IL CAPITALE LIBRO I SEZIONE IV LA PRODUZIONE DEL PLUSVALORE RELATIVO CAPITOLO 12DIVISIONE DEL LAVORO E MANIFATTURA 1- DUPLICE ORIGINE DELLA MANIFATTURA. La cooperazione che poggia sulla divisione del lavoro si crea la propria figura classica nella manifattura, e predomina come forma caratteristica del processo di produzione capitalistico durante il vero e proprio periodo della manifattura, il quale, così all’ingrosso, va dalla metà del secolo XVI all’ultimo terzo del diciottesimo. L’origine della manifattura è duplice. In un caso, vengono riuniti in una sola officina, sotto il comando di uno stesso capitalista, operai di mestieri differenti e indipendenti, attraverso le cui mani deve passare un prodotto per raggiungere la sua ultima perfezione. Per esempio una carrozza era il prodotto complessivo dei lavori di un gran numero di artigiani indipendenti, come carradore, sellaio, sarto, magnano, cinghiaio, tornitore, lavorante di passamaneria, vetraio, pittore, verniciatore, doratore, ecc. La manifattura delle carrozze riunisce in un edificio da lavoro, dove tutti lavorano contemporaneamente l’uno per l’altro, tutti questi differenti artigiani. Certo, non si possono dare le dorature a una carrozza prima che sia fini ma se si fanno contemporaneamente molte carrozze, una parte di esse può essere costantemente sottoposta alla doratura, mentre un’altra parte percorre una fase anteriore del processo di produzione. Fino a questo punto siamo ancora sul piano della cooperazione semplice, che trova pronto il suo materiale di uomini e cose. Però subentra prestissimo un. mutamento essenziale. Il tagliatore, magnano, cinghiaio, ecc. impiegato soltanto nel far carrozze, perde poco per volta con l’abitudine anche la capacità di esercitare in tutta la sua estensione l’antico mestiere, in compenso ora la sua attività, divenuta unilaterale, riceve la forma più confacente al fine del suo lavoro in questa sfera d’azione più ristretta. All’origine la manifattura delle carrozze si presentava come una combinazione di mestieri indipendenti. A poco a poco diventa divisione della produzione di carrozze nelle sue differenti operazioni particolari, ognuna delle quali si cristallizza in funzione esclusiva d’un lavoratore, e il cui complesso viene compiuto dalla unione di questi lavoratori parziali. Anche la manifattura dei panni e tutta una serie di altre manifatture sono sorte dalla combinazione di differenti mestieri sotto il comando di uno stesso capitale[26]. Però la manifattura sorge anche nella maniera opposta. Vengono occupati contemporaneamente nella stessa officina, da parte dello stesso capitale, molti artigiani che fanno la stessa cosa o cose analoghe, per esempio, carta o caratteri da stampa o aghi. Questa è cooperazione nella forma più semplice. Ognuno di questi artigiani (forse assistito da uno o due garzoni) fa interamente la merce, dunque esegue una dopo l’altra le differenti operazioni richieste per la produzione della merce stessa: continua cioè a lavorare alla sua antica maniera artigianale. Ma intanto circostanze esteriori inducono ben presto ad utilizzare altrimenti il concentramento degli operai nello stesso ambiente e la contemporaneità dei loro lavori. Si debba per es. consegnare a scadenza fissa una quantità piuttosto considerevole di merce finita. Il lavoro viene perciò suddiviso. Invece di fare eseguire le differenti operazioni dallo stesso artigiano in una successione temporale si sciolgono le operazioni l’una dall’altra, si isolano, si giustappongono nello spazio, ognuna viene affidata ad un artigiano differente, e tutte insieme vengono eseguite contemporanea mente dagli artigiani cooperanti. Questa suddivisione casuale si ripete, manifesta i suoi vantaggi peculiari, e a poco a poco si ossifica diventando la sistematica divisione del lavoro. Da prodotto individuale d’un artigiano indipendente, che fa tante cose, la merce si trasforma nel pro dotto sociale d’una associazione di artigiani, ciascuno dei quali esegue continuamente solo un’unica operazione parziale e sempre la stessa. Quelle stesse operazioni che confluivano l’una nell’altra come operazioni successive del mastro cartaio artigiano tedesco, diventano autonome nella manifattura cartaria olandese come operazioni parziali parallele e giustapposte di molti operai cooperanti. Il mastro artigiano spillaio di Norimberga costituisce l’elemento fondamentale della mani fattura inglese degli spilli. Ma mentre quell’un mastro spillaio percorreva una serie di forse venti operazioni successive, qui nella mani fattura ben presto venti spillai eseguono ciascuno solo una delle venti operazioni che in seguito alle esperienze fatte vengono ancor molto più frazionate, isolate e rese autonome come funzioni esclusive di singoli operai. Dunque la manifattura ha origine, cioè si elabora dal lavoro artigianale, in duplice maniera. Da un lato, parte dalla combinazione di mestieri di tipo differenti, autonomi, i quali vengono ridotti a dipendenza e unilateralità fino al punto da costituire ormai soltanto operazioni parziali del processo di produzione d’una sola e medesima merce che si integrano reciprocamente. D’altro lato la manifattura parte dalla cooperazione di artigiani dello stesso tipo, disgrega uno stesso mestiere individuale nelle sue differenti operazioni particolari, e le isola e le rende indipendenti fino al punto che ciascuna di esse diviene funzione esclusiva d’un operaio particolare. Quindi la manifattura, da una parte introduce o sviluppa ulteriormente la divisione del lavoro in un processo di produzione; dall’altra parte combina mestieri prima separati. Ma qualunque ne sia il punto particolare di partenza, la sua figura conclusiva è sempre la stessa: un meccanismo di produzione i cui organi sono uomini. Per intendere esattamente la divisione del lavoro nella manifattura è d’importanza essenziale tener fermo ai punti seguenti: in primo luogo, qui l’analisi del processo di produzione nelle sue fasi particolari coincide completamente con la disgregazione d’una attività artigianale nelle sue differenti operazioni parziali. Composta o semplice l’operazione rimane artigianale, e quindi dipendente dalla forza, dalla abilità, dalla sveltezza e dalla sicurezza dell’operaio singolo nel maneggio del suo strumento. Il mestiere rimane la base. Questa base. tecnica ristretta esclude una analisi realmente scientifica del processo di produzione, poichè ogni processo parziale percorso dal prodotto dev’essere eseguibile come lavoro parziale artigianale. E proprio perchè a questo modo l’abilità artigianale rimane fondamento del processo di produzione, ogni operaio viene appropriato esclusivamente ad una funzione parziale, e la sua forza-lavoro viene trasformata nell’organo di tale funzione parziale, vita natural durante. Infine questa divisione del lavoro è una specie particolare della cooperazione, e molti dei suoi vantaggi scaturiscono dalla natura generale della cooperazione, e non da questa sua forma particolare. 2. L’OPERAIO PARZIALE E IL SUO STRUMENTO. Se noi ora entriamo più da vicino nei particolari, è evidente, in primo luogo, che un operaio il quale esegue per tutta la vita sempre la stessa ed unica operazione semplice, trasforma tutto il proprio corpo nello strumento di quella operazione, automatico e unilaterale, e che quindi consuma per essa meno tempo dell’artigiano che esegue, avvicendandole, tutta una serie di operazioni. Ma l’operaio complessivo combinato, che costituisce il meccanismo vivente della manifattura, consiste unicamente di tali operai parziali unilaterali. Quindi in confronto con il mestiere artigianale indipendente si produce di più in meno tempo, ossia viene aumentata la forza produttiva del lavoro[27]. Inoltre, il metodo del lavoro parziale si perfeziona, dopo che questo lavoro parziale è reso autonomo come funzione esclusiva di una persona. La costante ripetizione della stessa azione limitata e la concentrazione dell’attenzione su questa azione limitata insegnano, per esperienza, a raggiungere l’effetto utile prefisso con il minimo dispendio di forza. Ma poichè convivono sempre contemporaneamente differenti generazioni di operai che lavorano insieme nelle stesse manifatture, gli artifici tecnici così ottenuti presto si consolidano, s’accumulano e si trasmettono[28]. La manifattura produce infatti il virtuosismo dell’operaio parziale riproducendo all’interno dell’officina la separazione originale e naturale dei mestieri che ha trovato nella società, e spingendola sistematica mente all’estremo. D’altra parte la sua trasformazione del lavoro parziale nella professione a vita d’un uomo corrisponde all’istinto di società più antiche di rendere ereditari i mestieri, di fossilizzarli in caste o di ossificarli in corporazioni, quando determinate condizioni storiche generino una variabilità dell’individuo incompatibile con il sistema delle caste. Le caste e le corporazioni derivano dalla stessa legge di natura che regola la divisione delle piante e degli animali in specie e sottospecie, solo che ad un certo grado di sviluppo l’ereditarietà delle caste o l’esclusività delle corporazioni viene decretata come legge della società[29]. «Le mussoline di Dakka non sono mai state superate in finezza, nè le cotonine e le altre stoffe del Coromandel in splendore e durata dei colori. Eppure vengono prodotte senza capitale, senza macchine, senza divisione del lavoro nè uno qualsiasi degli altri mezzi che offrono tanti vantaggi alle fabbricazioni europee. Il tessitore è un singolo individuo che fabbrica il suo tessuto su ordinazione del cliente con un telaio di costruzione semplicissima che spesso consiste soltanto di stanghe di legno rozzamente connesse. Non possiede neppure un apparecchio per tendere l’ordito, e quindi il telaio deve rimaner disteso per tutta la sua lunghezza e diventa così largo e informe, da non trovar posto nella capanna del produttore, il quale è costretto quindi a eseguire il suo lavoro all’aperto, dove viene interrotto da ogni cambiamento di tempo»[30]. Solo l’abilità particolare accumulata di generazione in generazione e ereditata di padre in figlio fornisce tale virtuosismo all’indù come al ragno. E tuttavia uno di questi tessitori indiani esegue un lavoro complicatissimo, in confronto con quello della maggior parte degli operai di manifattura. L’artigiano che esegue successivamente i diversi procedimenti parziali nella produzione di un manufatto, è costretto a cambiar ora di posto, ora di strumenti. Il passaggio da una operazione all’altra interrompe il corso del suo lavoro e forma come dei pori nella sua giornata lavorativa. Questi pori si chiudono appena l’artigiano esegue continuamente per tutta la giornata una sola e identica operazione, ossia scompaiono man mano che diminuisce la varietà della sua operazione. Qui l’aumentata produttività si deve o al crescere del dispendio di forza-lavoro in un dato periodo di tempo, dunque a crescente intensità del lavoro, oppure a una diminuzione del consumo improduttivo di forza-lavoro. Infatti l’eccedente nel dispendio di forze richiesto da ogni passaggio dalla quiete al moto trova una compensazione quando la rapidità normale una volta raggiunta presenti una durata più lunga. D’altra parte, la continuità d’un lavoro uniforme distrugge la forza di tensione e di slancio degli spiriti vitali, che trovano ristoro e stimolo nel variare dell’attività stessa. La produttività del lavoro non dipende soltanto dal virtuosismo dell’operaio, ma anche dalla perfezione dei suoi strumenti. Gli strumenti della stessa specie, come quelli da taglio, da trapanazione, da urto, da percussione, ecc. vengono adoperati in diversi processi di lavoro, e nello stesso processo lavorativo lo stesso strumento serve a differenti operazioni. Però, appena le differenti operazioni d’un processo lavorativo sono slegate l’una dall’altra ed appena ogni operazione parziale raggiunge in mano all’operaio parziale una forma per quanto possibile adeguata, e quindi esclusiva, diventa necessario modificare gli strumenti che prima servivano a scopi differenti. La direzione del cambiamento di forma dello strumento risulta dall’esperienza delle particolari difficoltà arrecate dalla forma immutata. La differenziazione degli strumenti di lavoro, per la quale strumenti della stessa specie ricevono forme fisse particolari per ogni uso particolare, e la loro specializzazione, per la quale ciascuno di tali strumenti particolari ha tutta la sua piena efficacia soltanto in mano ad operai parziali specifici, danno alla manifattura il suo carattere. Solo a Birmingham si producono circa cinquecento varietà di martelli, che non soltanto servono ognuna per un processo particolare di produzione, ma spesso un certo numero di varietà serve soltanto per differenti operazioni nello stesso processo. Il periodo della manifattura semplifica, perfeziona e moltiplica gli strumenti di lavoro adattandoli alle funzioni particolari esclusive dei lavoratori parziali[31]: e così crea contemporaneamente una delle condizioni materiali delle macchine, che consistono d’una combinazione di strumenti semplici. L’operaio parziale e il suo strumento costituiscono gli elementi semplici della manifattura. Volgiamoci ora alla sua figura complessiva. 3. LE DUE FORME FONDAMENTALI DELLA MANIFATTURA — MANIFATTURA ETEROGENEA E MANIFATTURA ORGANICA. La struttura della manifattura ha due forme fondamentali, le quali, benchè occasionalmente s’intreccino fra loro, costituiscono due specie sostanzialmente differenti, e in particolare hanno funzioni del tutto differenti anche nella posteriore trasformazione della manifattura in industria funzionante con le macchine, in grande industria. Questo duplice carattere deriva dalla natura del manufatto stesso, che viene formato per semplice congiunzione meccanica di prodotti parziali indipendenti, oppure deve la sua figura finita a una serie di processi e manipolazioni connessi fra loro. Per esempio una locomotiva consiste di più di cinquemila parti indipendenti. Però non può valere come esempio della prima specie di manifattura vera e propria, perchè essa è creatura della grande industria. Invece può ben valere l’orologio, col quale anche William Petty illustrò la divisione manifatturiera del lavoro. Da opera individuale d’un artigiano di Norimberga l’orologio s’è trasformato in prodotto sociale d’un numero stragrande di operai parziali, come quelli addetti al meccanismo grezzo, alla molla, al quadrante, alla spirale, alla foratura delle pietre e alla lavorazione delle leve a rubino, alle lancette, alla cassa, alle viti, alla doratura, con molte suddivisioni, come per esempio l’addetto alle ruote (e le ruote di ottone e di acciaio distinte a loro volta), ai rocchetti, al meccanismo delle lancette, acheveur de pignon (che fissa le ruote sui rocchetti, lustra le faccette, ecc.); l’addetto al perno del rocchetto; planteur de finissage (che mette varie ruote e alberi nel meccanismo), finisseur de barillet (taglia i denti delle ruote, calibra i fori, rafferma la posizione e l’arresto), addetto allo scappamento, nello scappamento a cilindro ancora l’addetto ai cilindri, addetto alle serpentine, ai bilancieri, ai remontori (i meccanismi coi quali si regolano gli orologi), planteur d’échappement (il vero e proprio facitore di scappamenti); poi il repasseur de barillet (che fissa completamente il tamburo), lucidatore d’acciaio, lustratore delle ruote, lustratore delle viti, pittore delle cifre, addetto al quadrante (fonde lo smalto sul rame), fabricant de pendents (fa soltanto gli anelli della cassa), finisseur de charnière (mette l’asticciola d’ottone al centro della cassa), faiseur de secret (fa le molle della cassa che fanno scattare il coperchio), graveur, ciseleur, polisseur de botte, ecc. ecc., e infine il repasseur che mette insieme l’orologio completo e lo consegna in funzione. Poche parti soltanto nell’orologio passano attraverso mani differenti, e tutte queste membra disjecta si ricompongono solo nella mano che infine le collega in un tutto meccanico. Tale rapporto esterno fra il prodotto finito e i suoi diversi elementi lascia al caso, qui come per manufatti analoghi, la combinazione degli operai parziali nella stessa officina. I lavori parziali stessi possono esser compiuti a loro volta come lavorazioni artigiane indipendenti l’una dall’altra, come avviene nel cantone di Vaud e a Neuchatel mentre per esempio a Ginevra esistono grandi mani fatture d’orologi, cioè ha luogo la cooperazione immediata dei lavoratori parziali sotto il comando d’un solo capitale. Anche in questo ultimo caso è raro che quadrante, molle e cassa siano fabbricati nella manifattura stessa. Qui la conduzione combinata di tipo manifatturiero è profittevole solo in situazioni eccezionali, perchè la concorrenza fra gli operai che vogliono lavorare a domicilio raggiunge il massimo, il frantumarsi della produzione in una massa di processi eterogenei permette uno scarso uso di mezzi di lavoro in comune, e perchè con la fabbricazione sparpagliata il capitalista risparmia le spese per l’edificio da lavoro, ecc[32]. Tuttavia, anche la posizione di questi lavoratori parziali che lavorano in casa, ma per un capitalista (fabbricante, établisseur), è del tutto diversa da quella dell’artigiano indipendente che lavora per i propri clienti[33]. Il secondo tipo di manifattura, che è la forma perfezionata della manifattura, produce manufatti che percorrono fasi di sviluppo connesse fra di loro, una successione di processi graduati, come per esempio nella manifattura degli aghi da cucire, il filo d’acciaio passa per le mani di settantadue e perfino di novantadue operai parziali specifici. Tale manifattura, combinando mestieri originariamente dispersi, diminuisce la separazione spaziale fra le fasi particolari della produzione del manufatto. Si abbrevia il tempo del passaggio del manufatto da uno stadio all’altro, e così pure il lavoro che funge da intermediario in questi passaggi[34]. Così si guadagna della forza produttiva nei confronti del mestiere; e questo guadagno scaturisce precisamente dal carattere cooperativo generale della manifattura. D’altra parte, il principio della divisione del lavoro che è peculiare della mani fattura, esige un isolamento delle differenti fasi di produzione, che sono rese indipendenti le une dalle altre come altrettanti lavori parziali di tipo artigiano. Produrre e conservare la connessione fra le funzioni isolate rende necessario un continuo trasporto del manufatto da una mano all’altra e da un processo all’altro. Dal punto di vista della grande industria ciò si presenta come limite caratteristico, costoso e immanente al principio della manifattura[35]. Consideriamo una quantità determinata di materie prime, per esempio di stracci nella manifattura della carta o di filo d’acciaio nella manifattura degli aghi vediamo che la materia prima percorre nelle mani dei differenti operai parziali una successione temporale graduale di fasi di produzione, fino alla forma definitiva. Consideriamo invece l’officina come un solo meccanismo complessivo: vediamo che la materia prima si trova simultaneamente in tutte le sue fasi di produzione, tutta in una volta. L’operaio complessivo combinato di operai parziali tira il filo con una parte delle sue molte mani armate di strumenti, mentre con altre mani e strumenti lo stende, con altre lo taglia, lo appuntisce, ecc. I diversi processi graduali sono trasformati da una successione temporale in una giustapposizione spaziale. Di qui la fornitura di maggior quantità di merce finita nello stesso spazio di tempo[36]. Quella simultaneità deriva, certo, dalla forma cooperativa generale del complessivo, però la manifattura non solo trova presenti le condizioni della cooperazione, ma le crea in parte per la prima volta, scomponendo l’attività di tipo artigianale. D’altra parte essa raggiunge questa organizzazione sociale del processo lavorativo solo saldando uno stesso operaio ad uno stesso particolare. Poichè il prodotto parziale di ogni operaio parziale è insieme nulla più d’un grado particolare di sviluppo dello stesso manufatto, quel che un operaio consegna all’altro, oppure un gruppo di operai consegna all’altro gruppo, è la materia prima di quest’ultimo operaio o gruppo. Il risultato del lavoro dell’uno costituisce il punto di partenza del lavoro dell’altro. Quindi un operaio occupa qui l’altro direttamente. Il tempo di lavoro necessario per raggiungere l’effetto utile prefisso in ogni processo parziale viene accertato in base all’esperienza, e il meccanismo complessivo della manifattura poggia sul presupposto che in un tempo di lavoro dato si raggiunga un risultato dato. Solo con questo presupposto i differenti processi di lavoro che si integrano reciprocamente possono continuare ininterrottamente, uno accanto all’altro nel tempo e nello spazio. È evidente che questa diretta dipendenza reciproca dei lavori e quindi dei lavoratori, costringe ogni singolo individuo ad adoperare per la sua funzione solo il tempo necessario, e che così si genera una continuità, uniformità, regolarità, un ordine[37] e in ispecie anche una intensità di lavoro molto differenti da quelle del mestiere indipendente o anche della cooperazione semplice. Nella produzione delle merci, il fatto che si adoperi per una merce soltanto il tempo di lavoro socialmente necessario per la sua produzione, si presenta in genere come costrizione esterna della concorrenza, perchè, per esprimerci superficialmente, ogni singolo produttore deve vendere la merce al suo prezzo di mercato. Invece nella manifattura la fornitura di una data quantità di prodotti entro un tempo di lavoro dato diventa legge tecnica dello stesso processo di produzione[38]. Tuttavia, differenti operazioni abbisognano di periodi di tempo diseguali e quindi forniscono quantità diseguali di prodotti parziali in periodi di tempo eguali. Se dunque lo stesso operaio deve eseguire giorno per giorno sempre e soltanto quella stessa operazione, per differenti operazioni dovrà essere adoprato un differente numero proporzionale di operai, per esempio quattro fonditori e due rompitori per un brunitore, in una manifattura di caratteri da stampa, dove il fonditore fonde duemila caratteri, il rompitore ne divide quattromila e il brunitore ne lucida ottomila all’ora. Qui ritorna il principio della cooperazione nella sua forma più semplice: impiego contemporaneo di molte persone che fanno qualcosa di omogeneo; ma ora lo fanno come espressione d’un rapporto organico. Dunque la divisione manifatturiera del lavoro non semplifica e non moltiplica soltanto gli organi qualitativamente differenti dell’operaio sociale complessivo, ma crea anche una proporzione matematica fissa per l’estensione quantitativa di quegli organi, cioè per il numero relativo degli operai, ossia per la grandezza relativa dei gruppi di operai in ogni funzione particolare. Con la articolazione qualitativa, essa sviluppa anche la regola e proporzionalità quantitativa dei processo di lavoro sociale. Quando per una data scala della produzione è stabilito in base alla esperienza quale sia il più conveniente numero proporzionale dei differenti gruppi di operai parziali, questa scala si può allargare soltanto adoperando un multiplo di ogni particolare gruppo di operai[39]. Si aggiunga che lo stesso individuo esegue certi lavori allo stesso modo tanto su scala più vasta che su scala minore, per esempio il lavoro di sorveglianza, il trasporto dei prodotti parziali da una fase all’altra della produzione, ecc. Dunque, che queste funzioni divengano indi pendenti, ossia che vengano affidate ad operai particolari, diventa vantaggioso soltanto con l’aumento del numero degli operai impiegati, ma questo aumento deve investire subito tutti i gruppi, proporzionalmente. Il singolo gruppo, dato da un certo numero di operai i quali compiono la stessa funzione parziale, consiste di elementi omogenei e costituisce un organo particolare del meccanismo complessivo. Tuttavia in varie manifatture già il gruppo è un corpo lavorativo articolato, mentre il meccanismo complessivo è costituito dalla ripetizione o moltiplicazione di questi organismi produttivi elementari. Prendiamo ad esempio la manifattura di bottiglie: essa si scompone in tre fasi sostanzialmente diverse. In primo luogo la fase preparatoria: preparazione della composizione del vetro, mischiatura della sabbia, della calce, ecc., e fusione di questa composizione in una massa fluida di vetro[40]. In questa prima fase sono impiegati vari operai parziali, come pure nella fase conclusiva: toglier le bottiglie dall’essiccatoio, assortirle, imballaggio, ecc. Al centro tra queste due fasi sta la vera e propria arte vetraria cioè la lavorazione della massa vitrea fluida. Ad una sola bocca della fornace del vetro lavora un gruppo che in Inghilterra si chiama lo «hole» (buco) ed è composto di un bottle-maker o finisher, d’un blower, d’un gatherer, d’un putter-up o whetter off e d’un taker in (bottigliaio o chi finisce il prodotto, soffiatore, raccoglitore, ordinatore, ripulitore, garzone di vetreria). Questi cinque operai parziali costituiscono altrettanti organi d’un corpo lavorativo unico, il quale può operare solo come unità, cioè solo attraverso la cooperazione diretta di quei cinque. Se manca uno delle cinque membra che costituiscono questo corpo, questo è paralizzato. Ma una fornace da vetro ha diverse aperture, in Inghilterra per esempio, da quattro a sei, ognuna delle quali contiene un crogiuolo di terra pieno di pasta vitrea e occupa un proprio gruppo di operai formato ognuno da cinque membra. Qui la disposizione di ogni singolo gruppo poggia direttamente sulla divisione del lavoro, mentre il vincolo fra i differenti gruppi omogenei è la cooperazione semplice, che adopera più economicamente, mediante il consumo in comune, uno dei mezzi di produzione, che in questo caso è la fornace da vetro. Una di queste fornaci da vetro con i suoi quattro o sei gruppi costituisce una vetreria, e una manifattura di vetro comprende un certo numero di tali vetrerie oltre l’apparato e gli operai per le fasi iniziali della produzione e quelle conclusive. Infine la manifattura può evolversi in una combinazione di diverse manifatture, allo stesso modo che essa sorge in parte da una combinazione di diversi mestieri. Per esempio, le vetrerie inglesi di una certa importanza fabbricano da sole i loro crogiuoli di terra, perchè la riuscita buona o cattiva del prodotto dipende sostanzialmente dalla qualità dei crogiuoli. Qui la manifattura d’un mezzo di produzione viene collegata con la manifattura del prodotto. Inversamente, la manifattura del prodotto può venir collegata con manifatture nelle quali esso serve soltanto, a sua volta, da materia prima, o coi prodotti delle quali esso viene combinato in un secondo momento. Per esempio la manifattura del cristallo da lenti si trova combinata con la molatura del vetro e la fonderia d’ottone; quest’ultima, per la montatura in metallo di svariati articoli di cristallo. In questo caso, le diverse manifatture combinate costituiscono reparti, più o meno separati nello spazio, d’una manifattura complessiva, e insieme sono processi di produzione indipendenti l’uno dall’altro, ognuno con propria divisione del lavoro. Nonostante i diversi vantaggi offerti dalla manifattura combinata, questa non raggiunge una reale unità tecnica finchè rimane sulla base della manifattura. La unità tecnica si ha soltanto con la sua trasformazione in industria meccanica. Il periodo della manifattura, che presto esprime come principio consapevole la diminuzione del tempo di lavoro necessario alla produzione delle merci[41], sviluppa sporadicamente anche l’uso delle macchine, particolarmente per certi primi processi semplici da eseguirsi in grosso e con grande dispendio di forza. Così per esempio nella manifattura della carta la triturazione degli stracci viene ben presto eseguita con pile a cilindro, nella metallurgia la frantumazione dei minerali con le cosiddette Pochmulen[42] (mulino battitore; in francese: bocard. Si potrebbe tradurre frantoio, benchè nel sec. XIX la parola sia dappertutto comune per le olive più che per la macchina da triturare minerali; frantoio o gualchiera o simili.). L’impero romano aveva tramandato la forma elementare di ogni meccanismo con il mulino ad acqua[43]. Il periodo dei mestieri artigiani lasciò in eredità le grandi invenzioni della bussola, della polvere pirica, della stampa e dell’orologio automatico. Tuttavia, nel complesso, le macchine vi hanno rappresentato quella parte secondaria che Adam Smith assegna loro accanto alla divisione del lavoro[44]. Importantissimo divenne nel secolo XVII l’uso sporadico delle macchine, perchè esse offrirono ai grandi matematici del tempo punti di appoggio pratici ed incita mento alla creazione della meccanica moderna. Macchinario specifico del periodo della manifattura rimane l’operaio complessivo stesso, combinato di molti operai parziali. Le differenti operazioni che il produttore d’una merce compie alternandole e che s’intrecciano nell’insieme del suo processo di lavoro, lo impegnano in varie maniere. In una operazione egli deve sviluppare più forza, in un’altra più destrezza, nella terza più attenzione mentale, ecc., e lo stesso individuo non possiede allo stesso grado tutte queste qualità. Dopo che le diverse operazioni sono state separate, rese indipendenti ed isolate, gli operai vengono suddivisi, classificati e raggruppati a seconda delle loro qualità prevalenti. Le loro particolarità naturali costituiscono il tronco sul quale s’innesta la divisione del lavoro, ma poi la manifattura sviluppa, una volta che sia stata introdotta, forze-lavoro che per natura sono adatte soltanto a una funzione particolare unilaterale. Allora il lavoratore complessivo possiede tutte le qualità produttive a uno stesso grado di virtuosismo e le spende allo stesso tempo nella maniera più economica, in quanto tutti i suoi organi, individualizzati in particolari operai o gruppi di operai, li adopera esclusivamente per le loro funzioni specifiche[45]. L’unilateralità e perfino l’imperfezione dell’operaio parziale diventano perfezione di lui come uno delle membra dell’operaio complessivo[46]. L’abitudine di compiere una funzione unilaterale lo trasforma nel l’organo di tale funzione, che opera sicuramente e naturalmente, mentre il nesso del meccanismo complessivo lo costringe ad operare con la regolarità della parte d’una macchina[47]. Poichè le diverse funzioni dell’operaio complessivo sono più o meno semplici o composte, basse o elevate, i suoi organi, cioè le forze-lavoro individuali, richiedono diversissimi gradi di preparazione ed hanno quindi diversissimi valori. Perciò la manifattura sviluppa una gerarchia delle forze-lavoro alla quale corrisponde una scala dei salari. Se da una parte l’operaio individuale viene appropriato e annesso per la vita ad una funzione unilaterale, anche le diverse operazioni del lavoro vengono adattate a quella gerarchia di abilità naturali ed acquisite[48]. Però ogni processo produttivo esige certe manipolazioni semplici, delle quali è capace ogni uomo, così com’è per natura. Anche queste vengono ora sciolte dalla loro fluida connessione coi momenti più sostanziosi dell’attività e vengono ossificate in funzioni esclusive. Quindi la manifattura genera in ogni mestiere che afferra una classe di cosiddetti operai senza abilità, la quale era rigorosamente esclusa nella conduzione a tipo artigianale. Certo, la manifattura sviluppa fino al virtuosismo, a spese della capacità lavorativa complessiva, la specializzazione resa del tutto unilaterale; ma comincia anche a fare una specializzazione della mancanza di ogni evoluzione. Accanto alla graduazione gerarchica, ecco la separazione semplice degli operai in abili e non abili. Per questi ultimi, le spese di tirocinio scompaiono del tutto; per i primi esse diminuiscono, in confronto dell’artigiano, in conseguenza della semplificazione della funzione. In entrambi i casi diminuisce il valore della forza-lavoro[49]. Si hanno eccezioni in quanto la scomposizione del processo di lavoro genera nuove funzioni comprensive che nella conduzione artigianale non si avevano o non si avevano nello stesso volume. La svalorizzazione relativa della forza-lavoro, che deriva dalla scomparsa o dalla diminuzione delle spese di tirocinio, implica immediatamente una più alta valorizzazione del capitale, poichè tutto ciò che abbrevia il tempo necessario alla riproduzione della forza-lavoro, prolunga il dominio del pluslavoro. 4. DIVISIONE DEL LAVORO NELLA MANIFATTURA E DIVISIONE DEL LAVORO NELLA SOCIETÀ. Abbiamo considerato prima l’origine della manifattura; poi i suoi elementi semplici, cioè l’operaio parziale e il suo strumento; infine il suo meccanismo complessivo. Ora toccheremo in breve il rapporto fra la divisione manifatturiera del lavoro e la divisione sociale del lavoro, la quale costituisce la base generale di ogni produzione di merci. Se si tiene presente soltanto il lavoro per sè preso, si può designare la separazione della produzione sociale nei suoi grandi generi, come agricoltura, industria, ecc., come divisione del lavoro in generale; la ripartizione di questi generi di produzione in specie e sottospecie, come divisione del lavoro in particolare; e infine la divisione del lavoro entro una officina come divisione del lavoro in dettaglio[50]. La divisione del lavoro nella società e la corrispondente limitazione degli individui a sfere professionali particolari si sviluppa da punti di partenza opposti, allo stesso modo della divisione del lavoro nella manifattura. Entro la famiglia50a, poi, dopo ulteriore sviluppo, entro la tribù, una divisione spontanea del lavoro sorge dalle differenze di sesso e di età: dunque su base puramente fisiologica. Questa prima divisione del lavoro allarga poi il suo materiale con l’espansione della comunità, con l’aumento della popolazione e in particolare con il conflitto fra tribù differenti e col soggiogamento d’una tribù da parte dell’altra. D’altra parte, come ho già osservato prima, lo scambio dei prodotti comincia dove molte famiglie, tribù, comunità differenti entrano in contatto, poichè agli inizi dell’incivilimento non sono le persone private, ma le famiglie, le tribù, ecc, ad affrontarsi in piena indipendenza. Comunità differenti trovano differenti mezzi di produzione e differenti mezzi di sussistenza nel loro ambiente naturale. Quindi il loro modo di produzione, il loro modo di vivere e i loro prodotti sono differenti. E’ questa differenza spontanea e naturale che provoca, al contatto delle comunità, lo scambio reciproco dei prodotti dell’una e dell’altra, e quindi la graduale trasformazione di quei prodotti in merci. Lo scambio non crea la differenza delle sfere di produzione, ma mette in rapporto le sfere differenti trasformandole così in rami più o meno reciprocamente dipendenti d’una produzione complessiva sociale. Qui la divisione sociale del lavoro sorge attraverso lo scambio di sfere di produzione originariamente differenti, ma indipendenti l’una dall’altra. Dove il punto di partenza è costituito dalla divisione fisiologica del lavoro, gli organi particolari d’un tutto omogeneo si distaccano l’uno dall’altro, si scompongono —, la spinta principale a questo processo di scomposizione è data dallo scambio di merci con comunità estranee, — e infine si fanno indipendenti fino al punto in cui il nesso fra i differenti lavori è mediato dallo scambio dei prodotti come merci. Nel primo caso è rendere dipendente ciò che prima era indipendente, nel secondo caso rendere indipendente ciò che era prima dipendente. A fondamento di ogni divisione del lavoro sviluppata e mediata attraverso scambio di merci, è la separazione di città e campagna[51]. Si può dire che l’intera storia economica della società si riassuma nel movimento di questo antagonismo, del quale però qui non ci occuperemo ulteriormente. Il presupposto materiale della divisione del lavoro nella manifattura è la esistenza d’un certo numero di operai adoprati contemporaneamente; quello della divisione del lavoro nella società è la grandezza della popolazione e la sua densità, che qui prende il posto della agglomerazione nella stessa officina[52]. Ma questa densità è qualcosa di relativo. Un paese a popolazione relativamente scarsa con mezzi di comunicazione sviluppati ha una popolazione più densa di un paese più popolato con mezzi di comunicazione poco sviluppati; a questo modo gli Stati settentrionali dell’Unione Americana hanno una popolazione più densa dell’India[53]. Poichè la produzione e la circolazione delle merci sono presupposto generale del modo di produzione capitalistico, la divisione del lavoro di tipo manifatturiero richiede una divisione del lavoro all’interno della società che sia già giunta a un certo grado di maturazione. Viceversa, la divisione del lavoro di tipo manifatturiero sviluppa e moltiplica, per reazione, la divisione sociale del lavoro. Man mano che gli strumenti di lavoro si differenziano fra di loro, si differenziano sempre più anche i mestieri che producono gli strumenti stessi[54]. Appena la conduzione di tipo manifatturiero s’impadronisce d’un mestiere che fino a quel momento era connesso ad altri mestieri come mestiere principale o secondario e veniva eseguito dallo stesso produttore, si hanno subito separazione e reciproca indipendenza. Appena la manifattura s’impadronisce d’uno stadio particolare di produzione di una merce, i differenti stadi della produzione di questa merce si trasformano in differenti mestieri indipendenti. S’è già accennato che dove il manufatto è un insieme di prodotti parziali, ottenuto meccanicamente per semplice montaggio, i lavori parziali possono a loro volta farsi indipendenti elevandosi a veri e propri mestieri. Per dare esecuzione più completa alla divisione del lavoro entro una manifattura, la stessa branca di produzione viene scissa in varie manifatture in parte del tutto nuove, a seconda della differenza delle materie prime o delle differenti forme che la stessa materia prima può ricevere. Così, già nella prima metà del secolo XVIII, solo in Francia si tessevano più di cento differenti tipi di seterie, e, per esempio, ad Avignone era legge « che ciascun apprendista dovesse dedicarsi sempre e soltanto a un tipo di fabbricazione e non potesse imparare a preparare più tipi di stoffa contemporaneamente ». La divisione territoriale del lavoro, che vincola branche particolari della produzione a distretti particolari di un paese, riceve nuovo impulso dalla conduzione manifatturiera, che sfrutta tutte le particolarità[55]. L’amplia mento del mercato mondiale e il sistema coloniale, che fan parte della sfera delle condizioni generali della sua esistenza, forniscono al periodo manifatturiero abbondante materiale per la divisione del lavoro entro la società. Non è questo il luogo di dimostrare in parti colare come la manifattura s’impadronisce, oltre che della sfera economica, di ogni altra sfera della società, ponendo dappertutto le basi di quel perfezionamento delle specializzazioni e di un frazionamento dell’uomo che fece prorompere a suo tempo già A. Ferguson, il maestro di A. Smith, nell’esclamazione: « Noi facciamo una nazione di iloti, e non ci sono uomini liberi fra di noi»[56]. Tuttavia, nonostante le numerose analogie e i nessi fra la divisione del lavoro all’interno della società e quella entro un’officina, esse sono non solo differenti per grado, ma anche per natura. L’analogia sembra indiscutibilmente più lampante là dove un vincolo interno fa intrecciare l’una all’altra differenti branche di attività. Per esempio l’allevatore di bestiame produce pelli, il conciatore trasforma le pelli in cuoio, il calzolaio trasforma il cuoio in stivali. Qui ciascuno produce un prodotto graduato, e l’ultima forma finita è il prodotto combinato dei loro lavori particolari. Si aggiungono le svariate branche di lavoro che forniscono mezzi di produzione all’allevatore di bestiame, al conciatore, al calzolaio. Ora ci si può immaginare, con Adam Smith, che questa divisione sociale del lavoro si distingua da quella di tipo manifatturiero solo soggettivamente, cioè per l’osservatore, che qua può cogliere con un solo sguardo in un solo luogo i molteplici lavori particolari, mentre là la dispersione di questi su grandi superfici e il gran numero delle persone occupate in ogni ramo particolare oscurano la visione del nesso che li riunisce[57]. Ma che cos’è che produce il nesso fra i lavori indipendenti dell’allevatore di bestiame, del conciatore, del calzolaio? L’esistenza dei loro rispettivi prodotti come merci. E invece che cos’è che caratterizza la divisione del lavoro di tipo manifatturiero? Che l’operaio parziale non produce nessuna merce[58]. È solo il prodotto comune degli operai parziali che si trasforma in merce58a. La divisione del lavoro all’interno della società è mediata dalla compra e vendita dei prodotti di differenti branche di lavoro; la connessione fra i lavori parziali nella manifattura è mediata dalla vendita di differenti forze-lavoro allo stesso capitalista, il quale le impiega come forza-lavoro combinata. La divisione del lavoro di tipo manifatturiero presuppone la concentrazione dei mezzi di produzione in mano ad un solo capitalista, la divisione sociale del lavoro presuppone la dispersione dei mezzi di produzione fra molti produttori di merci indipendenti l’uno dall’altro. Invece della subordinazione di determinate masse d’operai a determinate funzioni per la bronzea legge del numero relativo, ossia della proporzionalità, nella manifattura il caso e l’arbitrio si scapricciano a distribuire i produttori di merci e i loro mezzi di produzione fra le differenti branche sociali di lavoro. Certo, le differenti sfere della produzione cercano costantemente di mettersi in equilibrio: da una parte, ogni produttore di merci deve produrre un valore d’uso, quindi deve soddisfare un particolare bisogno sociale, ma il volume di questi bisogni è differente quantitativamente, e c’è un legame intimo che concatena in un sistema spontaneo e naturale le differenti masse di bisogni; dall’altra parte, la legge del valore delle merci determina quanto la società può spendere, nella produzione di ogni particolare genere di merci, della somma di tempo lavorativo che ha disponibile. Ma questa tendenza costante delle differenti sfere di produzione a equilibrarsi si attua soltanto come reazione contro la costante distruzione di questo equilibrio. La regola seguita a priori e secondo un piano nella divisione del lavoro all’interno dell’officina, opera soltanto a posteriori nella divisione del lavoro all’interno della società, come necessità naturale interiore, muta, percepibile negli sbalzi barometrici dei prezzi del mercato, che sopraffà l’arbitrio sregolato dei produttori delle merci. La divisione del lavoro di tipo manifatturiero presuppone l’autorità incondizionata del capitalista su uomini che costituiscono solo le membra di un meccanismo complessivo di sua proprietà; la divisione sociale del lavoro contrappone gli uni agli altri produttori indipendenti di merci, i quali non riconoscono altra autorità che quella della concorrenza, cioè la costrizione esercitata su di essi dalla pressione dei loro interessi reciproci; come anche nel regno animale il bellum omnium contra omnes preserva più o meno le condizioni di esistenza di tutte le specie. Quindi quella stessa coscienza borghese che celebra la divisione del lavoro a tipo manifatturiero, l’annessione a vita dell’operaio ad una operazione di dettaglio e la subordinazione incondizionata dell’operaio parziale al capitale, esaltandole come una organizzazione del lavoro che ne aumenta la forza produttiva, denuncia con altrettanto clamore ogni consapevole controllo e regolamento sociale del processo sociale di produzione, chiamandolo intromissione negli inviolabili diritti della proprietà, nella libertà e nell’autodeterminantesi «genialità» del capitalista individuale. È assai caratteristico che gli entusiasti apologeti del sistema delle fabbriche, polemizzando contro ogni organizzazione generale del lavoro sociale, non sappiano dire niente di peggio, fuorchè: tale organizzazione trasformerebbe in una fabbrica tutta la società. L’anarchia della divisione sociale del lavoro e il dispotismo della divisione del lavoro a tipo manifatturiero sono portato l’una dell’altro nella società del modo capitalistico di produzione; invece forme di società precedenti ad essa, nelle quali la separazione dei mestieri prima si è sviluppata spontaneamente, poi s’è cristallizzata e infine è stata consolidata legislativamente, offrono da una parte il quadro d’una organizzazione del lavoro sociale secondo un piano, e autoritaria, ma d’altra parte escludono completamente la divisione del lavoro entro l’officina, oppure la sviluppano solo su scala infima o solo sporadicamente e casualmente»[59]. Per esempio, quelle piccole comunità indiane antichissime, che in parte continuano ancora ad esistere, poggiano sul possesso in comune del suolo, sul collegamento diretto fra agricoltura e mestiere artigiano e su una divisione fissa del lavoro, che serve come piano e modello dato quando si formano nuove comunità. Esse costituiscono complessi produttivi autosufficienti il cui territorio produttivo varia da cento acri a qualche migliaio. La massa principale dei prodotti viene prodotta per il fabbisogno immediato della comunità stessa, non come merce; quindi la produzione stessa è indipendente dalla divisione del lavoro mediata dallo scambio delle merci nel complesso generale della società indiana. Solo l’eccedenza dei prodotti si trasforma in merce e in parte anche questo avviene, a sua volta, soltanto nelle mani dello Stato, al quale da tempi immemorabili affluisce una quantità determinata, come censo in natura. Le differenti parti dell’India hanno differenti forme di comunità. Nella forma più semplice, la comunità coltiva la terra in comune e ne di vide i prodotti fra i membri della comunità stessa; e ogni famiglia cura la filatura e la tessitura ecc. come mestiere domestico secondario. Accanto a questa massa occupata omogeneamente troviamo « l’abitante principale », che è giudice, poliziotto ed esattore in una sola persona; il contabile, che tiene i conti del lavoro agricolo e segna nel catasto e registra tutto quel che riguarda tale attività; un terzo funzionario che persegue i delinquenti e protegge i viaggiatori forestieri e li accompagna da un villaggio all’altro; l’uomo del confine, che fa la guardia ai confini della comunità contro le comunità vicine; l’ispettore delle acque, che distribuisce l’acqua dai serbatoi comuni per fini agricoli; il bramino, che compie le funzioni del culto religioso; il maestro, che insegna ai bambini della comunità a leggere e a scrivere, sulla sabbia; il bramino del calendario, un astrologo che indica i tempi della semina e del raccolto e le ore fauste e infauste per ogni parti colare lavoro agricolo; il fabbro e il falegname, che fanno e riparano tutti gli strumenti agricoli; il vasaio, che fa tutto il vasellame per il villaggio; il barbiere, il lavandaio per la pulitura delle vesti; l’argentiere e qua e là il poeta, che in alcune comunità sostituisce l’argentiere e in altre il maestro. Questa dozzina di persone vien mantenuta a spese di tutta la comunità. Se la popolazione cresce, viene impiantata in terreno vergine una nuova comunità che segue il modello dell’antica. Il meccanismo della comunità ci mostra che c’è una divisione del lavoro secondo un piano; ma vi sarebbe impossibile una divisione del lavoro di tipo manifatturiero, perchè il mercato del fabbro, del falegname, ecc., rimane inalterato, e tutt’al più, a seconda delle differenze di grandezza dei villaggi, ci sono due o tre fabbri, vasai, ecc. invece di uno[60]. «Qui la legge che regola la divisione del lavoro della comunità opera con l’inviolabile autorità d’una legge naturale, e ogni particolare artigiano, come il fabbro, ecc., compie tutte le operazioni pertinenti alla sua arte secondo i modi tramandati, ma indipendentemente e senza riconoscere nessuna qualsiasi autorità entro la sua officina. L’organismo produttivo semplice di queste comunità autosufficienti che si riproducono costantemente nella stessa forma e, quando per caso sono distrutte, si ricostruiscono nello stesso luogo e con lo stesso nome[61], ci dà la chiave per capire il segreto dell’immutabilità delle società asiatiche, che fa un contrasto così forte con la costante dissoluzione e il costante riformarsi degli Stati asiatici e con l’incessante cambiare delle dinastie. La struttura degli elementi fondamentali economici della società non viene toccata dalle tempeste della regione delle nubi della politica. Le leggi delle corporazioni, come abbiamo osservato già prima, impedivano sistematicamente, limitando all’estremo il numero dei garzoni che potevano essere impiegati da un singolo maestro artigiano, che questi si trasformasse in capitalista. Così pure, il maestro artigiano poteva impiegare garzoni soltanto ed esclusivamente nell’arte nella quale egli stesso era maestro. La corporazione respingeva gelosamente ogni usurpazione da parte del capitale mercantile, l’unica forma libera di capitale che le si contrapponesse. Il mercante poteva comprare tutte le merci; ma non poteva comprare il lavoro come merce. Era tollerato soltanto come Verleger dei prodotti (Colui che acquista i prodotti dagli artigiani, commissionandoli loro, e li rivende sul mercato; non c’è equivalente italiano o francese). Se circostanze esterne provocavano una divisione progressiva del lavoro, le corpo razioni esistenti si scindevano in sottospecie oppure nuove corporazioni venivano a porsi accanto alle antiche, ma tuttavia senza che diversi mestieri venissero raccolti in una sola officina. Dunque l’organizzazione corporativa, per quanto la separazione, l’isolamento e il perfezionamento dei mestieri che le sono propri siano fra le condizioni materiali d’esistenza del periodo manifatturiero, escludeva la divisione del lavoro di tipo manifatturiero. Nel complesso e in genere, l’operaio e i suoi mezzi di produzione rimanevano legati fra di loro come la chiocciola è unita al suo guscio; così veniva a mancare il primo fondamento della manifattura, cioè la indipendenza acquisita dai mezzi di produzione, come capitale, nei confronti dell’operaio. Mentre la divisione del lavoro nel complesso di una società, mediata o meno dallo scambio delle merci, appartiene alle formazioni economiche della società più differenti fra loro, la divisione manifatturiera del lavoro è creazione del tutto specifica del modo di produzione capitalistico. 5. IL CARATTERE CAPITALISTICO DELLA MANIFATTURA La presenza d’un certo numero di operai sotto il comando dello stesso capitale costituisce il punto di partenza naturale tanto della cooperazione in generale, quanto della manifattura. Viceversa, la divisione manifatturiera del lavoro fa diventare necessità tecnica l’aumento del numero di operai che viene adoprato. Ora è la divisione del lavoro esistente a prescrivere il minimo di operai che il singolo capitalista deve adoprare. D’altra parte, i vantaggi d’una divisione ulteriore hanno una condizione: l’ulteriore aumento del numero degli operai, che ormai può avvenire solo per multipli. Ma con la parte costitutiva variabile del capitale deve aumentare anche quella costante; oltre il volume delle condizioni comuni di produzione, come edifici, fornaci, ecc. deve crescere in ispecie, e molto più rapidamente del numero degli operai, la materia prima. La massa di questa materia prima che vien consumata in un tempo dato da una quantità data di lavoro aumenta nella stessa proporzione dell’aumento della forza produttiva del lavoro in conseguenza della sua divisione. Dunque: aumento del volume minimo di capitale nelle mani del singolo capitalista, ossia aumento della trasformazione in capitale dei mezzi di sussistenza e dei mezzi di produzione sociali, è una legge che scaturisce dal carattere tecnico della manifattura[62]. Come nella cooperazione semplice, anche nella manifattura il corpo lavorativo in funzione è una forma d’esistenza del capitale. Il meccanismo sociale di produzione composto di molti operai parziali individuali appartiene al capitalista. La forza produttiva che deriva dalla combinazione dei lavori appare quindi come forza produttiva del capitale. La manifattura in senso proprio non solo assoggetta l’operaio, prima indipendente, al comando e alla disciplina del capitale, ma crea inoltre una graduazione gerarchica fra gli operai stessi. Mentre la cooperazione semplice lascia inalterato nel complesso il modo di lavorare del singolo, la manifattura rivoluziona questo modo di lavorare da cima a fondo, e prende alla radice la forza-lavoro individuale. Storpia l’operaio e ne fa una mostruosità favorendone, come in una serra, la abilità di dettaglio, mediante la soppressione d’un mondo intero d’impulsi e di disposizioni produttive, allo stesso modo che negli Stati del La Plata si macella una bestia intera per la pelle o per il grasso. Non solo i particolari lavori parziali vengono suddivisi fra diversi individui, ma l’individuo stesso vien diviso, vien trasformato in motore automatico d’un lavoro parziale[63], realizzandosi così l’insulsa favola di Menenio Agrippa che rappresenta un uomo come null’altro che frammento del suo stesso corpo[64]. Originariamente l’operaio vende la sua forza-lavoro al Capitalista perchè gli mancano i mezzi materiali per la produzione d’una merce: ma ora la sua stessa forza-lavoro individuale vien meno al suo compito quando non venga venduta al capitale; essa funziona ormai soltanto in un nesso che esiste soltanto dopo la sua vendita, nell’officina del capitalista. L’operaio manifatturiero, reso incapace per la sua stessa costituzione naturale a fare qualcosa d’indipendente, sviluppa una attività produttiva ormai soltanto come accessorio dell’officina del capitalista[65]. Come sulla fronte del popolo eletto stava scritto ch’esso era proprietà di Geova, così la divisione del lavoro imprime all’operaio manifatturiero un marchio che lo bolla a fuoco come proprietà del capitale. Le cognizioni, l’intelligenza e la volontà che il contadino o il mastro artigiano indipendente sviluppano, anche se su piccola scala, allo stesso modo che il selvaggio esercita come astuzia personale tutta l’arte della guerra, ormai sono richieste soltanto per il complesso dell’officina. Le potenze intellettuali della produzione allargano la loro scala da una parte perchè scompaiono da molte parti. Quel che gli operai parziali perdono si concentra nel capitale, di contro a loro[66]. Questa contrapposizione delle potenze intellettuali del processo di produzione agli operai, come proprietà non loro e come potere che li domina, è un prodotto della divisione del lavoro di tipo manifatturiero. Questo processo di scissione comincia nella cooperazione semplice, dove il capitalista rappresenta l’unità e la volontà del corpo lavorativo sociale di fronte ai singoli operai; si sviluppa nella mani fattura, che mutua l’operaio facendone un operaio parziale; si completa nella grande industria che separa la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente, dal lavoro e la costringe a entrare al servizio del capitale[67]. Nella manifattura l’arricchimento di forza produttiva sociale da parte dell’operaio complessivo e quindi del capitale, è la conseguenza dell’impoverimento delle forze produttive dell’operaio. «L’ignoranza è madre tanto dell’industria quanto della superstizione. La riflessione e la fantasia sono soggette ad errare; ma un’abitudine di muovere la mano o il piede in certo modo è indipendente dall’una e dall’altra. Quindi le manifatture prosperano di più dove meno si consulta la mente, di modo che la officina può esser considerata come una macchina le cui parti sono uomini»[68]. Di fatto, attorno alla metà del secolo XVIII, alcune manifatture adopravano di preferenza per certe operazioni semplici, che però costituivano segreti di fabbrica, proprio dei semiidioti[69]. «Le capacità mentali della grande maggioranza degli uomini », scrive A. Smith, «sono formati necessariamente dalle loro operazioni quotidiane. L’uomo che spende tutta la vita eseguendo poche operazioni semplici.., non ha nessuna occasione di esercitare le sue capacità mentali... Generalmente, diventa stupido e ignorante quanto è possibile a creatura umana». E dopo aver descritto la ottusità dell’operaio parziale lo Smith continua: «L’uniformità della sua vita stazionaria corrompe naturalmente anche il coraggio della sua mente... Corrompe perfino l’energia del suo corpo e lo rende incapace di applicare la sua forza con slancio e con perseveranza al di fuori del l’occupazione particolare per la quale è stato allevato. Così la destrezza dell’operaio nel suo particolare lavoro sembra acquistata a spese delle sue virtù intellettuali, sociali e militari; ma questo è lo stato al quale devono necessariamente ridursi i poveri che lavorano (the labiouring poor), cioè la gran massa del popolo, in ogni società industriale e incivilita»[70]. Per impedire la completa atrofia della massa del popolo, derivante dalla divisione del lavoro, A. Smith raccomanda l’istruzione popolare statale, seppure a prudenti dosi omeopatiche. Conseguentemente, il suo traduttore e commentatore francese, G. Garnier, che sotto il Primo Impero compì la sua naturale evoluzione in senatore, polemizza invece contro la istruzione popolare. Secondo lui, l’istruzione popolare viola le prime leggi della divisione del lavoro, e contravvenendo alla divisione del lavoro «si mette al bando tutto il nostro sistema sociale». «Come tutte le altre divisioni del lavoro, egli dice, quella fra il lavoro manuale e il lavoro intellettuale[71] diventa più chiara e più decisa a misura che la società (egli adopera esattamente questa espressione per il capitale, la proprietà fondiaria e il loro Stato) diventa più ricca. Questa divisione del lavoro è, come tutte le altre, effetto di progressi passati e causa di progressi futuri... È lecito che il governo operi contro questa divisione del lavoro e ne ostacoli il cammino naturale? È lecito che il governo impieghi una porzione delle pubbliche entrate nel tentativo di confondere e mescolare due classi di lavoro che tendono a dividersi a e separarsi?»[72]. Un certo rattrappimento intellettuale e fisico è inseparabile perfino dalla divisione del lavoro nell’insieme della società in generale. Ma il periodo della manifattura portando molto più avanti questa scissione sociale delle branche di lavoro, e d’altra parte intaccando la radice stessa della vita dell’individuo solo in virtù della sua peculiare divisione del lavoro, fornisce anche per primo il materiale e l’impulso alla patologia industriale [73]. «Suddividere un uomo, è eseguire la sua condanna a morte, se merita la condanna; è assassinarlo se non la merita. La suddivisione del lavoro è l’assassinio d’un popolo»[74]. La cooperazione fondata sulla divisione del lavoro, ossia la manifattura, è alla sua origine una formazione spontanea e naturale. Appena ha raggiunta una certa consistenza e una certa ampiezza di esistenza, diventa la forma consapevole, deliberata secondo un piano e sistematica, del modo di produzione capitalistico. La storia della manifattura vera e propria mostra come la divisione del lavoro che le è peculiare, in un primo momento raggiunga sperimentalmente le forme confacenti al suo scopo, quasi alle spalle delle persone che agiscono, ma poi tenda a tener fermo tradizionalmente alla forma ormai trovata, come vi ten deva il mestiere delle corporazioni; e in alcuni casi, vi tiene fermo per secoli interi. Se questa forma cambia, ciò avviene, meno che per gli aspetti secondari, sempre soltanto in conseguenza di una rivoluzione degli strumenti di lavoro. La manifattura moderna — non parlo qui della grande industria fondata sulle macchine —, o trova, come ad esempio la manifattura del vestiario, le disjecta membra poetae già pronte nelle grandi città dove essa sorge, e ha solo da toglierle alla loro dispersione e raccoglierle insieme; oppure il principio della divisione del lavoro si presenta come ovvio, perchè c’è semplicemente da appropriare esclusivamente a particolari operai differenti operazioni della produzione di tipo artigiano (per esempio per la legatoria). In questi casi non ci vuole neppure una settimana di esperienza per trovare la proporzione fra le braccia necessarie per ogni funzione[75]. Mediante l’analisi della attività artigiana, la specializzazione degli strumenti di lavoro, la formazione degli operai parziali, il loro raggruppamento e la loro combinazione in un meccanismo complessivo, la divisione manifatturiera del lavoro crea la articolazione qualitativa e la proporzionalità quantitativa dei processi sociali di produzione, crea quindi una determinata organizzazione del lavoro sociale, sviluppando così una nuova forza produttiva sociale del lavoro. Come forma specificamente capitalistica del processo di produzione sociale, — e sulle basi date non poteva svilupparsi altro che nella forma capitalistica, — la divisione manifatturiera del lavoro è soltanto un metodo particolare per generare plusvalore relativo, ossia per aumentare a spese degli operai l’autovalorizzazione del capitale, quel che si suoi chiamare ricchezza sociale, «Wealth of Nations», ecc. Essa non solo sviluppa la forza produttiva sociale del lavoro a favore del capitalista invece che a favore dell’operaio ma la sviluppa mediante lo storpiamento dell’operaio individuale. Produce nuove condizioni di dominio del capitale sul lavoro. Se dunque da una parte essa si presenta come progresso storico e momento necessario di sviluppo nel processo della formazione economica della società, dall’altra parte si presenta come un mezzo di sfruttamento incivilito e raffinato. L’economia politica, che solo nel periodo manifatturiero prende piede come scienza, speciale, considera la divisione sociale del lavoro, in genere, solo dal punto di vista della divisione del lavoro di tipo manifatturiero[76], come mezzo per produrre più merce con la stessa quantità di lavoro, e quindi per ridurre le merci più a buon mercato e per accelerare l’accumulazione del capitale. Gli scrittori dell’antichità classica si tengono esclusivamente alla qualità e al valore d’uso, in rigorosissimo contrasto con questa accentuazione della quantità e del valore di scambio[77]. In seguito alla separazione delle branche della produzione sociale, le merci sono fatte meglio, i differenti impulsi e talenti degli uomini si scelgono sfere d’attività loro confacenti[78], e senza limitazione non si può compier nulla di notevole in nessun campo[79]. Dunque prodotto e produttore vengono migliorati dalla divisione del lavoro. Se occasionalmente si ricorda anche l’aumento della massa dei prodotti, è solo in riferimento alla maggiore abbondanza di valore d’uso. Non c’è sillaba che accenni al valore di scambio, alla riduzione delle merci più a buon mercato. Questo punto di vista del valore d’uso predomina tanto in Platone[80] che tratta la divisione del lavoro come fondamento della separazione sociale fra i ceti, quanto in Senofonte[81], che col suo caratteristico istinto borghese s’avvicina già di più alla divisione del lavoro entro l’officina. La repubblica di Platone, per quanto riguarda lo svolgimento della divisione del lavoro come principio formativo dello Stato, è soltanto una idealizzazione ateniese del sistema egiziano delle caste; del resto l’Egitto vale anche per altri contemporanei di Platone come paese industriale modello ad es., per Isocrate[82], ed ha conservato questo significato anche per i greci dell’età imperiale romana[83]. Durante il periodo della manifattura vero e proprio, cioè durante il periodo nel quale la manifattura è la forma dominante del modo di produzione capitalistico, la piena esplicazione delle sue tendenze urta in molteplici ostacoli. Benchè la manifattura, come abbiamo visto, crei accanto alla graduazione gerarchica degli operai una separazione semplice fra operai abili e non abili, il numero di questi rimane assai limitato per via della influenza predominante dei primi. Benchè la manifattura adatti le operazioni particolari al grado differente di maturità, forza e sviluppo dei propri organi lavorativi viventi, e spinga di conseguenza allo sfruttamento produttivo delle donne e dei fanciulli, questa tendenza fallisce, tutto sommato, per le abitudini e per la resistenza degli operai maschi adulti. Benchè la scomposizione della attività di tipo artigianale faccia calare le spese di addestramento e quindi il valore dell’operaio, per lavori particolari più difficili rimane necessario un più lungo periodo di apprendistato, e questo periodo viene mantenuto gelosamente dagli operai anche là dove è divenuto superfluo. In Inghilterra, per esempio, troviamo che le laws of apprenticeship, con il loro settennato di tirocinio rimangono in pieno vigore fino alla fine del periodo della manifattura, e che sono buttate all’aria solo dalla grande industria. Poichè a fondamento della manifattura rimane l’abilità artigiana e poichè il meccanismo complessivo che funziona in essa non possiede una ossatura oggettiva indipendente dai lavoratori stessi, il capitale lotta continuamente con l’insubordinazione degli operai. « La fralezza della natura umana », esclama l’amico Ure, «è così grande che l’operaio quanto più è abile tanto più diviene ostinato e intrattabile, e di conseguenza con i suoi capricci da lunatico infligge gravi danni al meccanismo complessivo»[84]. Di qui le lamentele sull’indisciplina degli operai, ricorrenti per tutto il periodo della mani fattura[85]. Anche se non avessimo le testimonianze di scrittori contemporanei parlerebbero quanto intere biblioteche i semplici fatti che dal secolo XVI fino all’età della grande industria il capitale non riesce a impadronirsi di tutto il tempo disponibile dell’operaio manifatturiero, che le manifatture sono di vita breve e che abbandonano la loro sede in un paese e la trasferiscono in un altro seguendo le immigrazioni e le emigrazioni degli operai. « In un modo o nell’altro bisogna fare ordine », esclama nel 1770 lo spesso citato autore dell’Essay on Trade and Commerce. Ordine, risponde l’eco dopo sessantasei anni per bocca del dott. Andrew Ure; «l’ordine» mancava nella manifattura poggiante sul «dogma scolastico della divisione del lavoro», e «Arkwright creò l’ordine». Allo stesso tempo la manifattura non aveva potuto nè impadronirsi della produzione sociale in tutto il suo volume, nè sovvertirla fino in fondo. La manifattura s’elevava, opera d’arte economica, sulla vasta base dell’artigianato urbano e dell’industria domestica rurale. La sua base tecnica propria, ristretta com’era, entrò in contraddizione, a un certo grado del suo sviluppo, coi bisogni di produzione da essa stessa creati. Una delle sue creazioni più compiute fu l’officina per la produzione degli stessi strumenti di lavoro, ed in ispecie anche dei complicati apparecchi meccanici che già venivano adoprati. «Una di queste officine», dice l’Ure, «offriva allo sguardo la divisione del lavoro nelle sue molteplici gradazioni: trapano, scalpello, tornio avevano ognuno i loro operai, gerarchicamente ordinati secondo il grado della loro abilità». A sua volta, questo prodotto della divisione manifatturiera del lavoro produsse — macchine. Le macchine sopprimono l’attività di tipo artigiano come principio regolatore della produzione sociale. Così, da una parte viene eliminata la ragione tecnica dell’annessione dell’operaio ad una funzione parziale per tutta la vita e dall’altra cadono i limiti che quello stesso principio ancora imponeva al dominio del capitale. NOTE [26] Ecco una citazione atta a darci un esempio più moderno di questo modo di formazione della manifattura. La filatura e tessitura della seta di Lione e di Nimes, «è del tutto patriarcale; impiega molte donne e molti bambini, ma senza esaurirli nè corromperli; li lascia nelle loro belle vallate della Drôme, del Varo, dell’Isère, di Valchiusa, per allevarvi i bachi e dipanare i bozzoli...; non diventa mai una fabbrica vera e propria. Per esservi così bene osservato.., il principio della divisione del lavoro vi assume un carattere speciale. Certo, ci sono delle trattore, degli innaspatori, dei tintori, degli incollatori e poi dei tessitori; ma non sono riuniti nello stesso stabilimento, non dipendono da uno stesso padrone; sono tutti indipendenti » (A. BLANQUI, Cours d’Économie Industrielle, recueilli par A. Blaise, Parigi, 1838-39, p. 79). Da quando il Blanqui ha scritto queste parole, i differenti operai indipendenti sono stati in parte riuniti in fabbriche. (Alla quarta edizione. E da quando Marx ha scritto quanto sopra, il telaio meccanico ha acquistato cittadinanza in quelle fabbriche e sta rapidamente eliminando il telaio a mano. Ed anche l’industria della seta di Krefeld ne sa qualcosa. F. E.). [27] « Più il lavoro in qualunque manifattura di gran varietà dev’essere suddiviso e assegnato a diversi artefici, meglio sarà, necessariamente, eseguito e con maggiore sveltezza, con meno perdita di tempo e lavoro » (The Advantages of the East India Trade, Londra, 1720, p. 71). [28] « Lavoro compiuto agevolmente non è che abilità trasmessa » (Th. HODGSKIN Popular Political Economy [ Londra 1827], p. 48). [29] « Ma parliamo delle arti singolarmente coltivate dagli Egizi, e condotte da essi a giusto fine. Presso questo solo popolo agli artigiani non è permesso altr’officio nella repubblica, ed altr’ordine di faccende, che quello che dalle leggi è determinato, ed insegnato da genitori... Altrove veggiamo che gli artefici distraggonsi in molte cose diverse... poichè alcuni di essi mettonsi a coltivare la terra; alcuni a mercatare; alcuni eziandio esercitano nello stesso tempo due o tre mestieri: moltissimi nelle città governate a popolo vanno correndo alle pubbliche assemblee... Ma presso gli Egizi, se alcuno degli artefici si dà agli affari pubblici, o se esercita più arti ad un tempo, incorre in pene gravissime. Per la qual ragione la repubblica degli antichi Egizi fu distinta; ed ognuno conservò e stette sempre nell’ordine, a cui per la discendenza da suoi maggiori egli apparteneva » (Biblioteca storica di DIODORO SICULO [volgarizzata dal Cav. Compagnoni, tomo primo, Milano, 1820, pp. 147-481], libro primo, sezione seconda, cap. XI) [30] Historical and descriptive Account of British India ecc. di HUGH MURSAY, JAMES WILSON, ecc., Edimburgo, 1832, vol II, pp. 449, 450. Il telaio indiano è d’alto liccio, cioè l’ordito è teso verticalmente. [31] Nella sua grande opera che ha fatto epoca, sulla Origine delle specie, il DARWIN osserva, in riferimento agli organi naturali delle piante e degli animali: « Finchè un medesimo organo deve compiere lavori differenti, possiamo forse trovare un motivo della sua variabilità nel fatto che la selezione naturale conserva o sopprime ogni minima variazione di forma meno accuratamente di come farebbe se quell’organo fosse destinato a un solo fine speciale. Allo stesso modo coltelli destinati a tagliare ogni sorta di cose, possono avere, nel complesso, una forma comune; ma strumenti destinati a un solo uso devono avere una forma differente per ogni uso differente » [ On the Origin of Species by means of natural Selection, Londra, 1859, p. 149]. [32] Nel 1854 Ginevra ha prodotto ottantamila orologi, neppure un quinto della produzione di orologi del cantone di Neuchatel. La Chaux-de-Fonds, che può esser considerata come una sola grande manifattura di orologi, ne fornisce da sola ogni anno il doppio di Ginevra. Dal 1850 al 1861 Ginevra ha fornito settecentoventimila orologi. Vedi Report from Geneva on the Watch Trade, in Reports by H. M.‘s Secretaries of Embassy and Legation on the Manufactures, Commerce ecc., n. 6, 1863. La mancanza di connessione fra i processi nei quali si scompone la produzione di manufatti che sono il risultato d’un semplice montaggio, rende in sè e per sè molto difficile la trasformazione di tali manifatture nella conduzione a macchinario della grande industria; ma per l’orologeria poi si aggiungono altri due ostacoli: il volume piccolissimo e la delicatezza dei suoi elementi, e il suo carattere di lusso dal quale viene la sua varietà cosicchè, per esempio nelle migliori case di Londra, non si fa in tutto l’anno quasi neppure una dozzina di orologi che si assomiglino. La fabbrica d’orologi di Vacheron e Constantin, che usa con successo le macchine, fornisce anch’essa al massimo da tre a quattro varietà di grandezza e di forma. [33] Nell’orologeria, classico esempio di manifattura eterogenea, si può studiare con gran precisione la sopra ricordata differenziazione e specializzazione degli strumenti di lavoro, derivante dalla scomposizione dell’attività artigiana. [34] « In una coabitazione così stretta il trasporto dev’essere necessariamente minore » (The Advantages of the East India Trade, p. 106). [35] « L’isolamento dei differenti stadi della manifattura che consegue all’impiego di lavoro manuale, aumenta immensamente i costi di produzione; e la perdita deriva principalmente dai puri e semplici spostamenti da un processo all’altro» (The Indundistry of Nations, Londra, 1855, parte II, p. 200). [36] «Essa (la divisione del lavoro) produce anche una economia di tempo, scomponendo il lavoro nelle sue differenti branche, che tutte possono essere messe in esecuzione allo stesso momento... Eseguendo in una volta sola tutti i differenti processi che un individuo avrebbe dovuto eseguire separatamente, diventa possibile produrre una quantità di spilli, per esempio, completamente finiti, nello stesso tempo nel quale uno spillo solo sarebbe stato altrimenti soltanto tagliato o aguzzato » (DUGALD STEWART, Works, ed. da Sir W. Hamilton, Edimburgo, vol. VIII, Lectures ecc., -- p. 319). [37] « Quanto maggiore la varietà degli artefici in ogni manifattura.., tanto maggiore l’ordine e la regolarità di ogni lavoro. Questo dev’essere compiuto necessariamente in meno tempo, la fatica dev’essere minore » (The Advantages of the East India Trade, p. 68). [38] Però, in molte branche l’industria manifatturiera raggiunge tale risultato solo incompletamente, perchè non sa controllare con sicurezza le condizioni generali chimiche e fisiche del processo di produzione [39] «Quando l’esperienza, a seconda della particolar natura dei prodotti di ogni manifattura, ha insegnato tanto il modo più vantaggioso di dividere la fabbricazione in operazioni parziali, quanto il numero di operai ad esse necessario, tutte le manifatture che non adoperano un multiplo esatto di questo numero produrranno a maggior costo....Questa è una delle cause dell’estensione colossale degli stabilimenti manifatturieri » (CH. BABBAGE . On the Economy of Machinery [ I ed.] Londra, I 1832 cap. XXI pp. 172, 173). [40] In Inghilterra il forno fusorio è distinto dalla fornace vetraria, dove il vetro viene lavorato; invece nel Belgio, per esempio, lo stesso forno viene usato per entrambi i processi. [41] Questo risulta fra l’altro anche da W. Petty, John Bellers, Andrew Yarranton, da The Advantages of the East India Trade e da J. Vanderlint. [42] Ancora verso la fine del secolo XVI la Francia si serve di mortaio e crivello per frangere e lavare i minerali. [43] Si può seguire tutta la storia dello sviluppo delle macchine nella storia dei mulini per cereali. In Inghilterra la fabbrica si chiama ancor oggi mill (mulino). In alcuni scritti tecnologici tedeschi dei primi decenni del sec. XIX si trova ancora espressione Mühle (mulino) non solo per tutti i macchinari mossi da forze naturali, a anche per tutte le manifatture che adoprano apparecchi di tipo meccanico. [44] Come si vedrà più particolarmente nel libro quarto di questa opera, A. Smith non ha presentato neppure una sola nuova proposizione sulla divisione del lavoro. Ma l’accento ch’egli pone sulla divisione del lavoro lo caratterizza come l’economista politico che riassume in sè il periodo della manifattura. La funzione subordinata da lui assegnata alle macchine ha provocato agli inizi della grande industria la polemica del Lauderdale, in un periodo più evoluto quella dell’Ure. A Smith scambia anche la differenziazione degli strumenti, nella quale ebbero gran parte i lavoratori parziali della stessa manifattura, con l’invenzione delle macchine. In questa hanno una parte non gli operai delle manifatture, ma scienziati, maestri artigiani, perfino contadini (Brindley), ecc. [45] « Il padrone della manifattura può procurarsi, dividendo il manufatto in parecchie operazioni diverse, ognuna delle quali richiede gradi differenti di destrezze di forza, quella precisa quantità di forza e di destrezza che corrisponde ad ogni operazione. Se invece un solo operaio avesse da eseguire tutto il manufatto, lo stesso individuo dovrebbe possedere abilità sufficiente per le operazioni più delicate e forza sufficiente per le operazioni più faticose » (CH. BABBAGE, On the Economy ecc., cap. XIX). [46] Per esempio, sviluppo unilaterale di certi muscoli, deformazione delle ossa, ecc. [47] Il signor Wm. Marshall, general manager d’una manifattura di vetrerie, risponde molto giustamente alla domanda d’un commissario inquirente sul come si mantenesse viva la laboriosità fra i ragazzi ch’egli impiegava: « Non possono trascurare il loro lavoro: appena abbiano incominciato a lavorare non possono non continuare a lavorare; sono proprio come parti di una macchina » (Child. Empl. Comm., Fourth Report, 1865, p. 247). [48] Il dott. Ure, nella sua apoteosi della grande industria, percepisce i caratteri peculiari della manifattura più nettamente degli economisti precedenti che non avevano il suo interesse polemico e perfino dei suoi contemporanei, per esempio il Babbage, che certo gli è superiore come matematico e meccanico, ma tuttavia concepisce la grande industria veramente solo dal punto di vista della manifattura. L’Ure osserva: «L’appropriamento degli operai a ciascuna operazione particolare costituisce a sostanza della distribuzione dei lavori». D’altra parte designa tale distribuzione come «adattamento dei lavori alle differenti capacità individuali » e definisce infine tutto il sistema manifatturiero come «un sistema di graduazioni secondo il grado dell’abilità », «una divisione del lavoro secondo i diversi gradi di abilità ecc. » (URE, Philosophy of Manufactures, pp. 19-22, passim). [49] «Ogni artigiano che.., veniva messo in istato di perfezionarsi con la pratica in una operazione singola.., diventava un operaio più a buon mercato » (URE, Philosophy cit., p. 19). [50] La divisione del lavoro parte dalla separazione delle professioni meno somiglianti giungendo progressivamente fino a quella divisione nella quale più operai si dividono la confezione d’un solo identico prodotto, come nella manifattura (STORCH, Cours d’Économie Politique, ed. di Parigi vol. I, p. 173). « Presso i popoli giunti a un certo grado di civiltà incontriamo tre generi di divisione del lavoro: la prima, che chiamiamo generale, introduce la divisione dei produttori in agricoltori, manifatturieri e commercianti, e corrisponde alle tre branche principali del lavoro nazionale; la seconda, che si potrebbe chiamare particolare, è la divisione di ogni branca di lavoro in specie...; finalmente la terza divisione del lavoro, che si potrebbe chiamare divisione dell’operazione del lavoro ossia divisione del lavoro in senso proprio, è quella che si determina nei singoli mestieri e nelle singole professioni... e si afferma nella maggior parte delle manifatture e delle officine (SKARBEK, Théorie des Richesses Sociales, Parigi, 1829, t. I, pp. 84-85). 50a Nota alla terza edizione. Studi posteriori, condotti molto a fondo, sulle con dizioni primitive dell’uomo hanno condotto l’autore al risultato che originariamente non è stata la famiglia a evolversi in tribù, ma viceversa: la tribù è stata la forma spontanea originaria della associazione fra gli uomini, basata sulla consanguineità, cosicchè solo più tardi le forme numerose e diverse della famiglia si sono sviluppate dalla incipiente dissoluzione dei vincoli tribali. F. E. [51] Sir James Steuart ha trattato meglio di tutti questo punto. Quanto poco sia oggi conosciuta la sua opera, apparsa dieci anni prima della Wealth of Nations, si vede anche dal fatto che gli ammiratori di Malthus non sanno neppure che nella prima edizione del suo scritto sulla Population costui, a prescindere dalla parte puramente declamatoria, non fa quasi che copiare lo Steuart, oltre ai preti Wallace e Townsend. [52] «C’è una certa densità di popolazione che è conveniente tanto per i rapporti sociali quanto per quella combinazione di forze per mezzo della quale s’accresce il prodotto del lavoro» (JAMES MILL, Elements, p. 50). «Quando cresce il numero degli operai, la forza produttiva della società aumenta in ragione composta di quel l’aumento, moltiplicata per gli effetti della divisione del lavoro » (THOMAS HUdGSKIN. Popular Political Economy, pp. 125-126). [53] In seguito alla forte richiesta di cotone dopo il 1861, in alcuni distretti delle Indie Orientali, altrimenti popolosissimi, venne estesa la produzione del cotone a spese di quella del riso. Ne derivò una carestia parziale perchè a causa della mancanza di mezzi di comunicazione e quindi mancanza di connessioni fisiche, la mancanza del riso in un distretto non poteva esser compensata con l’importazione da altri distretti. [54] Così in Olanda la fabbricazione delle spole per i tessitori ha costituito un ramo particolare d’industria già durante il secolo XVII. [55] «La manifattura della lana in Inghilterra non è forse divisa in diverse parti o branche appropriate a luoghi particolari, dove essa è lavorata unicamente o principalmente: panni fini nel Somersetshire, panni grossi nel Yorkshire, doppia altezza ad Exeter, sete a Sudburv, crespi a Norwich, lane miste a Kendal, coperte a Whitney, e così via! » (BERKELEY, The Querist, 1750, § 520). [56] A. FERGUSON, History of Civil Society, Edimburgo, 1767, parte IV, sez. II, p. 285. [57] Nelle manifatture vere e proprie, egli dice, la divisione del lavoro appare maggiore perchè «coloro che sono impiegati in ogni differente branca di lavoro possono spesso essere raccolti nello stesso luogo di lavoro, e abbracciati con un solo sguardo dallo spettatore. Invece in quelle grandi manifatture (!) che sono destinate a soddisfare i grandi bisogni della grande massa della popolazione, in ogni singola branca di lavoro sono occupati tanti operai, che è impossibile raccoglierli tutti nello stesso luogo di lavoro.., la divisione del lavoro non è così ovvia, neppure approssimativamente » (A. SMITH, Wealth of Nations, libro I, cap. I). Il celebre passo dello stesso capitolo che comincia con le parole: «Si osservi l’arredamento dell’artefice o dell’operaio giornaliero più ordinario in un paese incivilito e fiorente... » e che dipinge poi quanti innumerevoli e svariati mestieri collaborino alla soddisfazione dei bisogni d’un operaio ordinario, è copiato quasi parola per parola dalle Remarks di B. de Mandeville alla sua Fable of the Bees, or Private Vices, Public Benefits (prima edizione, senza Remarks, 1706, con le Remarks, 1714). [58] «Ma non c’è più nessuna cosa che si possa designare come retribuzione naturale del lavoro d’un singolo. Ogni operaio produce solo una parte di un tutto, e poichè ogni parte per se stessa non ha valore od utilità, non c’è nulla che l’operaio possa prendere dicendo: questo è il mio prodotto, e voglio conservarlo per me » (Labour defended against the claims of Capital, Londra, 1825, p. 25). Autore di questo eccellente scritto è il già citato TH. HODGSKIN. 58a Nota alla seconda edizione. Questa differenza fra la divisione sociale e la divisione manifatturiera del lavoro è stata illustrata praticamente agli yankees. Una delle nuove imposte escogitate a Washington durante la guerra civile è stato il balzello del sei per cento su « tutti i prodotti industriali ». Domanda: che cos’è un prodotto industriale? Risposta del legislatore: Una cosa è prodotta, « quando è fatta » (when it is made), ed è fatta, quando è pronta per la vendita. Ed ora un esempio fra molti. Prima di questa imposta, alcune manifatture a New York e a Filadelfia avevano «fatto» ombrelli con tutto quel che ne fa parte. Ma poichè un ombrello è un mixtum compositum costituito di parti del tutto eterogenee, queste erano divenute a poco a poco manufatti prodotti da branche industriali indipendenti le une dalle altre, in luoghi differenti. I loro prodotti parziali passavano poi come merci indipendenti nella manifattura degli ombrelli, la quale non aveva altro da fare che riunirle e farne un tutto. Gli yankees hanno battezzato tali manufatti «assembled articles » (articoli radunati), il che certo avevano meritato come centri di raccolta di imposte. Così l’ombrello « radunava» in primo luogo un balzello del sei per cento sul prezzo di ognuno dei suoi elementi, e poi di nuovo il sei per cento sul proprio prezzo complessivo. [59] « Si può... stabilire, come principio generale, che, quanto meno l’autorità presiede alla divisione del lavoro nell’interno della società, tanto più la divisione del lavoro si sviluppa nell’interno della fabbrica, e vi è sottoposta all’autorità di uno solo. Così l’autorità nella fabbrica e quella nella società, in rapporto alla divisione del lavoro, sono in ragione inversa l’una dell’altra » (KARL MARX, Misère de la Philosophie ecc., pp. 130-131 ) [60] Lieut. Col. MARK WILKS, Historical Sketches of the South of India, Londra, l810_17, vol. I, pp. 118—20. In GEORGE CAMPBELL, Modern India, Londra, 1852, Si trova una buona rassegna delle differenti forme delle comunità indiane. [61] « In questa semplice forma ..sono vissuti da tempi immemorabili gli abitanti del paese. I confini dei villaggi sono stati alterati solo raramente; e benchè i villaggi stessi abbiano talvolta sofferto gravi danni o siano stati addirittura devastati da guerre, carestie, epidemie, hanno conservato lo stesso nome, gli stessi confini, gli stessi interessi e perfino le stesse famiglie attraverso i secoli. Gli abitanti non si preoccuppano per la caduta o la divisione dei regni; finchè il villaggio rimane intero, non si preoccupano di sapere quale potenza sarà padrona, o a quale sovrano sarà devoluto: la sua economia interna rimane immutata » (Th. STAMFORD RAFFLES, late Lieut. Gov. of Java, The History of Java, Londra, 1817, vol. I, p. 285). [62] « Non basta che il capitale necessario alla suddivisione dei mestieri » (bisognerebbe dire: i mezzi di sussistenza e di produzione a ciò necessari) « esista già nella società è necessario inoltre che sia accumulato nelle mani degli imprenditori in proporzioni sufficientemente considerevoli per render loro possibile il lavoro su grande scala... A misura che la divisione aumenta, l’occupazione costante d’uno stesso numero di operai esige un capitale sempre più considerevole in strumenti, materie prime, ecc. » (STORCH, Cours d’Èconomie Politique, ed. di Parigi, [1823] Vol. I, pp. 250-251). « La concentrazione degli strumenti di produzione e la divisione del lavoro sono inseparabili l’una dall’altra quanto lo sono, nel regime politico, la concentrazione dei poteri pubblici e la divisione degli interessi privati » (KARL MARX , Misère de la Philosophie, p. 134 ). [63] Dugald Stewart chiama gli operai delle manifatture « automi viventi.., che vengono adoprati per lavori parziali a (Works, ed. da Sir W. Hamilton, Edimburgo, vol. VIII, 1855, Lectures ecc., p. 318). [64] Di fatto, fra i coralli, ogni individuo costituisce lo stomaco di tutto il gruppo. Ma gli apporta materia nutritiva, invece di togliergliene come faceva il patrizio romano. [65] «L’operaio che porta nel suo braccio un mestiere intero può andare dappertutto ad esercitare la sua industria e trovare dei mezzi di sussistenza; l’altro (quello della manifattura) è soltanto un accessorio che, separato dai suoi confratelli, non ha più nè capacità nè indipendenza, e che si trova costretto ad accettare la legge che si ritiene conveniente imporgli » (STORCH, Cours d’Économie Politique, ed. di Pietroburgo, 1815, vol. I, p. 204). [66] A. FERGUSON, History of Clvil Society, p. 281: «Il primo può aver guadagnato quello che l’altro ha perduto». [67] «L’uomo di scienza e l’operaio produttivo sono separati da ampio tratto, e la scienza, invece di aumentare, in mano all’operaio, la sua forza produttiva a suo favore, gli si è quasi dappertutto contrapposta... La conoscenza diviene uno strumento che può esser separato dal lavoro e contrapposto ad esso » (W. THOMPSON. A Inquiry into the Principles of the Distribution of Wealth, Londra, 1824, p. 274). [68] A. FERGUSON, History of Civil Society, p. 280. [69] J. D. TUCKETT, A History of the Past and Present State of the Lab Population, Londra, 1846, vol. I, p. 148. [70] A. SMITH, Wealth of Nations, libro V, cap. I, art. 11. Come discepolo di A Ferguson, che aveva spiegato le conseguenze dannose della divisione del lavoro, lo Smith aveva chiarissimo questo punto. All’inizio della sua opera, dove la divisione del lavoro viene celebrata ex professo, accenna solo di passaggio ch’essa è fonte delle disuguaglianze sociali. Solo nel quinto libro, sulle entrate dello Stato, egli riproduce il Ferguson. In Misère de la Philosophie ho detto il necessario sul rapporto storico fra il Ferguson, lo Smith, il Lemontey e il Say, per quanto riguarda la loro critica della divisione del lavoro; ivi ho anche mostrato per la prima volta come la divisione manifatturiera del lavoro sia la forma specifica del modo di produzione capitalistico (K. MARX, Misère de la Philosophie, Parigi, 1847, p. 122 sg.). [71] Il FERGUSON dice già, nella History of Civil Society, p. 281: « E il pensare stesso, in questa età di divisioni del lavoro può diventare un mestiere particolare ». [72] G. GARNIER, vol. V della sua trad. di A. Smith, pp. 4-5. [73] Il RAMAZZINI, professore di medicina pratica a Padova, pubblicò nel 1713 la sua opera De morbis artificum, tradotta nel 1781 in francese, ristampata nel 1841 nella Encyclopédie des Sciences Médicales, 7me discours: Auteurs Classiques. Il periodo della grande industria ha naturalmente aumentato di molto il catalogo delle malattie degli operai compilato dal Ramazzini. V. fra l’altro: Hygiène physique et morale de l’ouvrier dans les grandes vilies en général, et dans la ville de Lyon en particulier. Par le Dr. A. L. FONTERET, Parigi, 1858, e Die Krankheiten, welche verschiednen Ständen, Altern und Geschlechtern eigentümlich sind, 6 voll., Ulma, 1840. Nel 1854 la Society of Arts nominò una commissione d’inchiesta per la patologia industriale. La lista dei documenti raccolti da questa commissione si trova nel catalogo del Twickenham Economic Museum. importantissimi gli ufficiali Reports on Public Health. Vedi anche EDUARD REICH. M. D., Über die Entartung des Menschen, Erlangen, 1868. [74] « To subdivide a man is to execute him if he deserves the sentence, to assassinate him, if he does not... the subdivision of labour is the assassination of a people» (D. URQUHART, Familiar Words, Londra, 1855, p. 119). Hegel aveva opinioni molto eretiche sulla divisione del lavoro. Nella Filosofia del Diritto dice: « Per uomini colti si possono intendere anzitutto quelli che son capaci di fare tutto quello che fanno gli altri » [Grundliner der Philosophie des Rechts, parte 3, sez. 2, par. 187, aggiunta]. [75] Ormai la credenza sempliciotta nel genio inventivo che il singolo capitalista eserciterebbe a priori nella divisione del lavoro, si trova più soltanto fra i professori tedeschi, come per esempio il signor Roscher, il quale dedica come compenso «diversi salari di lavoro» al capitalista, dalla cui testa di Giove la divisione del lavoro nascerebbe bell’e fatta. La maggiore o minore applicazione della divisione del lavoro dipende dall’ampiezza della borsa, non dalla grandezza del genio. [76] Più che A. Smith, sono scrittori precedenti, come il Petty, come l’autore anonimo degli Advantages of the East India Trade ecc, a fissare il carattere capitalistico della divisione manifatturiera del lavoro. [77] Fra i moderni fanno eccezioni alcuni scrittori del secolo XVIII, che riguardo alla divisione del lavoro ripetono quasi soltanto gli antichi, come il Beccaria e James Harris. Il Beccaria dice: «Ciascuno prova coll’esperienza, che applicando la mano e l’ingegno sempre allo stesso genere di opere e di prodotti, egli più facili, più abbondanti e migliori ne tragga risultati, di quello che se ciascuno isolatamente le cose tutte a sè necessarie soltanto facesse... Dividendosi in tal maniera per la comune e privata utilità gli uomini in varie classi e condizioni » (CESARE BECCARIA, Elementi di Economia Politica, ed. Custodi, parte moderna, tomo XI, p. 28). James Harris, poi Earl of Malmesbury, famoso per i Diaries della sua ambasceria a Pietroburgo, dice egli stesso in una nota al suo Dialogue concerning Happiness, Londra, 1741, poi ristampato in Three Treatises ecc., 3. ed., Londra, 1772: «Tutto l’argomento per dimostrare che la società è qualcosa di naturale (cioè l’argomento della “ divisione delle occupazioni “) è preso dal secondo libro della Repubblica di Platone » [78] Così nell’Odissea, XIV, 228. [ uomo s’allegra d’altri lavori]; e Archiloco presso Sesto Empirico: [ ciascuno si rallegra il cuore con un altro lavoro]. [79] [Molti lavori sapeva fare, e tutti male] L ateniese si sentiva superiore allo spartano come produttore di merci perchè lo spartano in guerra poteva disporre sì di uomini, ma non di denaro, come Tucidide fa dire a Pericle nel discorso per incitare gli ateniesi alla guerra del Peloponneso: «Le moltitudini agricole rischiano in guerra più volentieri la vita che il denaro » (TUCIDIDE, Libro I, cap. 141 [trad. P. Sgroi, Milano, 1942, p. 169]). Tuttavia loro ideale rimase, anche nella produzione materiale la [autarchia] che è contrapposta alla divisione del lavoro, « poichè in questa c’è il benessere, ma in quella anche l’indipendenza». Qui bisogna tener conto che ancora al tempo della caduta dei trenta tiranni non c’erano nemmeno cinquemila ateniesi senza proprietà fondiaria. [80] Platone deduce la divisione del lavoro all’interno della comunità dalla molteplicità dei bisogni e dalla unilateralità delle disposizioni naturali degli individui. Per lui il punto di vista principale è che l’operaio si deve adattare al lavoro, non il lavoro all’operaio, il che sarebbe inevitabile se l’operaio esercitasse molte arti allo stesso tempo, e quindi l’uno o l’altro fosse per lui lavoro secondario, « Perchè... ciò che deve essere fatto non vuole attendere il comodo di chi deve farlo, ma è necessario che quegli che deve fare attenda, e senza negligenza, a ciò che deve essere fatto. — E’ necessario — Per queste ragioni si riesce sempre più e meglio e più facilmente, allorquando uno faccia una cosa conforme alla sua natura e al momento opportuno, libero da altre occupazioni » (De Republica, I, 2, ed. Baiter, Orelli, ecc. [ trad. C.O. Zuretti, Bari, 1915, pp. 73-74; 370, Bekker]). Analogamente in TUCIDIDE, ivi, cap. 142: «La marineria è un’arte, se altra mai; e non ammette uno studio senza sistema e senza impegno esclusivo; anzi è gelosissima di qualsiasi altra attività che le si svolge al lato ». Se l’opera, dice Platone, deve aspettare l’operaio, spesso si lascerà passare il punto critico della produzione, e l’opera sarà rovinata, [e va perduto il momento opportuno del lavoro]. La stessa idea platonica si ritrova nella protesta dei candeggiatori inglesi contro la clausola della legge sulle fabbriche che stabilisce una ora fissa per i pasti per tutti gli operai. La loro industria non può, secondo loro, adattarsi agli operai, perchè « nessuna delle varie operazioni della lavatura, manganatura, calandratura, tintura, può essere interrotta a un certo punto senza pericolo di danni... L’imposizione di una stessa e unica ora dei pasti per tutti gli operai può occasionalmente mettere in pericolo beni preziosi a causa dell’interruzione del processo lavorativo ». Le platonisme où va-t-il se nicher! [81] Senofonte racconta che non è solo onorifico ricevere cibi dalla mensa del re di Persia, ma che questi cibi sono anche più gustosi di altri: « E certo non vi è meraviglia se la cosa istà così; perchè siccome altri artifici sono nelle grandi città più maestrevolmente fatti, così per la stessa maniera le vivande in casa di un re sono molto più delicatamente apprestate. Che in vero nelle città piccole sono gli stessi quei che fanno letto, porta, aratro, tavola e molte volte è un istesso uomo, che fa la casa eziandio, e si reca a ventura se trova chi bastevolmente lo adoperi per fargli guadagnare il vitto; onde è impossibile, che un artefice di più opere, tutte le possa fare egregiamente: dove nelle grandi città, per il bisogno, che molti hanno di ciascuna cosa, basta anche a ciascuno per dargli da vivere, una sola arte: e bene spesso una sola nè anche intera; ma chi fa calzari da uomo, e chi da donna. Ecci anco dove tal guadagna il vitto con cucir calzari, e tal con tagliarli, un altro pure con tagliare abiti solamente, e un altro con far nulla di ciò, ma con racconciar queste cose. Laonde è mestieri che chi intorno ad un’opera di ben corta durata costantemente s’impiega, anche di necessità vi riesca a farla eccellentemente. Lo stesso appunto interviene delle cose al vitto appartenenti e (SENOFONTE, Ciropedia, libro VIII, cap. II; [trad. Francesco Regio, tomo secondo, Milano, Sonzogno, 1821, p. 1621). Qui si tien di mira esclusivamente la bontà del valore d’uso, perchè essa è quel che ci si propone di ottenere; henchè Senofonte già sappia che la scala della divisione del lavoro dipende dalla estensione del mercato. [82] «Egli (Busiride) divise tutti in caste particolari.., dette ordine che ciascuno facesse sempre lo stesso lavoro, ben sapendo che quelli che cambiano occupazione non diventano preparati a fondo in nessuna, mentre quelli che rimangono sempre nelle stesse occupazioni, fanno cose perfette. E realmente troveremo che essi nelle arti e mestieri han superato i loro rivali più che in ogni altro caso il maestro superi il pasticcione, e che per l’ordine tenuto per conservare il regno e le altre istituzioni dello Stato sono cosi eccellenti, che i celeberrimi filosofi che imprendono a parlare di tali cose, antepongono la costituzione egiziana alle altre » (ISOCRATE, Busiris, cap. 8). [83] Cfr. Diodoro Siculo [ Biblioteca Storica, libro I]. [84] URE, Philosophy ecc., p. 20. [85] Quanto è detto nel testo vale molto più per l’Inghilterra che per la Francia, e p per la Francia che per l’Olanda. |
AVVERTENZA PER IL LETTORE Il testo del I libro del Capitale che viene qui riportato NON È UNA DELLE TRADUZIONI INTEGRALI DEL TESTO ORIGINALE che sono disponibili: esso infatti è una rivisitazione delle traduzioni esistenti (in italiano ed in francese) a cui sono state apportate le seguenti modifiche: 1 – negli esempi numerici, per facilitare la lettura, sono state cambiate le unità di misura e le grandezze; 2 – diversi dati richiamati nella forma di testo sono stati trasformati in tabelle ed in grafici; 3 – in alcuni esempi numerici le cifre decimali indicate sono state limitate a due e nel caso di numeri periodici, ad esempio 1/3 o 2/3, la cifra periodica è stata indicata ponendovi a fianco un apice (’). Ci rendiamo conto che leggere un testo del Capitale in cui Marx formula esempi in Euro (€) invece che in Lire Sterline (Lst) o scellini potrebbe far sorridere e far pensare ad uno scherzo o ad una manipolazione che ha travisato il pensiero dell’Autore, avvertiamo invece il lettore che il testo è assolutamente fedele al pensiero originale e che ci siamo permessi di introdurre alcune “varianti” per consentire a coloro che non hanno dimestichezza con le unità di misura e monetarie inglesi di non bloccarsi di fronte a questa difficoltà e di facilitarne così la lettura o lo studio. In altre parti si è invece mantenuto le unità di misura e monetarie inglesi originali perchè la lettura non creava problemi di comprensione e per ragioni di fedeltà storica. Ci facciamo altresì carico dell’osservazione che Engels ha formulato nelle “considerazioni supplementari” poste all’inizio del III Libro,laddove, di fronte alle molteplici interpretazioni del testo che vennero fatte dopo la prima edizione, sostiene: “Nella presente edizione ho cercato innanzitutto di comporre un testo il più possibile autentico, di presentare, nel limite del possibile, i nuovi risultati acquisiti da Marx, usando i termini stessi di Marx, intervenendo unicamente quando era assolutamente necessario, evitando che, anche in quest’ultimo caso, il lettore potesse avere dei dubbi su chi gli parla. Questo sistema è stato criticato; si è pensato che io avrei dovuto trasformare il materiale a mia disposizione in un libro sistematicamente elaborato, en faire un livre, come dicono i francesi, in altre parole sacrificare l’autenticità del testo alla comodità del lettore. Ma non è in questo senso che io avevo interpretato il mio compito. Per una simile rielaborazione mi mancava qualsiasi diritto; un uomo come Marx può pretendere di essere ascoltato per se stesso, di tramandare alla posterità le sue scoperte scientifiche nella piena integrità della sua propria esposizione. Inoltre non avevo nessun desiderio di farlo: il manomettere in questo modo perchè dovevo considerare ciò una manomissione l’eredità di un uomo di statura così superiore, mi sarebbe sembrato una mancanza di lealtà. In terzo luogo sarebbe stato completamente inutile. Per la gente che non può o non vuole leggere, che già per il primo Libro si è data maggior pena a interpretarlo male di quanto non fosse necessario a interpretarlo bene — per questa gente è perfettamente inutile sobbarcarsi a delle fatiche”. Marx ed Engels non ce ne vogliano, ma posti di fronte alle molteplici “fughe” dallo studio da parte di persone che non possedevano una cultura accademica, fughe che venivano imputate alla difficoltà presentate dal testo, abbiamo deciso di fare uno “strappo” alle osservazioni di Engels, intervenendo in alcune parti avendo altresì cura di toccare il testo il meno possibile. Nel fare questo “strappo” eravamo tuttavia confortati dal fatto che, a differenza della situazione in cui Engels si trovava, oggi chi vuole accedere al testo “originale”, dispone di diverse edizioni in varie lingue. Coloro che volessero accostarsi al testo originale in lingua italiana si consigliano le seguenti edizioni:
Chi volesse accedere ad edizioni del Capitale e di altri testi di Marx in lingue estere, si propone di consultare il sito internet di seguito riportato:http://www.marxists.org/xlang/marx.htm |