nessuna specie » (HODGSKIN, Labour defended against the Claims of Capital, pp. 12, 13). [13] «Questa lettera potrebbe essere considerata il manifesto dei fabbricanti» (FERRAND, Motion sulla Cotton Famine, seduta della Camera dei comuni del 27 aprile 1863). [14] Ci si ricorderà che questo stesso capitale parla in maniera ben diversa nelle circostanze ordinarie, quando si tratta di abbassare i salari. Allora a «i padroni» dichiarano a una sola voce (cfr. quarta sezione, nota 188, p. 389): « Farebbe bene agli operai di fabbrica ricordarsi che il loro lavoro è in realtà una specie molto inferiore di lavoro esperto; che non vi è abilità che sia più facile a far propria, e che, tenuto conto della sua qualità, sia meglio compensata, che non vi è altro lavoro che con un breve addestramento della persona meno esperta possa essere fornito in cosi breve tempo e in tanta abbondanza. Le macchine del padrone » (che, come sentiamo ora, possono essere sostituite dopo dodici mesi, e con perfezionamenti e vantaggio) « hanno di fatto in tutta la produzione una funzione molto più importante del lavoro e dell’abilità dell’operaio » (che ora non possono essere sostituiti neppure in trent’anni) «che può essere insegnata in sei mesi e che ogni servo agricolo può imparare». [15] Times, 24 marzo 1863. [16] Il parlamento non votò neppure un farthing per l’emigrazione, ma invece votò solo leggi che autorizzavano i municipi a tenere gli operai fra vita e morte o a sfruttarli senza pagare salari normali. Ma quando tre anni dopo scoppiò l’epidemia fra i bovini, il parlamento infranse selvaggiamente perfino l’etichetta parlamentare e votò in un batter d’occhio milioni di indennizzo per i landlords milionari, i cui fittavoli poi si erano già indennizzati alzando il prezzo della carne. Il ruggito bestiale dei proprietari fondiari all’apertura del parlamento nel 1866 ha dimostrato che non c’è bisogno di essere indù per adorare la vacca Sabala, nè Giove per trasformarsi in bue. [17] «L’operaio domandava mezzi di sussistenza per vivere, il padrone domandava lavoro per guadagnare (pour gagner) » (SISMONDI, Nouveaux Principes d’Économie Politique, p. 91). [18] Una forma goffa e contadinesca di questa servitù esiste nella contea di Durham. Questa è una delle poche contee dove la situazione non assicura al fittavolo incontestati diritti di proprietà sui braccianti. L’industria mineraria permette a questi ultimi la scelta. Perciò quivi il fittavolo prende in fitto, contro la regola generale, solo terreni dove si trovino già cottages per i lavoratori. La pigione del cottage costituisce parte del salario. Questi cottages vengono chiamati « hind’s houses » [ case dei servi agricoli], e vengono dati a pigione ai lavoratori a condizione di certi obblighi feudali, con un contratto che si chiama « bondage » (servaggio) e che vincola il lavoratore p. es. a far lavorare la figlia per il tempo in cui egli è occupato altrove. Il lavorante stesso è chiamato bondsman, servo. Questo rapporto mostra anche da un punto di vista del tutto nuovo come il consumo individuale del lavoratore sia consumo per il capitale ossia consumo produttivo: « È curioso osservare come anche le feci di questo bondsman entrino nella sportula del suo padrone, buon calcolatore... Il fittavolo non permette che in tutto il vicinato ci sia altra latrina che la sua e non permette al riguardo nessuna infrazione dei suoi diritti di signoraggio » (Public Health, VII rep. 1864, p. 188). [19] Ci si ricorderà che per il lavoro dei fanciulli ecc, scompare perfino la formalità della vendita di se stessi. [20] «Il capitale presuppone il lavoro salariato, il lavoro salariato presuppone il capitale. Essi si condizionano a vicenda; essi si generano a vicenda. Un operaio in un cotonificio produce soltanto tessuti di cotone? No, egli produce capitale. Egli produce valori che serviranno nuovamente a comandare il suo lavoro, e per creare a mezzo di esso nuovi valori » (KARL MARX, Lohnarbeit und Kapital [traduzione italiana Lavoro salariato e capitale, Roma, Editori Riuniti, 1960, p. 52] in Neue Rheinische Zeitung, n. 266, 7 aprile 1849). Gli articoli pubblicati sotto questo titolo nella Neue Rheinische Zeitung sono frammenti delle conferenze che tenni su questo tema all’Associazione degli operai tedeschi di Bruxelles nel 1847 e la cui stampa fu interrotta dalla rivoluzione di febbraio. |
AVVERTENZA PER IL LETTORE Il testo del I libro del Capitale che viene qui riportato NON È UNA DELLE TRADUZIONI INTEGRALI DEL TESTO ORIGINALE che sono disponibili: esso infatti è una rivisitazione delle traduzioni esistenti (in italiano ed in francese) a cui sono state apportate le seguenti modifiche: 1 – negli esempi numerici, per facilitare la lettura, sono state cambiate le unità di misura e le grandezze; 2 – diversi dati richiamati nella forma di testo sono stati trasformati in tabelle ed in grafici; 3 – in alcuni esempi numerici le cifre decimali indicate sono state limitate a due e nel caso di numeri periodici, ad esempio 1/3 o 2/3, la cifra periodica è stata indicata ponendovi a fianco un apice (’). Ci rendiamo conto che leggere un testo del Capitale in cui Marx formula esempi in Euro (€) invece che in Lire Sterline (Lst) o scellini potrebbe far sorridere e far pensare ad uno scherzo o ad una manipolazione che ha travisato il pensiero dell’Autore, avvertiamo invece il lettore che il testo è assolutamente fedele al pensiero originale e che ci siamo permessi di introdurre alcune “varianti” per consentire a coloro che non hanno dimestichezza con le unità di misura e monetarie inglesi di non bloccarsi di fronte a questa difficoltà e di facilitarne così la lettura o lo studio. In altre parti si è invece mantenuto le unità di misura e monetarie inglesi originali perchè la lettura non creava problemi di comprensione e per ragioni di fedeltà storica. Ci facciamo altresì carico dell’osservazione che Engels ha formulato nelle “considerazioni supplementari” poste all’inizio del III Libro,laddove, di fronte alle molteplici interpretazioni del testo che vennero fatte dopo la prima edizione, sostiene: “Nella presente edizione ho cercato innanzitutto di comporre un testo il più possibile autentico, di presentare, nel limite del possibile, i nuovi risultati acquisiti da Marx, usando i termini stessi di Marx, intervenendo unicamente quando era assolutamente necessario, evitando che, anche in quest’ultimo caso, il lettore potesse avere dei dubbi su chi gli parla. Questo sistema è stato criticato; si è pensato che io avrei dovuto trasformare il materiale a mia disposizione in un libro sistematicamente elaborato, en faire un livre, come dicono i francesi, in altre parole sacrificare l’autenticità del testo alla comodità del lettore. Ma non è in questo senso che io avevo interpretato il mio compito. Per una simile rielaborazione mi mancava qualsiasi diritto; un uomo come Marx può pretendere di essere ascoltato per se stesso, di tramandare alla posterità le sue scoperte scientifiche nella piena integrità della sua propria esposizione. Inoltre non avevo nessun desiderio di farlo: il manomettere in questo modo perchè dovevo considerare ciò una manomissione l’eredità di un uomo di statura così superiore, mi sarebbe sembrato una mancanza di lealtà. In terzo luogo sarebbe stato completamente inutile. Per la gente che non può o non vuole leggere, che già per il primo Libro si è data maggior pena a interpretarlo male di quanto non fosse necessario a interpretarlo bene — per questa gente è perfettamente inutile sobbarcarsi a delle fatiche”. Marx ed Engels non ce ne vogliano, ma posti di fronte alle molteplici “fughe” dallo studio da parte di persone che non possedevano una cultura accademica, fughe che venivano imputate alla difficoltà presentate dal testo, abbiamo deciso di fare uno “strappo” alle osservazioni di Engels, intervenendo in alcune parti avendo altresì cura di toccare il testo il meno possibile. Nel fare questo “strappo” eravamo tuttavia confortati dal fatto che, a differenza della situazione in cui Engels si trovava, oggi chi vuole accedere al testo “originale”, dispone di diverse edizioni in varie lingue. Coloro che volessero accostarsi al testo originale in lingua italiana si consigliano le seguenti edizioni:
Chi volesse accedere ad edizioni del Capitale e di altri testi di Marx in lingue estere, si propone di consultare il sito internet di seguito riportato:http://www.marxists.org/xlang/marx.htm |