IL CAPITALE

LIBRO I

SEZIONE III

LA PRODUZIONE DEL PLUSVALORE ASSOLUTO

CAPITOLO 7

IL SAGGIO DEL PLUSVALORE

1. IL GRADO DI SFRUTTAMENTO DELLA FORZA-LAVORO.

Il plusvalore generato nel processo di produzione dal capitale anticipato C, cioè la valorizzazione del valore di capitale C anticipato, si presenta in un primo momento come eccedenza del valore del prodotto sulla somma dei valori degli elementi della sua produzione.

Il capitale C si scinde in due parti, una somma di denaro (c) spesa per mezzi di produzione, e un’altra somma di denaro (v) spesa per forza-lavoro; (c) rappresenta la parte di valore trasformata in capitale costante, (v) quella trasformata in capitale variabile [Le formule seguenti vengono date secondo la trascrizione usata da Engels per l'edizione inglese, più vicina a noi all'uso contemporaneo, che non quella originale (usata anche nell'edizione Roy, e mantenuta nella nuova edizione di questa delle Éditions Sociales)].

Dunque all’inizio si ha

C = c + v,

per esempio il capitale anticipato di 6.000 € è eguale a

4.920 € (c) + 1.080 € (v) = 6.000 €.

Alla fine del processo di produzione risulta merce il cui valore è eguale a

(c + v) + p

dove (p) è il plusvalore,

per esempio (4.920 € (c) + 1.080 € (v)) + 1.080 € (p) = 7.080 €.

II capitale iniziale C si è trasformato in C’, da 6.000 € e ne sono venuti 7.080 €. La differenza fra i due è eguale a (p), un plusvalore di 1.080 €.

Poiché il valore degli elementi della produzione è eguale al valore del capitale anticipato, è in realtà una tautologia dire che l’eccedenza del valore del prodotto sul valore degli elementi della sua produzione è eguale alla valorizzazione del capitale anticipato ossia eguale al plusvalore prodotto.

Intanto, questa tautologia esige una definizione più esatta. Quel che vien comparato col valore del prodotto è il valore degli elementi di produzione consumati nella formazione del valore del prodotto stesso. Ma noi abbiamo veduto invece che la parte del capitale costante impiegato consistente di mezzi di lavoro cede al prodotto solo una porzione del suo valore mentre l’altra porzione continua a esistere nella vecchia forma. Qui dobbiamo astrarre da questa seconda porzione, perché essa non rappresenta nessuna parte nella formazione del valore: introdurla nel calcolo non cambierebbe niente.

Supponiamo che (c) = 4.920 € consista di materia prima per 3.744 €, di materie ausiliarie per 528 €, di macchine logorantisi nel processo per 648 €, ma che il valore delle macchine realmente adoperate ammonti a 12.648 €. Noi calcoliamo come anticipato per la generazione del valore del prodotto soltanto il valore di 648 €, perduto dalle macchine attraverso il loro funzionamento e quindi ceduto al prodotto. Se avessimo calcolato anche i 12.000 € che continuano a esistere nella loro vecchia forma come macchina a vapore, ecc., dovremmo calcolarle anche da tutte e due le parti, dalla parte del valore anticipato e dalla parte del valore del prodotto26a: così avremmo rispettivamente 18.000 € e 19.080 €. La differenza ossia il plusvalore sarebbe sempre di 1.080 €, come prima. Quindi per capitale costante anticipato per la produzione del valore intendiamo sempre e soltanto, quando dal nesso non risulti evidente il contrario, il valore dei mezzi di produzione consumati nella produzione.

Con questo presupposto torniamo alla formula C = c + v, che si trasforma in

C’ = (c + v) + p,

e che perciò trasforma C in C’.

Sappiamo che il valore del capitale costante non fa che ripresentarsi nel prodotto. Il prodotto in valore realmente creato ex novo nel processo è dunque differente dal valore del prodotto conservato nel processo; quindi non si ha, come appare a prima vista, (c + v) + p, ossia (4.920 € (c) + 1.080 € (v)) + 1.080 € (p), ma (p) + (v) ossia 1.080 € (v)) + 1.080 € (p), non 7.080 €, ma 2.160 €. Se (c), il capitale costante, fosse eguale a zero, se, in altre parole, ci fossero branche dell’industria nelle quali il capitalista non avesse da adoperare né mezzi di produzione prodotti, né materia prima, né materiali ausiliari, né strumenti di lavoro, ma soltanto materiali presenti in natura e forza-lavoro, allora non ci sarebbe da trasferire nel prodotto nessuna parte costante di valore. Questo elemento del valore del prodotto, nel nostro esempio i 4.920 €, cadrebbe; ma il prodotto di valore di 2.160 €, che contiene 1.080 € di plusvalore, rimarrebbe proprio della stessa grandezza che se (c) rappresentasse la massima somma di valore. Avremmo: C = (0 + v) = v, e C’, il capitale valorizzato, = v + p: essendo C’— C = p, come prima. Se viceversa si avesse p = 0, se, in altre parole, la forza-lavoro il cui valore viene anticipato in capitale variabile, avesse prodotto soltanto un equivalente, si avrebbe quindi: C = c + v, e poi: C’ (il valore del prodotto) = (c + v) + O, quindi: C = C’. II capitale anticipato non si sarebbe valorizzato.

Di fatto, già sappiamo che il plusvalore è semplicemente conseguenza del cambiamento di valore che avviene in v, nella parte di capitale convertita in forza-lavoro, che quindi si ha:

v + p = v + Δv (v più incremento di v).

Ma il reale cambiamento di valore e il rapporto secondo il quale il valore cambia, vengono oscurati per il fatto che in conseguenza della crescita della sua componente variabile, cresce anche il capitale complessivo anticipato. Era di 6.000 € e diventa di 7.080 €. Dunque la pura e semplice analisi del processo esige che si astragga completamente da quella parte del valore del prodotto nella quale non fa che riapparire valore costante del capitale, cioè esige che si ponga il capitale costante C come eguale a zero, applicando così una legge matematica per il caso di operazioni con grandezze costanti e variabili, quando la grandezza costante sia collegata alla variabile solo da addizione o sottrazione.

Un’altra difficoltà sorge dalla forma iniziale del capitale variabile. Così nell’esempio sopra riportato, si ha che C’ è eguale a 4.920 € di capitale costante più 1.080 € di capitale variabile, più 1.080 € di plusvalore. Ma 1.080 € sono una grandezza data, cioè costante, e quindi sembra spropositato trattarle come grandezza variabile. Ma qui 1.080 € (v), cioè 1.080 € di capitale variabile, sono in realtà soltanto un simbolo del processo percorso da questo valore. La parte di capitale anticipata nella compera della forza-lavoro è una quantità determinata di lavoro oggettivato, quindi una grandezza di valore costante, come il valore della forza-lavoro comperata.

Ma nel processo di produzione proprio ai 1.080 € anticipati subentra la forza-lavoro attuantesi, al lavoro morto subentra lavoro vivente, a una grandezza statica subentra una grandezza in movimento, al posto d’una costante subentra una variabile. Il risultato è: la riproduzione di (v), più incremento di (v). Dal punto di vista della produzione capitalistica tutto questo ciclo è automatismo del valore convertito in forza-lavoro, che era inizialmente costante. A suo credito si iscrive il processo e il risultato di esso. Se quindi la formulazione «1.080 € di capitale variabile, ossia, di valore che si valorizza» appare contraddittoria, fatto sta che essa non fa che riprodurre una delle contraddizioni immanenti alla produzione capitalistica.

A prima vista, l’equazione: capitale costante = zero, riesce sconcertante. Eppure, la si compie costantemente nella vita quotidiana. Se per esempio qualcuno vuol calcolare il guadagno dell’Inghilterra nell’industria cotoniera, per prima cosa sottrae il prezzo del cotone pagato agli Stati Uniti, all’India, all’Egitto, ecc.; cioè pone eguale a zero il valore di capitale che non fa che ripresentarsi nel valore di prodotto.

Certamente, il rapporto del plusvalore, non solo con la parte del capitale dalla quale sgorga direttamente e della quale rappresenta il cambiamento di valore, ma anche con il capitale complessivo anticipato, ha la sua grande importanza economica. Quindi tratteremo estesamente questo problema nel terzo libro. Per valorizzare una parte del capitale mediante la sua conversione in forza-lavoro, un’altra parte del capitale dev’essere trasformata in mezzi di lavoro. Affinchè il capitale variabile funzioni, dev’essere anticipato capitale costante, in proporzioni corrispondenti, a seconda del carattere tecnico determinato del processo lavorativo. Tuttavia la circostanza che per un processo chimico s’adoperino ritorte ed altri recipienti, non impedisce che nella analisi si faccia astrazione dalla ritorta stessa. In quanto la creazione di valore e il cambiamento di valore vengono considerati per se stessi, cioè, allo stato puro, i mezzi di produzione, figure materiali del capitale costante, forniscono solo il materiale per fissare la forza fluida che forma il valore. E quindi anche la natura di questo materiale è indifferente, cotone o ferro che sia. Anche il valore di questo materiale è indifferente. L’unica cosa che deve fare è d’esser a disposizione in una massa sufficiente per potere assorbire la quantità di lavoro da spendersi durante il processo di produzione. Data questa massa, il suo valore può salire o diminuire, oppure può essere senza valore, come il mare o la terra: il processo della creazione di valore e del cambiamento di valore non ne viene intaccato[27].

In primo luogo dunque poniamo che la parte di capitale costante sia eguale a zero. Dunque il capitale anticipato si ridurrà da (c + v) a (v), e il valore del prodotto (c + v) + p si ridurrà al prodotto del valore (v + p). Dato che il prodotto del valore sia eguale a 2.160 €, nel che è rappresentato il lavoro che scorre per tutta la durata del processo di produzione, dobbiamo detrarre il valore del capitale variabile, che è eguale a 1.080 €, per ottenere il plusvalore, 1.080 €. La cifra di 1.080 € , cioè (p), esprime qui la grandezza assoluta del plusvalore prodotto.

Ma la sua grandezza proporzionale, cioè il rapporto di valorizzazione del capitale variabile, è evidentemente determinato dal rapporto del plusvalore col capitale variabile, ossia è espresso dalla formula

p : v

Dunque, nell’esempio fatto sopra sarebbe: 1.080 : 1.080 = 100 %.

Chiamo saggio del plusvalore questa valorizzazione relativa del capitale variabile, cioè la grandezza relativa del plusvalore[28].

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza-lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, il refe, per esempio, cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della sua giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore di volta in volta a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta in media 6 ore lavorative oggettivate, l’operaio deve lavorare in media 6 ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza-lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa, nella quale produce il valore giornaliero della forza-lavoro, ossia 36 € dell’esempio, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza-lavoro, già pagato dal capitalista28a; e dunque col valore di nuova creazione non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione, e chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa[29]. Necessario per l’operaio, perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante dell’operaio.

All’operaio, il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, gli costa certo lavoro, dispendio di forza-lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazione dal nulla.

Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa, e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per conoscere il plusvalore è altrettanto decisivo intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro aggettivato. Solo la forma per spremere al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato[30].

Poiché il valore del capitale variabile è eguale al valore della forza-lavoro da esso acquistata, poiché il valore di questa forza-lavoro determina la parte necessaria della giornata lavorativa, e il plusvalore è determinato a sua volta dalla parte eccedente della giornata lavorativa, ne segue che il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto che il pluslavoro sta al lavoro necessario; cioè il saggio del plusvalore è:

p : v = pluslavoro : lavoro necessario

I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento.

Quindi, il saggio del plusvalore è l’espressione esatta del grado di sfruttamento della forza-lavoro da parte del capitale, cioè dell’operaio da parte del capitalista30a.

Secondo la nostra ipotesi il valore del prodotto era eguale a (4.920 € (c) + 1.080 €(v) + 1.080 €(p)), il capitale anticipato era eguale a 6.000 €. Poiché il plusvalore è eguale a 1.080 € e il capitale anticipato a 6.000 €, secondo il modo usuale di calcolare si avrebbe il saggio del plusvalore (che si suol confondere con il saggio del profitto) eguale al 18 %, percentuale così bassa che commuoverebbe certo il signor Carey e altri armonisti.

Di fatto però il saggio del plusvalore non è eguale a p : C cioè a

p = p : ( c + v )

ma a p : v

dunque non a 1.080 : 6.000 ma a 1.080 : 1.080 cioè al 100% più del quintuplo del grado apparente di sfruttamento. Ora, benché noi non conosciamo nel caso dato la grandezza assoluta della giornata lavorativa, e neppure la periodicità del processo lavorativo (giorno, settimana, ecc.) e infine neppure il numero degli operai messi in moto contemporaneamente dal capitale variabile di 900, tuttavia il saggio del plusvalore p : v, per la sua convertibilità in

pluslavoro : lavoro necessario

ci mostra con esattezza il rapporto reciproco delle due parti costitutive della giornata lavorativa: è il 100 %. Dunque l’operaio ha lavorato metà della giornata per sé e metà per il capitalista.

Quindi il metodo per calcolare il saggio del plusvalore è in breve il seguente: prendiamo il valore intero del prodotto e poniamo eguale a zero il valore costante del capitale, il quale non fa altro che ripresentarsi nel valore del prodotto. La residua somma di valore è l’unico prodotto in valore realmente generato nel processo di formazione della merce. Se il plusvalore è dato, lo sottraiamo da questo prodotto di valore per trovare il capitale variabile. Viceversa, quando è dato il capitale variabile, e noi cerchiamo il plusvalore. Quando siano dati l’uno e l’altro, c’è da compiere soltanto l’operazione conclusiva, cioè da calcolare il rapporto fra il plusvalore e il capitale variabile, p : v

Per quanto il metodo sia semplice, sembra tuttavia opportuno esercitare il lettore con alcuni esempi sul modo di concepire le cose che ne costituisce la base, e che non gli è abituale.

Facciamo in primo luogo l’esempio di una filanda da 10.000 fusi meccanici del tipo mule, che fila refe del n. 32 con cotone americano e produce 1 libbra di refe per settimana e per fuso. Il cascame è del 6%. Dunque vengono lavorate alla settimana 10.600 libbre di cotone, che danno 10.000 libbre di refe e 600 di cascame. Nell’aprile del 1871 questo cotone costa sette pence e tre quarti alla libbra, dunque, 342 sterline tonde per 10.600 libbre. I 10.000 fusi, incluse le macchine per la prima filatura e la motrice a vapore, costano una sterlina al fuso, cioè 10.000 sterline. Il loro logoramento ammonta al 10 % ; cioè a 1000 sterline, eguali a 20 sterline settimanali. L’affitto dell’edificio della filanda è di 300 sterline, cioè di sei sterline alla settimana. Di carbone (4 libbre all’ora e a cavallo vapore, per cento cavalli vapore (dati dall’indicatore) e per 60 ore alla settimana compreso il riscaldamento dell’edificio) se ne consumano 11 tonnellate alla settimana, che a 8 scellini e 6 pence la tonnellata costano 4 sterline e mezza alla settimana; il gas costa una sterlina alla settimana, l’olio 4 sterline e mezza alla settimana, dunque i materiali ausiliari costano 10 sterline alla settimana. Quindi la parte costante del valore di Lst. 378 alla settimana. Il salario degli operai ammonta a 52 sterline alla settimana. II prezzo del refe è di 12 pence e un quarto alla libbra; cioè 10.000 libbre danno 510 sterline; il plusvalore è 510 – 430 = 80 sterline. Poniamo la parte costante del valore di Lst. 378 eguale a zero, perché non contribuisce alla formazione settimanale del valore. Rimane il prodotto di valore settimanale di 132 sterline = 52 sterline (v) + 80 sterline (p). II saggio del plusvalore è quindi di 80 : 52  = 153 e 11/13 per cento. Data una giornata lavorativa media di dieci ore il risultato di tutto ciò è: lavoro necessario eguale a tre ore e 31/33, pluslavoro eguale a sei ore e 2/33[31].

Per il 1815 il Jacob dà il seguente calcolo, molto difettoso per la previa compensazione di molte voci, ma sufficiente per il nostro scopo; si suppone che il prezzo del grano sia di 80 scellini al quarter, e che il rendimento medio sia di 22 bushels all’acro, cosicché l’acro rende 11 sterline.

Produzione di valore per acro

Sementi grano:

Lst. 1, scell. 9

Decime, fitti, tasse:

Lst. 1, scell. 1

Concime:

Lst. 2, scell. 10

Rendita:

Lst. 1, scell. 8

Salario:

Lst. 3, scell. 10

Profitto del fittavolo e interesse:

Lst. 1, scell. 2

Totale

Lst. 7, scell. 9

Totale

Lst. 3, scell. 11

II plusvalore, sempre supponendo che il prezzo del prodotto sia eguale al suo valore, viene qui distribuito fra le differenti rubriche, profitto, interesse, decime, ecc. Per noi queste rubriche sono indifferenti. Le addizioniamo e otteniamo un plusvalore di 3 sterline e 11 scellini. Poniamo eguali a zero, come parte costante del capitale le 3 sterline e i 19 scellini di sementi e di concime. Rimane un capitale variabile anticipato di 3 sterline e 10 scellini, al posto del quale è stato prodotto un neovalore di 3 sterline e 10 scellini più 3 sterline e 11 scellini.

Dunque p : v  ammonta a una somma eguale a Lst 3, scell 11 / L.st.3, scell 10, più del cento per cento.

Il lavoratore adopera più della metà della sua giornata lavorativa per la produzione d’un plusvalore che varie persone si distribuiscono fra loro con differenti pretesti31a.

2. RAPPRESENTAZIONE DEL VALORE DEL PRODOTTO IN PARTI PROPORZIONALI DEL PRODOTTO.

Ritorniamo ora all’esempio che ci ha mostrato come il capitalista faccia del denaro capitale. Il lavoro necessario del suo filatore ammontava a 6 ore, altrettanto il pluslavoro, quindi il grado di sfruttamento della forza-lavoro era del cento per cento.

Il prodotto della giornata lavorativa di dodici ore sono 20 qli di refe del valore di 360 €, ossia un prodotto unitario di

360€ : 20qli = 18 €/qle di refe

Il valore complessivo dei 20 qli di refe prodotti è composto come segue:

288(c) +36(v) + 36(p) = 360 €

Non meno di 8/10 (288 €) di questo valore di refe sono costituiti dal valore dei mezzi di produzione logorati, valore il quale non fa altro che tornare a ripresentarsi in

20 qli di cotone  = 240 € e fusi, ecc. = a 48 € ,cioè consistono di capitale costante (c).

I restanti 2/10 sono il neovalore di 72 € di cui una metà, ossia 36 € reintegra il valore giornaliero anticipato della forza lavoro, cioè il capitale variabile (v) e l’altra metà costituisce un plusvalore (p) di 36 €. Il valore complessivo dei 20 qli di refe è dunque composto come segue:

Capitale costante, capitale variabile e pluslavoro espressi come quote parti del valore del refe prodotto

 

 

Poiché questo valore complessivo è rappresentato nel prodotto complessivo di 20 qli di refe, anche i differenti elementi di valore debbono essere rappresentabili in parti proporzionali del prodotto.

Se in 20 qli di refe esiste un valore di refe di 360 €, la sua parte costante (c) di 288 € è rappresentata in 8/10 di tale valore (288 : 360 ) e tale valore esisterà in

288 : 18 = 16 qli di refe ossia in 8/10 del prodotto (20 qli)

Di questi 16 qli di refe, il valore della materia prima, ossia del cotone filato, pari a 240 € è rappresentato in

240 : 18 = 13 qli e 1/3 di refe,

ed i 48 € costituenti il valore dei materiali ausiliari e dei mezzi di lavoro logorati sono rappresentati in

48 : 18 = 2 qli e 2/3 di refe

Materie prime e mezzi ausiliari espressi in quantità di refe prodotto

 

 

Dunque 13 qli e 1/3 di cotone rappresentano tutto il cotone filato nel prodotto complessivo di 20 qli di refe, la materia prima del prodotto complessivo; ma nient’altro.

Certo, esse contengono soltanto 13 qli e 1/3 di cotone per il valore di

(240 : 20) ∙ 13 e 1/3 = 156 € e 1/3

ma il cotone filato negli altri (20 – 13 e 1/3) = 6 qli e 2/3 di refe costituisce un equivalente addizionale di

(240 : 20 ) ∙ 6 e 2/3 = 72 e 2/3 € 

L’effetto è come se a questo ultimo refe fosse stato tolto tutto il cotone e tutto il cotone del prodotto complessivo fosse compresso in 13 qli e 1/3 di refe. Ma i 13 qli e 1/3 a loro volta non contengono neppure un atomo del valore dei materiali ausiliari e dei mezzi di lavoro consumati, né del neovalore creato nel processo di filatura.

Allo stesso modo, altri 2 qli e 2/3 di refe, che racchiudono il resto del capitale costante (ossia 48 €), non rappresentano altro che il valore dei materiali ausiliari e dei mezzi di lavoro consumati nel prodotto complessivo di 20 qli di refe.

Quindi 8/10 del prodotto, cioè 16 qli di refe, benché, se considerati corporeamente, come valore d’uso, come refe, siano formazioni del lavoro di filatura altrettanto delle restanti parti del prodotto, considerati invece in questo nesso non contengono nessun lavoro di filatura, non contengono nessun lavoro assorbito durante il processo di filatura vero e proprio.

È come se si fossero trasformati in refe senza filatura, e come se la loro figura di refe fosse pura menzogna e inganno. Di fatto, quando il capitalista li vende a 288 €, ricomprando così i suoi mezzi di produzione, si vede che 16 qli di cotone sono soltanto cotone, fusi, carbone, ecc., travestiti.

Viceversa, adesso i rimanenti 2/10 del prodotto, ossia 4 qli di refe, non rappresentano nulla all’infuori del neovalore di 72 € prodotto nel processo di filatura di 12 ore.

Quanto in essi era contenuto delle materie prime e dei mezzi di produzione utilizzati, era già stato estratto e incorporato ai primi 16 qli di refe. Il lavoro di filatura incarnato nei 20 qli di refe è concentrato nei 2/10 del prodotto. È come se il filatore avesse filato con l’aria 4 qli di refe, ossia come se le avesse filate con cotone e con fusi sorti senza contributo di lavoro umano, presenti in natura, e che non aggiungono nessun valore al prodotto.

Dei 4 qli di refe nei quali ha dunque esistenza l’intero prodotto di valore del processo di filatura giornaliero, una metà rappresenta soltanto la reintegrazione della forza-lavoro utilizzata, cioè il capitale variabile di 36 €; gli altri 2 qli di refe rappresentano soltanto il plusvalore di 36 €.

Poiché 12 ore lavorative del filatore si oggettivano in 72 €, nel valore di refe di 360 € sono oggettivate (360 : 72) ∙ 12 = 60 ore lavorative. Esse hanno esistenza in 20 qli di refe delle quali 8/10, cioè 16 qli, sono la materializzazione di (16 : 20) ∙ 60 = 48 ore lavorative trascorse precedentemente al processo di filatura, cioè la materializzazione del lavoro oggettivato nei mezzi di produzione del refe, e 2/10, cioè 4 qli, sono invece la materializzazione delle 12 ore lavorative spese nel processo di filatura stesso.

Abbiamo visto sopra che il valore del refe è eguale alla somma del neovalore generato durante la sua produzione, e dei valori già preesistenti nei suoi mezzi di produzione. Ora s’è visto come le componenti del valore del prodotto, differenti funzionalmente ossia concettualmente, si possono rappresentare in parti proporzionali del prodotto stesso.

Questa scomposizione del prodotto - del risultato del processo di produzione - in una quantità di prodotto che rappresenta soltanto il lavoro contenuto nei mezzi di produzione ossia la parte costante del capitale; in un’altra quantità che rappresenta solo il lavoro necessario aggiunto nel processo di produzione ossia la parte variabile del capitale; e in un’ultima quantità di prodotto che rappresenta il pluslavoro aggiunto nello stesso processo, ossia il plusvalore: questa scomposizione è altrettanto semplice che importante, come mostrerà la sua ulteriore applicazione a problemi complicati e ancora insoluti.

Abbiamo considerato or ora il prodotto complessivo come risultato finito della giornata lavorativa di 12 ore. Ma lo possiamo anche accompagnare nel processo del suo sorgere, continuando tuttavia a presentare i prodotti parziali come parti di prodotto funzionalmente differenti.

II filatore produce in 12 ore 20 qli di refe, e quindi in 1 ora ne produce (20 : 12) =  1 qle e 2/3; in 8 ore (20 :12) ∙ 8 = 13 qli e 1/3, quindi un prodotto parziale del valore complessivo del cotone filato durante tutta la giornata lavorativa. Allo stesso modo, il prodotto parziale dell’ora e trentasei minuti seguenti è eguale a (20 : 12) ∙ [(60+36) : 60] = 2 qli e 2/3 di refe, quindi rappresenta il valore dei mezzi di lavoro consumati durante le 12 ore lavorative. Così pure il filatore nell’ora e dodici minuti che seguono produce (20 :12) ∙ [(60 + 12) : 60] = 2 qli di refe eguali a 36 €, valore di prodotto eguale all’intero prodotto di valore che egli crea in 6 ore di lavoro necessario. Infine negli ultimi 6/5 d’ora [ossia (6 : 5) ∙ 60 =  72 minuti, pari a un ora e dodici minuti] egli produce ancora 2 qli di refe il cui valore è eguale al plusvalore generato col suo pluslavoro di mezza giornata. Questo tipo di calcolo serve al fabbricante inglese per uso domestico, ed egli ci dirà per esempio che nelle prime 8 ore, ossia dei 2/3 della giornata lavorativa, si rifà del suo cotone, ecc. È evidente che la formula è giusta; di fatto non è altro che la prima formula, trasferita dallo spazio nel quale le parti finite del prodotto sono giustapposte, al tempo, nel quale si succedono. Ma questa formula può essere accompagnata anche da idee molto barbariche, specie in cervelli altrettanto interessati, praticamente, al processo di valorizzazione, quanto pieni di interesse a fraintenderlo teoricamente. Così ci si può immaginare che il nostro filatore per esempio nelle prime 8 ore della sua giornata lavorativa produca ossia reintegri il valore del cotone, nell’ora e trentasei minuti seguenti produca o reintegri il valore dei mezzi di lavoro logorati, nell’ora e dodici minuti seguenti produca o reintegri il valore del salario, e dedichi al padrone della fabbrica, alla produzione del plusvalore, soltanto la celeberrima «ultima ora». Sulle spalle del filatore si carica così il doppio miracolo di produrre cotone, fusi, macchine a vapore, carbone, olio, ecc. nello stesso istante nel quale fila con essi, e di quintuplicare una giornata lavorativa di grado dato d’intensità. Infatti nel nostro caso la produzione della materia prima e dei mezzi di lavoro richiede 24 : 6 = 4, quattro giornate lavorative di 12 ore, e la loro trasformazione in refe, un’altra giornata lavorativa di 12 ore. Che la rapacità creda a tali miracoli e che non le manchino mai i sicofanti dottrinari che li dimostrino, ce lo mostrerà un solo esempio, celebre nella storia.

3. «L’ULTIMA ORA» DEL SENIOR.

Una bella mattina dell’anno 1836 Nassau W. Senior,famoso per la sua scienza economica e per il suo bello stile, una specie di Clauren fra gli economisti inglesi, fu citato da Oxford a Manchester, per imparar quivi l’economia politica, invece di insegnarla a Oxford. I fabbricanti l’avevano prescelto come loro campione contro il Factory act di recente emanato e contro l’agitazione per le dieci ore che andava anche oltre. Con l’abituale acume pratico, avevano riconosciuto che il signor professore «wanted a good deal of finishing» (Aveva bisogno di una buona rifinitura). Quindi gli prescrissero una visita a Manchester. Da parte sua il professore ha stilato la lezione ricevuta a Manchester dai fabbricanti nell’opuscolo: Letters on the Factory Act, as it affects the cotton manufacture, Londra, 1837. Quivi si possono leggere fra l’altro le edificanti parole che seguono: «Secondo la legge attuale nessuna fabbrica che impieghi persone al di sotto dei diciotto anni d’età, può lavorare più a lungo di undici ore e mezza giornaliere, cioè dodici ore duranti i primi cinque giorni e nove il sabato. L’analisi (!) che segue ci mostra però che in una fabbrica del genere tutto il guadagno netto deriva dall’ultima ora. Un fabbricante spende 100.000 sterline - 80.000 nell’edificio della fabbrica e in macchine, 20.000 in materie prime e salario. Il rendimento annuo della fabbrica, supponendo che il capitale compia un ciclo all’anno e il guadagno lordo ammonti al 15 %, deve ammontare a merci per il valore di 115.000 sterline... Di queste 115.000 sterline, ognuna delle ventitré mezz’ore lavorative ne produce giornalmente 5/115, cioè 1/23. Di quei 23/23che costituiscono l’insieme delle 115.000 sterline (constituting the whole Lst. 115.000), 20/23, cioè 100.000 sulle 115.000, reintegrano soltanto il capitale; 1/23, ossia 5.000 sterline sulle 15.000 di guadagno lordo (!) reintegrano il logoramento della fabbrica e delle macchine. I residui 2/23, cioè le due ultime mezz’ore di ogni giornata, producono il guadagno netto, del dieci per cento. Se quindi, fermi restando i prezzi, la fabbrica potesse lavorare tredici ore invece di undici e mezza, con una aggiunta di circa 2.608 sterline al capitale circolante, il guadagno netto verrebbe più che raddoppiato. D’altra parte, se le ore lavorative venissero ridotte di un’ora al giorno, il guadagno netto scomparirebbe, e se venissero ridotte d’una ora e mezza, scomparirebbe anche il guadagno lordo»[32].

E il signor professore chiama ciò una «analisi»! Se egli credeva alle lamentazioni del fabbricante, che gli operai sperperano il tempo migliore della giornata nella produzione cioè riproduzione o reintegrazione del valore di edifici, macchine, cotone, carbone, ecc., ogni analisi era superflua. Aveva solo da rispondere: «Egregi signori! Se voi fate lavorare per dieci ore invece che per undici e mezzo, ferme rimanenti le altre circostanze, il consumo giornaliero di cotone, macchine, ecc. diminuirà di un’ora e mezza. Quindi voi guadagnate altrettanto quanto perdete. I vostri operai sprecheranno in futuro un’ora e mezza di meno per la riproduzione ossia reintegrazione del valore del capitale anticipato». Se non credeva loro sulla parola, ma, nella sua qualità di competente, riteneva necessaria un’analisi, egli doveva anzitutto invitare i signori fabbricanti a non rimescolare disordinatamente, in una questione che verte esclusivamente sul rapporto fra guadagno netto e grandezza della giornata lavorativa, macchine e edificio della fabbrica, materie prime e lavoro, ma a volersi compiacere invece di mettere da una parte il capitale costante contenuto nell’edificio, nelle macchine, nelle materie prime, ecc., e dall’altra il capitale anticipato nel salario. Se poi risultava ad esempio che secondo il calcolo del fabbricante l’operaio riproduce ossia reintegra il salario in 2/2 ore di lavoro, cioè in un’ora, l’analista doveva continuare:

Secondo la vostra dichiarazione l’operaio produce nella penultima ora il suo salario, e nell’ultima il vostro plusvalore, ossia il guadagno netto. Poiché egli produce valori eguali in periodi eguali, il prodotto della penultima ora ha lo stesso valore di quello dell’ultima. Inoltre l’operaio produce valore solo in quanto spende lavoro, e la quantità del suo lavoro è misurata per mezzo del suo tempo di lavoro. Secondo la vostra dichiarazione, quest’ultimo ammonta a undici ore e mezza giornaliere. L’operaio consuma una parte di queste undici ore e mezza per produrre ossia reintegrare il suo salario; l’altra parte, per la produzione del vostro guadagno netto. Durante la giornata lavorativa egli non fa nient’altro. Ma poiché, a norma della dichiarazione, il suo salario e il plusvalore da lui fornito sono valori di eguale grandezza, è evidente che egli produce il proprio salario in cinque ore e tre quarti; e il vostro guadagno netto in altre cinque ore e tre quarti. Poiché inoltre il valore del prodotto refe di due ore è eguale alla somma del valore del suo salario e del valore del vostro guadagno netto, la misura di questo valore in refe dev’essere di undici ore lavorative e mezza. Quella del prodotto dalla penultima ora dev’essere di cinque ore lavorative e tre quarti, e così quella della ultima ora. Ora siamo arrivati a un punto scabroso. Dunque, attenzione! La penultima ora lavorativa è una comune ora lavorativa, come la prima. Ni plus ni moins. Come può dunque il filatore produrre in una sola ora lavorativa un valore in refe che rappresenta cinque ore lavorative e tre quarti? In realtà l’operaio non compie nessun miracolo del genere. Quel tanto di valore d’uso che egli produce in una ora lavorativa, è una quantità determinata di refe. Il valore di questo refe è della misura di cinque ore lavorative e tre quarti, delle quali quattro e tre quarti stanno, senza che l’operaio vi abbia a che fare, nei mezzi di produzione consumati ora per ora, nel cotone, nelle macchine, ecc., mentre quattro quarti d’ora, cioè un’ora, sono aggiunti dall’operaio. Dunque, poiché il suo salario è prodotto in cinque ore lavorative e tre quarti, e il prodotto in refe d’un’ora di filatura contiene anch’esso cinque ore lavorative e tre quarti, non è affatto per stregoneria che il prodotto in valore delle cinque ore e tre quarti di filatura dell’operaio è eguale al valore del prodotto d’una ora di filatura. Ma voi prendete proprio la strada sbagliata quando pensate che l’operaio perda anche un solo atomo di tempo della sua giornata lavorativa nella riproduzione o nella «reintegrazione» dei valori del cotone, delle macchine, ecc. Il valore del cotone e dei fusi trapassa di per se stesso nel refe per il semplice fatto che il lavoro dell’operaio fa refe del cotone e dei fusi, per il fatto che egli fila: quel trapasso è dovuto alla qualità del suo lavoro, e non alla quantità. Certo, in un’ora, l’operaio trasferirà nel refe più valore di cotone, ecc. che in una mezz’ora, ma soltanto perché in un’ora egli fila più cotone che in mezz’ora. Dunque, capirete: il vostro modo di dire, che l’operaio produce nella penultima ora il valore del suo salario e nell’ultimo il guadagno netto, non significa nient’altro se non che nel prodotto in refe di due ore della sua giornata lavorativa, che stiano davanti o che stiano di dietro, sono incorporate undici ore lavorative e mezza, proprio quante ne conta la sua intera giornata lavorativa. E il modo di dire che egli produce nelle prime cinque ore e tre quarti il suo salario e nelle ultime cinque ore e tre quarti il vostro guadagno netto non significa null’altro se non che voi pagate le prime cinque ore e tre quarti e non pagate le ultime cinque ore e tre quarti. Parlo di pagamento del lavoro invece che di pagamento della forza-lavoro, per parlare il vostro gergo. Ma se ora, egregi signori, confrontate il rapporto fra il tempo-lavoro che pagate e il tempo-lavoro che non pagate, troverete che è un rapporto fra mezza giornata e mezza giornata, cioè un rapporto del cento per cento, il che è certamente una graziosa percentuale. E non c’è neppure il minimo dubbio che quando voi fate sgobbare le vostre « braccia » per tredici invece di undici ore e mezza, e segnate l’ora e mezza eccedente sul conto del semplice pluslavoro - e non c’era altro da aspettarsi da voi -, questo aumenterà da cinque ore e tre quarti a sette e un quarto, e quindi il saggio del plusvalore crescerà dal cento per cento al 126 e 2/23 %. Invece siete di un ottimismo troppo stravagante se sperate che il saggio del plusvalore possa salire dal cento al duecento, e addirittura a più del duecento per cento, cioè «più che raddoppiarsi», con l’aggiunta di un’ora e mezza. D’altra parte - strana cosa è il cuore dell’uomo, specialmente se l’uomo tiene il suo cuore nella borsa - siete pessimisti troppo insensati, se temete che tutto il vostro guadagno netto se ne vada in fumo con la riduzione della giornata lavorativa da undici ore e mezza a dieci ore e mezza. Ma nient’affatto! Ferme supponendo tutte le altre circostanze, il pluslavoro scenderà da cinque ore e tre quarti a quattro ore e tre quarti, il che da ancora un saggio del plusvalore piuttosto considerevole, cioè l’82 e 14/23 %. Ma la fatale «ultima ora» sulla quale voi avete favoleggiato più dei chiliasti sulla fine del mondo è «all bosh» ( nient’altro che chiacchiere.). La sua perdita non costerà a voi il «guadagno netto», e non costerà ai bambini d’ambo i sessi che voi consumate col lavoro la «purezza dell’anima»32a.

Quando verrà il momento che suonerà davvero la vostra «ultima ora», pensate al professore di Oxford. Ed ora: in un mondo migliore mi auguro di poter godere di più la vostra degna conversazione. Addio...[33]. Il 15 aprile 1848, in polemica contro la legge delle dieci ore, James Wilson, uno dei principali mandarini degli studi economici, ha strombettato di nuovo sul London Economist il segnale di battaglia della «ultima ora » scoperta dal Senior  nel 1836.

4. IL PLUSPRODOTTO.

Chiamiamo plusprodotto (surplus produce, produit net) la parte del prodotto (un decimo dei 20 qli di refe, cioè 2 qli di refe nell’esempio del paragrafo 2) che rappresenta il plusvalore. Come il saggio del plusvalore viene determinato non dal suo rapporto alla somma complessiva, ma alla parte costitutiva variabile del capitale, così il livello del plusprodotto è determinato dal suo rapporto non al resto del prodotto complessivo, ma alla parte del prodotto nella quale è rappresentato il lavoro necessario. Come la produzione di plusvalore è lo scopo determinante della produzione capitalistica, così non è la grandezza assoluta del prodotto, ma la grandezza relativa del plusprodotto a dare la misura del grado della ricchezza[34].

La somma del lavoro necessario e del pluslavoro, dei periodi di tempo nei quali l’operaio produce il valore che reintegra la sua forza-lavoro e il plusvalore, costituisce la grandezza assoluta del suo tempo di lavoro: la giornata lavorativa (working day).

NOTE


26a «Se computiamo come parte degli anticipi il valore del capitale fisso impiegato, dobbiamo computare il valore di tale capitale che rimane alla fine dell'anno come parte dell'entrata annua » (MALTHUS, Principles of political economy, 2. ed., Londra, 1836, p. 269).

[27] Nota alla seconda edizione. E’ evidente che « nihil creari posse de nihilo », come dice Lucrezio [LUCREZIO, De rerum natura. I, 149, 205; IIi, 287]. Dal nulla non vien nulla. «Creazione di valore» è conversione di forza-lavoro in lavoro. Da parte sua, la forza-lavoro è soprattutto materiale naturale convertito in organismo umano.

[28] Nello stesso senso degli inglesi quando usano rate of profit, rate of interest, ecc. Dal terzo libro si vedrà che il saggio del profitto è facile da capire, quando si conoscono le leggi del plusvalore. Facendo la strada all’inverso non si capisce ni l’un ni l’autre.

28a Nota alla terza edizione. L’autore usa qui il linguaggio corrente fra gli economisti. Il lettore ricorderà che a p. 191 è stato dimostrato come in realtà non sia il capitalista ad a anticipar » denaro all’operaio, ma l’operaio al capitalista. F. E.

[29] In quest’opera abbiamo finora adoperato il termine « lavoro necessario » per indicare il tempo di lavoro necessario socialmente alla produzione d’una merce in genere. D’ora in poi lo usiamo anche per il tempo di lavoro necessario alla produzione della merce specifica: forza-lavoro. L’uso degli stessi termini tecnici in senso diverso provoca inconvenienti, ma non si può evitare completamente in nessuna scienza. Si pensi per esempio alle matematiche superiori e a quelle inferiori.

[30] Il signor Guglielmo Tucidide Roscher scopre, con una genialità veramente degna di Gottsched, che al giorno d’oggi la formazione di plusvalore o plusprodotto con l’accumulazione a ciò connessa è dovuta alla « parsimonia » del capitalista, il quale « esige in cambio, per esempio, un interesse », mentre « nei gradi più bassi della civiltà... i più deboli sono stati costretti alla parsimonia dai più forti » (Die Grundlagen cit., p. 78). A risparmiare lavoo? O a risparmiare prodotti superflui non esistenti? Quel che costringe un Roscher e i suoi consorti a storcere le ragioni più o meno plausibili di giustificazione del capitalista per la sua appropriazione di plusvalori esistenti, per farle diventare ragioni del sorgere del plusvalore è, oltre una reale ignoranza, il timore apologetico di una analisi coscienziosa del valore e del plusvalore, e di un risultato forse reprensibile e non grato in alto loco.

30a Nota alla seconda edizione. Il saggio del plusvalore, sebbene espressione esatta del grado di sfruttamento della forza-lavoro, non è l’espressione della entità assoluta dello sfruttamento. Per esempio se il lavoro necessario è eguale a cinque ore e il pluslavoro è eguale a cinque ore, il grado di sfruttamento è del cento per cento. Qui l’entità dello sfruttamento è misurata da cinque ore. Se invece il lavoro necessario è eguale a sei ore e il pluslavoro a sei ore, il grado di sfruttamento del cento per cento rimane immutato, mentre l’entità dello sfruttamento cresce del venti per cento, da  cinque a sei ore.

[31] Nota alla seconda edizione. L’esempio dato nella prima edizione, di una filanda per il 1860, conteneva alcuni errori di fatto. I dati offerti nel testo, precisi ed esatti, mi sono stati forniti da un fabbricante di Manchester. Va notato che in Inghilterra il vecchio cavallo-vapore era calcolato sul diametro del cilindro, mentre quello nuovo si conta secondo la forza reale, segnata dall’indicatore.

31a Questi calcoli valgono solo come illustrazione. Si è infatti supposto che i prezzi siano eguali ai valori. Nel terzo libro vedremo che questa identificazione non si può fare così semplicemente neppure per i prezzi medi.

[32] Senior, ivi, pp. 12, 13. Non ci soffermiamo sulle curiosità indifferenti al nostro scopo, come per esempio l’affermazione che i fabbricanti calcolino la sostituzione delle macchine logorate, ecc., cioè di una componente del capitale, al capitolo   guadagno, «lordo » o « netto », sporco o pulito che sia. Né ci soffermiamo sull’esattezza o erroneità dei dati numerici. LEONHARD HORNER provò in A letter to Mr. Senior ecc., Londra, 1837, che essi non valgono più della cosiddetta « analisi ». Leonhard Horner fu uno dei Factory inquiry commissioners del 1833, e fino al 1859 ispettore delle fabbriche, di fatto censore delle fabbriche; egli si è fatto meriti immortali presso la classe operaia inglese. Per tutta la vita ha lottato non solo coi fabbricanti esasperati, ma anche coi ministri per i quali era incommensurabilmente più importante contare i voti dei padroni di fabbriche alla Camera bassa, che le ore lavorative delle « braccia » nella fabbrica.

Aggiunta alla nota 32. L’esposizione del Senior è confusa, astrazion fatta dal suo contenuto. Propriamente, quel che voleva dire, è questo: II fabbricante occupa l’operaio per ore 11 1/2 ossia 23/2 ore giornaliere. Come la singola giornata lavorativa, così il lavoro annuale consiste di 11 1/2 ossia 23/2 ore (moltiplicate per il numero delle giornate lavorative di un anno). Ciò presupposto, le 23/2 ore lavorative producono il prodotto annuo di Lst. 115.000; 1/2 ora lavorativa produce Lst. 1/23x115.000; 20/2 ore lavorative producono Lst. 20/23 xll5.000=Lst. cioè sostituiscono soltanto il capitale anticipato. Rimangono 3/2 ore lavorative, che producono Lst. 3/23x115.000=15.000, cioè il guadagno lordo. Di queste 3/2 ore lavorative, 1/2 ora lavorativa produce Lst. 1/23x115.000=5.000, cioè essa produce soltanto il ricambio per il logoramento della fabbrica e delle macchine. Le ultime due mezz’ore lavorative, cioè l’ultima ora lavorativa, produce Lst. 2/23xll5.000=Lst. 10.000, cioè il profitto netto. Nel testo il Senior trasforma gli ultimi 2/23 del prodotto in parti della giornata lavorativa stessa.

32a. Se il Senior ha dimostrato che dall’« ultima ora lavorativa » dipendono il guadagno netto del fabbricante, l’esistenza della industria cotoniera inglese e la grandezza dell’Inghilterra sul mercato mondiale, in cambio il Dr. Andrew Ure ha aggiunto un’altra dimostrazione, che i bambini delle fabbriche e gli adolescenti al di sotto dei 18 anni quando non vengono tenuti chiusi nella calda e pura atmosfera morale delle fabbriche per dodici ore intere, ma vengono scacciati « un’ora » prima nel mondo esterno, freddo di sentimenti e frivolo, perdono la salute dell’anima per gli inganni dell’ozio e dei vizi. Nei loro reports semestrali, gli ispettori delle fabbriche non si stancano mai, dal 1848 in poi, di stuzzicare i fabbricanti con        l’« ultima ora », l’« ora fatale ». Il sig. Howell nella sua relazione sulle fabbriche del 31 maggio 1855 dice così: « Se il seguente ingegnoso calcolo (egli cita il Senior) fosse corretto, ogni cotonificio del Regno Unito avrebbe lavorato in perdita dal 1850 in poi » (Reports of the insp. of fact. for the half year ending 30th Apr. 1855, pp. 19, 20). Quando nel 1848 fu approvato al parlamento il bill delle dieci ore, i fabbricanti graziosamente imposero ad alcuni lavoratori normali delle filande di lino disseminate nelle campagne fra le contee di Dorset e di Somerset, una contropetizione, dove fra l’altro è detto: « I vostri supplicanti, che sono genitori, credono che un’ora supplementare di riposo non possa avere nessun altro effetto che la demoralizzazione dei loro figlioli, poiché l’ozio è il padre dei vizi ». Qui il rapporto sulle fabbriche del 31 ottobre 1848 commenta: « L’atmosfera delle filande di lino dove lavorano i figli di questi genitori cosi teneri e virtuosi, è greve di tante particole di polvere e di filamenti della materia prima, che è eccezionalmente spiacevole passare anche solo dieci minuti nelle camere dei filatoi, perché non ci si riesce senza sensazioni penosissime, riempiendovisi subito senza scampo occhi, orecchi, narici e bocca di nuvole di polvere di lino. Per via della fretta febbrile delle macchine, il lavoro esige a sua volta applicazione incessante di abilità e di movimento sotto il controllo di un’attenzione instancabile, e sembra un po’ duro far sì che dei genitori applichino l’espressione “ ozio “ ai propri figli che, detratto il periodo del pasto, sono incatenati per 10 ore intere a tale occupazione, in tale atmosfera… Questi bambini lavorano più a lungo dei servi agricoli dei villaggi vicini... tali chiacchiere crudeli sull’” ozio e i vizi “ debbono essere bollate a fuoco come cant della più bell’acqua e come la più svergognata ipocrisia... Quella parte del pubblico che circa dodici anni or sono fu scossa dalla arroganza con la quale si proclamava pubblicamente e con tutta serietà, con la sanzione d’alte autorità, che tutto il “ guadagno netto “ del fabbricante deriva dalla “ ultima ora “ di lavoro e che quindi la riduzione d’un’ora della giornata lavorativa distrugge il guadagno netto; questa parte del pubblico, diciamo, crederà appena ai suoi occhi trovando ora che la scoperta originale delle virtù dell’” ultima ora” è stata migliorata da allora in poi, tanto da includervi in eguale proporzione “ morale “ e “ profitto “, cosicché se la durata del lavoro dei fanciulli viene ridotta a dieci ore intere, scompare la morale dei bambini insieme al guadagno netto di coloro che li impiegano, poiché l’una e l’altro dipendono da quell’ultima, da quella fatale ora » (Reports of the insp. of fact. for 31st Oct. 1848, p. 101). Lo stesso rapporto sulle fabbriche da poi esempi della « morale » e delle « virtù » di quei signori fabbricanti, dei sotterfugi, dei trucchi, degli allettamenti, delle minacce, delle falsificazioni, ecc. da loro usate per far sottoscrivere petizioni di quel genere da pochi operai del tutto andati in malora, per poi darla a bere al parlamento presentandole come petizioni di tutta una branca dell’industria, di intere contee. Rimane estremamente caratteristico per lo stato odierno della cosiddetta « scienza » economica che né il Senior stesso il quale, sia detto a suo onore, sostenne energicamente più tardi la legislazione sulle fabbriche, e neppure i suoi antagonisti iniziali e posteriori, siano riusciti a risolvere i sofismi della « scoperta originale ». Si appellavano alla esperienza dei fatti. Il why e il wherefore [perché e percome] sono rimasti un arcano.

[33] Però il signor professore aveva pur tratto qualche profitto dalla sua gita a Manchester! Nelle Letters on the Factory act tutto il «guadagno netto », « profitto » e «interessi » e addirittura something more [qualcosa di più] dipendono da un’ora lavorativa dell’operaio non pagata! Un anno prima delle sue Outlines of political economy scritte per il maggior bene comune degli studenti di Oxford e dei colti filistei, aveva ancora « scoperto », contro il Ricardo che determina il valore mediante il tempo di lavoro, che il profitto discende dal lavoro del capitalista e l’interesse dal suo ascetismo, dalla sua        « astinenza ». La fandonia stessa era vecchia, ma nuova la parola « astinenza ». Il signor Roscher la tedeschizza esattamente con Enthaltung. I suoi compatrioti meno ferrati in latino, i Wirth, gli Schuize, e gli altri valent’uomini l’han monacata e l’han chiamata Entsagung [rinuncia].

[34] «Per un individuo con un capitale di ventimila sterline i cui profitti ammontano a duemila sterline annue, sarebbe cosa del tutto indifferente che il suo capitale impiegasse cento o mille lavoratori, che le merci prodotte si vendessero a diecimila o a ventimila sterline, sempre presupponendo che i suoi profìtti non scendano in nessun caso al di sotto delle duemila sterline. L’interesse reale di una nazione non è identico? Presupponendo che le sue entrate nette reali, le sue rendite e i suoi profitti rimangano identici, non ha la minima importanza che una nazione consista di dieci o dodici milioni di abitanti » (RICARDO, Principles cit., p. 416). Molto tempo prima del Ricardo, Arthur Young, il fanatico del plusprodotto, che del resto è uno scrittore senza spirito critico e prolisso, la cui fama è in rapporto inverso al merito, aveva scritto fra l’altro : « Di che utilità sarebbe in un regno moderno una intera provincia il cui terreno fosse suddiviso all’antica maniera romana e coltivato, sia pare nel modo migliore possibile, da piccoli contadini indipendenti? Che scopo avrebbe, fuor che quello, unico, di generare uomini (the mere purpose of breeding men), cosa che in sé e per sé non ha nessuno scopo? (is a must useless pwpose) ». ARTHUR YOUNG, Political arithmetic ecc., Londra 1774, p. 47.

Aggiunta alla nota 34. Strana è la « forte inclinazione a rappresentare la ricchezza eccedente (net wealth) come vantaggiosa per la classe operaia - perché le darebbe possibilità di lavoro. Ma se anche lo fa, è evidente che non è per il fatto di essere eccedente » (TH. HOPKINS, On rent of land ecc., Londra, 1828, p. 126).

 

 AVVERTENZA PER IL LETTORE

Il testo del I libro del Capitale che viene qui riportato NON È UNA DELLE TRADUZIONI INTEGRALI DEL TESTO ORIGINALE che sono disponibili: esso infatti è una rivisitazione delle traduzioni esistenti (in italiano ed in francese) a cui sono state apportate le seguenti modifiche:

1  negli esempi numerici, per facilitare la lettura, sono state cambiate le unità di misura e le grandezze;

2 –  diversi dati richiamati nella forma di testo sono stati trasformati in tabelle ed in grafici;

3 – in alcuni esempi numerici le cifre decimali indicate sono state limitate a due e nel caso di numeri periodici, ad esempio 1/3 o 2/3, la cifra periodica è stata indicata ponendovi a fianco un apice ().

Ci rendiamo conto che leggere un testo del Capitale in cui Marx formula esempi in Euro (€) invece che in Lire Sterline (Lst) o scellini potrebbe far sorridere e far pensare ad uno scherzo o ad una manipolazione che ha  travisato il pensiero dell’Autore, avvertiamo invece il lettore che il testo è assolutamente fedele al pensiero originale  e che ci siamo permessi di introdurre alcune “varianti” per consentire a coloro che non hanno dimestichezza con le unità di misura e monetarie inglesi di non bloccarsi di fronte a questa difficoltà e di facilitarne così la lettura o lo studio. In altre parti si è invece mantenuto le unità di misura e monetarie inglesi originali perchè la lettura non creava problemi di comprensione e per ragioni di fedeltà storica.

Ci facciamo altresì carico dell’osservazione che Engels ha formulato nelle “considerazioni supplementari” poste all’inizio del III Libro,laddove, di fronte alle molteplici interpretazioni del testo che vennero fatte dopo la prima edizione, sostiene: “Nella presente edizione ho cercato innanzitutto di comporre un testo il più possibile autentico, di presentare, nel limite del possibile, i nuovi risultati acquisiti da Marx, usando i termini stessi di Marx, intervenendo unicamente quando era assolutamente necessario, evitando che, anche in quest’ultimo caso, il lettore potesse avere dei dubbi su chi gli parla. Questo sistema è stato criticato; si è pensato che io avrei dovuto trasformare il materiale a mia disposizione in un libro sistematicamente elaborato, en faire un livre, come dicono i francesi, in altre parole sacrificare l’autenticità del testo alla comodità del lettore. Ma non è in questo senso che io avevo interpretato il mio compito. Per una simile rielaborazione mi mancava qualsiasi diritto; un uomo come Marx può pretendere di essere ascoltato per se stesso, di tramandare alla posterità le sue scoperte scientifiche nella piena integrità della sua propria esposizione. Inoltre non avevo nessun desiderio di farlo: il manomettere in questo modo perchè dovevo considerare ciò una manomissione l’eredità di un uomo di statura così superiore, mi sarebbe sembrato una mancanza di lealtà. In terzo luogo sarebbe stato completamente inutile. Per la gente che non può o non vuole leggere, che già per il primo Libro si è data maggior pena a interpretarlo male di quanto non fosse necessario a interpretarlo bene — per questa gente è perfettamente inutile sobbarcarsi a delle fatiche”.

Marx ed Engels non ce ne vogliano, ma posti di fronte alle molteplici “fughe” dallo studio da parte di persone che non possedevano una cultura accademica, fughe che venivano imputate alla difficoltà presentate dal testo, abbiamo deciso di fare uno “strappo” alle osservazioni di Engels, intervenendo in alcune parti  avendo altresì cura di toccare il testo il meno possibile. Nel fare questo “strappo” eravamo tuttavia confortati dal fatto che, a differenza  della situazione in cui Engels si trovava, oggi chi vuole accedere al testo “originale”, dispone di diverse edizioni in varie lingue.

Coloro che volessero accostarsi al testo originale in lingua italiana si consigliano le seguenti edizioni:

  • Il capitale, Le Idee, Editori Riuniti, traduzione di Delio Cantimori;
  • Il capitale, Edizione Einaudi, traduzione di Delio Cantimori;
  • Il capitale, Edizione integrale - I mammut – Newton Compton, a cura di Eugenio Sbardella.

Chi volesse accedere ad edizioni del Capitale e di altri testi di Marx in lingue estere, si propone di consultare il sito internet di seguito riportato:

http://www.marxists.org/xlang/marx.htm