OCCUPAZIONE
Riflessioni sulla praticabilità di politiche di sostegno Gianni Vaggi A leggere le pagine economiche dei quotidiani e ad ascoltare le dichiarazioni di molti ministri sembra che la politica economica oggi perseguita non abbia alternative. Essa sarebbe infatti il risultato di “oggettive” leggi di mercato. D’altra parte ogni politica economica si caratterizza anche per il fine che vuole raggiungere, ed oggi tutti sostengono che la principale preoccupazione riguarda l’occupazione. Quindi sembra proprio che non esistano né modelli né fini differenti, e tanto meno “di sinistra”. Scopo di questo articolo è cercare di suscitare il dubbio che vi sia un’alternativa all’attuale politica economica e che sia anche praticabile. Dapprima esaminerò il modello di politica economica di fatto oggi dominante. Vedremo poi un diverso punto di vista, che fa dell’occupazione, ora e subito, il vero obiettivo. Da ultimo vi sono alcune provvisorie considerazioni su alcuni aspetti dell’economia italiana che vanno esaminati al fine di rendere fattibile una politica alternativa a quella seguita. 1) È opinione diffusa che il rilancio dell’economia italiana, e quindi dell’occupazione, possa derivare soltanto dall’aumento delle esportazioni e degli investimenti privati. Di qui l’esigenza di comprimere i costi di produzione, ed in particolare quello del lavoro, per essere più competitivi sui mercati mondiali e per garantire i margini di profitto. In sostanza per aumentare l’occupazione è necessario ridurre i salari reali. L’aumento dei posti di lavoro è la variabile dipendente di un modello fra i cui dati vi è anche il salario. L’occupazione è quindi il risultato di un processo che vede la crescita delle esportazioni, del reddito nazionale e degli investimenti. Se tutte le relazioni ipotizzate nel modello funzionano nel modo sperato allora.; si avrà un aumento dei posti di lavoro. Ma proprio le recenti vicende economiche italiane mostrano che questo modello può facilmente incepparsi in almeno due punti. Innanzitutto non sembra si possa ripetere l’esperienza degli anni Cinquanta e in parte Sessanta, in cui la forte crescita della domanda mondiale ha consentito a molti sistemi economici di crescere a tassi che sfioravano il dieci per cento. Nel medio-lungo periodo il commercio mondiale crescerà solo a tassi molto bassi. In queste condizioni il modello di crescita “tirata dalle esportazioni” si fonda su ipotesi assai dubbie. Certamente le crescenti difficoltà a trovare sbocchi alle merci italiane inducono ad essere più competitivi. Peccato però che ragionino così anche tutti i nostri concorrenti, siano essi nazioni di antica o nuova industrializzazione, ed in queste ultime, è bene ricordano, i salari sono anche un decimo di quelli italiani. In sostanza la capacità produttiva installata sembra avere portato l’economia mondiale in condizioni di sovrapproduzione. In queste condizioni non solo vi sono comportamenti più aggressivi sui mercati internazionali, ma soprattutto non tutta la produzione può essere venduta in modo profittevole. Queste considerazioni sullo stato di salute dell’economia mondiale non portano affatto a concludere che si deve rinunciare ad essere competitivi. Però sembra davvero una pura petizione di principio il fare dipendere l’occupazione dalla crescita delle nostre esportazioni Anche supponendo che le imprese italiane riescano ad esportare con successo, questo non implica necessariamente nuovi posti di lavoro. L’aumento delle esportazioni ha un effetto positivo sul PIL, ed in particolare sulla produzione industriale, ma l’esperienza degli ultimi anni mostra che gli aumenti della produzione sono interamente spiegati da incrementi di produttività, con l’occupazione che ristagna o diminuisce. In sostanza gli investimenti privati non sembrano affatto essere rivolti ad aumentare l’occupazione, ma semmai introducono tecnologie che fanno risparmiare lavoro. D’altra parte il fine delle imprese è quello di fare profitti, e questo non coincide necessariamente con il sostegno dell’occupazione. Si parla molto di investimenti nel settore dell’informatica e nello sviluppo dei settori che vendono servizi alle imprese. È vero che nel settore dell’automazione si sono avuti aumenti sia di produzione che di occupazione, ma siamo sempre in presenza di attività a basso contenuto di lavoro e che, soprattutto, tende per sua stessa natura sempre più a sostituire l’attività dell’uomo. Anche la crescita dei servizi richiesti dalle imprese non sembrano poter garantire il sostegno dell’occupazione; in molti casi si tratta di attività che fino a pochi anni fa erano interne alle imprese e che ora sono state decentrate. Del resto lo sviluppo di queste attività può riguardare solo poche aree del paese che sono già ad alta industrializzazione. Non si tratta affatto di negare che sia utile la ricerca di maggiore competitività sui mercati internazionali, e neppure che si debbano favorire lo sviluppo e la ricerca in settori ad alta tecnologia. Il fatto è che questi due aspetti dell’economia italiana possono dare solo magri risultati in termini di occupazione. Le regole del mercato non sembrano in grado di fornire più di tanti posti di lavoro, per cui l’occupazione è destinata a variare inversamente con la crescita della forza lavoro. Accettare questo punto di vista significa rassegnarsi a che la disoccupazione cali eventualmente in funzione di fattori demografici. Non stupisce quindi che molti teorici dell”economia dell’offerta” usino l’espressione “tasso naturale di disoccupazione”. 2) Il modello culturale basato sulla crescita trainata dalle esportazioni e dagli investimenti privati sembra avere fatto breccia anche nella sinistra e nel movimento sindacale. Queste forze hanno assunto un’ampia gamma di posizioni. Alcuni sono convinti che sia necessario cedere sul salario in cambio di maggior occupazione, con maggiore o minore mediazione da parte dello stato. Sembra accettato il principio che le imprese, almeno quelle che esportano, debbano essere comunque favorite, anche con sacrifici salariali, da recuperarsi con lo strumento fiscale. Si è ipotizzata l’unione di tutte le forze produttive contro i settori parassitari al fine di ridare slancio alla crescita economica. Oppure si è pensato il nuovo modello di sviluppo come alternativo alla logica del mercato capitalistico. Eppure proprio l’analisi dei fallimenti del mercato e del modello di politica economica ora adottato apre la strada alla ricerca di una via intermedia fra le posizioni appena descritte. Il mercato non può essere eliminato e neppure va demonizzato, ma si può pensare ad un ruolo attivo dello stato di sostegno all’attività economica, che non sia la semplice intermediazione fra le parti sociali, distribuendo ora fiscalizzazioni degli oneri sociali, ora sgravi sulle imposte dirette ai lavoratori dipendenti. Cerchiamo di vedere sommariamente quali possono essere le caratteristiche di una politica economica che intenda sostenere in modo diretto l’occupazione. Molte proposte sono già state avanzate per creare nuovi posti di lavoro, si va dalla riduzione di orario agli interventi sull’ambiente, dallo sviluppo dei servizi sociali al rilancio dell’edilizia. Più che valutare le singole misure cercherò di mettere in luce il modello generale di riferimento in cui esse si inseriscono ed il quadro di politica economica che ne emerge, con alcune implicazioni. Inoltre mi pare sia importante esaminare queste politiche di sostegno dell’occupazione all’interno del complesso della politica economica, per vedere quali condizioni le rendono possibili. La caratteristica generale che accomuna tutte queste misure è che esse individuano nella domanda interna, sia come spesa pubblica, sia per consumi privati, la componente della domanda che deve sostenere il livello di attività del sistema economico italiano. In questo senso vi è una chiara contrapposizione con il modello fin qui seguito. Del resto se si ammette che la domanda estera possa influire assai poco sull’occupazione, bisogna per forza contare sul rilancio delle altre componenti della domanda. Lo stato può intervenire direttamente sulla spesa pubblica e può fare parecchio per rimettere in movimento sia i consumi che gli investimenti privati. Si tratta perciò del ben noto approccio keynesiano, che vede negli investimenti pubblici lo strumento per ridare spinta ad un’economia stagnante. È chiaro che questo punto di vista contrasta direttamente con le recenti mode in tema di deregulation e di neo-liberismo, che identificano il settore pubblico con inefficienza ed improduttività. Questo è in parte vero, ma di fronte all’incapacità delle esportazioni e degli investimenti privati di affrontare il problema della crescente disoccupazione, non vi è altra via da tentare che quella dell’intervento dello stato. Che la “produzione di disoccupazione” sia una caratteristica di certe fasi dello sviluppo capitalistico dovrebbe essere un dato evidente. Ma ciò che più preoccupa è che non sembra si sia ancora raggiunto il livello di disoccupazione che le regole dell’efficienza capitalistica considerano come necessario per la ripresa della crescita. Insomma non sembrano sufficienti né i due milioni e mezzo di disoccupati italiani, rapidamente tendenti a quattro, né i dodici milioni nell’Europa ed i trentadue dell’OCSE. L’approccio keynesiano alla politica economica non è di moda, sommerso com’è dall’ondata culturale neo-liberista, eppure esso non implica affatto l’isolamento dell’Italia rispetto ai suoi tradizionali partner commerciali. In fondo noi stessi abbiamo spesso chiesto che le altre nazioni “rilancino” la loro economia, Germania in testa. Purtroppo l’ideologia liberista della reganomics (non le pratiche concrete di politica economica dell’amministrazione Reagan), attraverso lo spauracchio dell’inflazione ha prodotto politiche monetarie restrittive, che hanno provocato, o accentuato, la recessione soprattutto in Europa. Come risultato si stanno scaricando sui lavoratori il peso della crisi e dei processi di ristrutturazione. L’ideologia del libero mercato si accompagna di fatto in molti paesi a pratiche più o meno velatamente protezionistiche, di cui sono un esempio le recenti posizioni degli Stati Uniti nel rifiutare interventi coordinati sul mercato dei cambi. L’ideologia del libero mercato si accompagna ad un forte aumento della competitività fra i paesi industrializzati, che si manifesta soprattutto con il fatto che tutti pensano di conquistare nuove quote del mercato internazionale a spese dei concorrenti, e senza “rilanciare” la propria economia. Perciò il punto di vista del sostegno della domanda interna va proprio in senso opposto all’isolamento rispetto agli altri paesi industrializzati. 3) Nell’economia italiana, l’uso della spesa pubblica per sostenere la domanda e l’occupazione pone due tipi di problemi, quelli del reperimento delle risorse e dei nostri conti con l’estero. L’Italia non è gli Stati Uniti che possono predicare il libero scambio ed aumentare il deficit pubblico ed il disavanzo della bilancia commerciale. Vediamo la prima questione. Oggi in Italia il problema del reperimento delle risorse per sostenere la spesa pubblica ha due aspetti: la distribuzione del reddito ed il fisco. Per quel che riguarda il primo punto bisogna rilevare che l’inflazione ha determinato ampi fenomeni di redistribuzione del reddito fra classi sociali e fra settori dell’economia. Gli stipendi ed i salari reali industriali che erano aumentati nella prima parte degli anni Settanta, si sono ridotti dal 1979 in poi, e soprattutto negli anni Ottanta. Nello stesso periodo molte imprese hanno ricostituito margini di profitto, soprattutto grazie ad aumenti di produttività. Ma anche altre classi sociali, liberi professionisti, commercianti, artigiani, hanno incrementato le loro quote di reddito nazionale. Alcuni settori sono cresciuti a spese di altri, ad esempio il commercio ed il credito, dove il valore aggiunto per addetto è aumentato più che in altri settori dell’economia. Queste schematiche annotazioni vanno dimostrate ed approfondite, ma una politica di reperimento delle risorse non può prescindere dalle modificazioni che vi sono state nella distribuzione del reddito e della ricchezza negli ultimi dieci anni. Si tratta di trovare le fonti di finanziamento della spesa pubblica dove la ricchezza si è accumulata, invece di insistere con politiche dei “sacrifici” per i lavoratori dipendenti. Il problema dell’imposizione fiscale si lega anche ai suoi effetti sui consumi privati, che spesso vengono accusati di essere i principali colpevoli dell’inflazione, di qui l’esigenza di sacrifici. Ma negli ultimi anni la crescita dei consumi privati si è mossa sostanzialmente in linea con quella del reddito. Inoltre la struttura dei consumi dipende dalla distribuzione delle famiglie per classi di reddito. Sarebbe interessante valutare qual è la spinta inflazionistica per il sistema italiano che deriva dai consumi delle famiglie con redditi medio-alti e quella dei consumi dei redditi medio-bassi. “Insomma, il rilancio della domanda interna, anche nella sua componente dei consumi privati, potrebbe forse sostenere il tasso di crescita dei prezzi interni meno di quanto non sia successo in passato. L’analisi della distribuzione del reddito è legata allo strumento fiscale non solo da ovvie ragioni di equità. La possibilità di avere maggiori entrate senza penalizzare la domanda interna potrebbe infatti avere importanti effetti antinflazionistici nell’economia italiana. In effetti lo stato gestisce molti servizi i cui prezzi amministrati e le cui tariffe hanno potentemente contribuito a sostenere e ad accelerare l’inflazione, soprattutto negli ultimi tre o quattro anni. Se ci fossero le risorse necessarie nulla vieterebbe di far funzionare questo meccanismo in senso contrario, bloccando per un periodo sia i prezzi amministrati che le tariffe pubbliche, con effetti positivi anche sui costi delle imprese. Le risorse vanno perciò trovate mediante l’imposizione diretta. Da un lato bisogna introdurre misure efficaci contro l’evasione e l’erosione fiscale, anche aumentando il numero dei dipendenti degli organi di accertamento, sia centrali che periferici. Bisogna inoltre sveltire le procedure di contenzioso fiscale, evitando benefici (per le casse dello stato), ma sporadici, condoni. Ma la lotta all’evasione sarebbe tanto più efficace se direttamente legata all’esigenza di reperire risorse per sostenere la spesa pubblica e l’occupazione. D’altra parte è necessario tassare la ricchezza e non solo il reddito, introducendo una tassa progressiva sul patrimonio. 4) È chiaro che un generico rilancio della domanda interna potrebbe essere interamente assorbito da aumenti di produttività, senza avere effetti positivi sull’occupazione, per questo i consumi e gli investimenti pubblici devono essere “mirati” all’aumento dei posti di lavoro. Le imprese italiane beneficerebbero comunque degli effetti moltiplicativi degli investimenti pubblici, che farebbero aumentare i consumi privati e quindi la domanda dei loro prodotti. L’intervento dello stato deve quindi legarsi a specifiche politiche di settore, che contemporaneamente mirino ad aumentare l’occupazione ed a rimuovere alcuni aspetti negativi della struttura del sistema economico italiano. Solo pochi esempi. Servizi pubblici che migliorino la qualità della vita; assistenza agli anziani ed agli handicappati; interventi a tutela dell’ambiente, ecc. Un piano di rinnovamento dei trasporti; esiste inoltre un progetto europeo per il settore delle telecomunicazioni. Questi tipi di interventi migliorano anche il tessuto produttivo e possono contribuire a ridurre i costi per le imprese. Voglio dedicare maggior spazio alle iniziative che si potrebbero prendere per affrontare il problema delle abitazioni, come esempio di interventi di tipo strutturale. Il piano per l’acquisto della prima casa proposto dal ministro Goria è una mossa nella direzione giusta ma con le cifre sbagliate. Infatti solo chi già possiede un notevole numero di milioni può usufruirne. Ma queste ambiguità derivano dal fatto che non si è affrontato seriamente la questione del reperimento delle risorse. A sostegno dell’attività edilizia si possono realizzare mutui trentennali per l’acquisto di abitazioni (soprattutto della prima casa) che coprano fino al 90 per cento del valore e detraibili direttamente sulla busta paga per i lavoratori dipendenti. Questo tipo di mutui è ampiamente diffuso in molti paesi anglosassoni, dove questa attività è svolta da building societies privare. Queste forme di risparmio-casa possono contribuire a rivitalizzare il mercato edilizio e forse anche ad attutire le tensioni sul mercato degli affitti nelle grosse aree urbane. L’edilizia pubblica potrebbe così orientarsi al soddisfacimento delle esigenze delle famiglie con redditi più bassi e più insicuri. Ma qui siamo rinviati all’esame di uno di quei “nodi strutturali” dell’economia italiana che non si possono evitare se veramente si vogliono realizzare politiche di sostegno dell’occupazione e di giustizia sociale. In Italia la questione dei mutui immobiliari è strettamente collegata al funzionamento del sistema creditizio, e ad una struttura del sistema bancario che presenta aspetti anacronistici. Banche “pubbliche” e che per statuto non possono fare profitti non riescono ad offrire al risparmiatore possibilità come quelle appena suggerite, pur operando con differenziali fra tassi attivi e passivi fra i più alti d’Europa. Ma qui il discorso ritorna all’esame del sistema bancario, che dietro la sua apparente “pubblicità” si è procurato risorse a spese dei lavoratori, ed a volte anche delle imprese, di altri settori economici. Probabilmente la spiegazione non sta tanto nell’inefficienza di ciò che è pubblico (in fondo se è riuscito a sfruttare il processo inflazionistico significa che tanto inefficiente, nel senso del mercato, poi non è), ma di strutture di potere politico-economico tipiche della realtà italiana. 5) Veniamo ora alla questione della struttura del commercio estero dell’Italia. Questo problema non può essere ignorato soprattutto se si pensa al rilancio della domanda interna. A seconda delle stime ogni punto percentuale di aumento del PIL comporta una crescita delle importazioni che oscilla dal due altre per cento. Bisogna innanzitutto sottolineare che il tipo di politica qui suggerito non danneggerebbe affatto le imprese esportatrici. Si pensi al contenimento delle tariffe ed alla riduzione del costo del denaro resa possibile da una riduzione del deficit pubblico (grazie all’incremento delle entrate). Inoltre l’aumento della domanda interna potrebbe fornire l’opportunità di realizzare delle economie di scala che consentano una maggior competitività sui mercati internazionali. In presenza di una crescente difficoltà per le aziende italiane ad esportare con successo, come dimostrano anche i recenti andamenti delle nostre esportazioni che sono cresciute meno della domanda mondiale, il vero problema consiste nell’evitare che la ripresa economica si scontri immediatamente con un forte aumento delle importazioni. Su questa questione non intendo dare risposte conclusive, ma solo suggerire quali aspetti del problema debbono essere approfonditi al fine di verificare la realizzabilità di politiche di sostegno della domanda. Innanzitutto bisogna notare che il contenuto, diretto ed indiretto, di importazioni delle varie voci della domanda finale mostra che esso è più elevato proprio per le esportazioni. Nel 1983 ogni cento lire di esportazioni ne includevano circa 27 di importazioni, gli investimenti ne comprendevano 21 ed i consumi 18. Proprio le esportazioni richiedono il maggior valore di beni importati per unità di prodotto (ovviamente hanno anche il merito di “pagarsi” questi beni). Bisogna tenere conto del fatto che il tipo di politiche di sostegno dell’occupazione a cui solitamente si pensa stimolano le voci della domanda interna che meno dipendono dalle importazioni. Infatti i consumi collettivi, che includono quelli pubblici, hanno un contenuto totale di importazioni pari al 7 per cento, contro il 23 per cento dei consumi privati. Ma soprattutto gli investimenti in costruzioni, che includono l’edilizia, contengono beni importati solo per il 10 per cento, a fronte del 54 per cento degli altri investimenti. Inoltre le politiche di settore possono contribuire a modificare la struttura della produzione e della domanda finale diminuendone la dipendenza dalle importazioni. Un discorso a parte va fatto per il settore agricolo-alimentare, che come valore delle importazioni è secondo solo a quello energetico. Qui sono inevitabili interventi strutturali che vadano in senso opposto a quelli finora attuati. Le condizioni di arretratezza della nostra. agricoltura, soprattutto nel Mezzogiorno, e le politiche agricole comunitarie sono le radici del nostro deficit alimentare. In nome di una futura, e per ora mai raggiunta efficienza, abbiamo assistito alla distruzione di risorse. Finché l’Europa non sarà capace di darsi una politica agricola comune, che produca risorse invece di distruggerle, l’Italia dovrà sviluppare autonomamente gli interventi nel settore agricolo ed alimentare, sia per quel che riguarda la produzione sia per la commercializzazione. Possibili scontri con Francia e Germania vanno messi nel conto dei costi necessari per dare una diversa impronta all’agricoltura italiana. Le considerazioni appena fatte sulla questione agricola mostrano che, almeno nel breve periodo, politiche di rilancio della domanda interna pongono il problema di controlli sulle nostre importazioni. Verso la metà degli anni Settanta vi fu un dibattito sulle pagine di Rinascita sul controllo e la sostituzione delle importazioni. Ma i sostenitori della necessità di queste misure furono tacciati di. autarchia e così il problema fu rimosso. E chiaro che non si tratta di chiudersi a riccio, e neppure di uscire dalla CEE. Anzi, quanto più vi sarà una reale unità economica e politica dell’Europa, tanto meno saranno necessari controlli sul commercio estero. Ad esempio, se l’ECU potesse veramente essere utilizzato nelle transazioni internazionali, si ridurrebbe di molto l’effetto negativo delle fluttuazioni del cambio del dollaro. Basti ricordare che negli anni ottanta l’aumento del deficit del nostro settore energetico è interamente dovuto ad un “effetto prezzo”. Con quantità consumate in diminuzione il “buco” si è allargato a causa dell’aumento del valore del dollaro. Se poi altri paesi europei adottano politiche di reflazione si allevierebbero di molto i nostri problemi di bilancia commerciale dovuti a politiche di sostegno della domanda. D’altra parte se i nostri partner della CEE, o la loro maggioranza, insistono con politiche di deflazione è necessario per l’Italia sviluppare una politica commerciale autonoma, sia in Europa che con il resto del mondo. Ma soprattutto si tratta di dare finalmente inizio a quegli interventi di tipo strutturale in particolari settori dell’economia, agricolo ed energetico in testa. Gli interventi strutturali richiedono tempo, ma fino ad ora questa ovvia considerazione è servita a rinviarli, quando invece i problemi originati dalla mancanza di questi interventi si ripresentano continuamente. Infine bisognerebbe ricordare ai nostri partner della CEE che ogni manovra di rilancio dell’economia avvantaggia le altre nazioni, e questo fatto può giustificare l’introduzione di misure cautelative sulle importazioni. 6) Di fronte ai dati della relazione sull’economia del 1984, presentati dal Ministro del Tesoro, si sono levate molte voci favorevoli al rilancio degli investimenti pubblici a sostegno dell’occupazione, magari nella forma di interventi straordinari del tipo “nuovo piano Marshall”. Lo stesso Ministro del Tesoro sottolinea il problema del nostro deficit commerciale e indica la necessità di contenere le importazioni. Il Ministro del Lavoro ha presentato misure per l’occupazione che si inquadrano nell’ottica dell’uso “mirato” della spesa pubblica. Non vi sono dubbi sulla sincerità di queste posizioni, ma affinché gli obiettivi dichiarati siano davvero perseguibili è necessario affrontare le questioni che ho sollevato nelle sezioni .3, 4 e 5. In particolare vanno esaminati i problemi del reperimento delle risorse, degli investimenti strutturali e del commercio estero. Senza risposte chiare a questi problemi ci si troverebbe di fronte ad affermazioni demagogiche o velleitarie, oppure all’ennesimo tentativo di scaricare sui lavoratori dipendenti il costo della, crisi, attraverso misure di riduzione dei consumi privati e della domanda interna. Le considerazioni svolte in questo articolo non sono né esaurienti, né conclusive. Mi limito a sostenere che una diversa politica economica è possibile. Ma affinché essa non sia un bluff è necessario aver presente l’intero sistema economico e le relazioni fra le grandezze che lo caratterizzano. In questo quadro generale vi sono fisco e distribuzione del reddito, politiche commerciali e di settore, spesa pubblica e credito, la composizione della domanda e così via. Io ho solo esaminato poche relazioni fra questi aspetti, ma spero di avere almeno instillato il dubbio che una politica economica di diretto sostegno dell’occupazione sia oggi praticabile, seppure con le dovute precauzioni, a patto di affrontare davvero alcuni aspetti negativi della società e dell’economia italiana. NOTE [1] Estratto da AZIMUT n° 16 rivista bimestrale di economia politica e cultura – marzo – aprile 1985. |