FORMA MATEMATICA E CONTENUTO ECONOMICO[1]

Giorgio Lunghini

Mefistofele: Chi vuol conoscere e descrivere alcuna cosa vivente si studia in primo luogo di metterne fuori l’anima; allora egli tiene in mano ad una ad una le parti, e, oh lasso lui! non gli manca se non il nodo vitale.

Lo Scolaro: Io non ho afferrato bene.

Mefistofele: Tutto vi riuscirà più chiaro, quando abbiate appreso a fare le riduzioni e classificazioni convenienti.

W. Goethe

La scienza infernale si differenzia dalla scienza umana in quanto le manca il concetto di approssimazione: la scienza infernale crede nell’esattezza delle sue leggi.

W. H. Auden

Nella storia del capitalismo e della sua scienza il 1870 è un anno cruciale: segna l’inizio della Grande depressione e il tramonto dell’economia politica classica. Per stare alla teoria, il 1870 è l’anno in cui l’economia politica si libera dell’aggettivo e si riduce a economica. L’economia come scienza nasce nel settecento, con F. Quesnay, quando si costituisce in scienza autonoma di un oggetto determinato, il processo capitalistico di produzione e riproduzione. Rinasce purificata a fine ottocento, con Jevons e altri, quando si defila come teoria dell’homo oeconomicus, abbandona la forma letteraria e per purificarsi adotta invece la forma matematica[2]. È una scelta epistemologica radicale, che ha conseguenze rilevanti sulla rilevanza del discorso economico[3].

La proposizione neoclassica, secondo cui la massimizzazione del profitto comporta l’eguaglianza tra costo marginale e ricavo marginale, è teoricamente ineccepibile, e basta. In maniera più radicale, si potrebbe forse dire che una proposizione è rilevante se, anziché risolvere un problema, lo pone.

F. Y. Edgeworth è tra i protagonisti di questo cambiamento di paradigma, della riduzione dell’economia politica a una scienza pseudonaturale il cui rigore deve essere certificato dalla scelta esclusiva della forma matematica. Edgeworth è però anche il circospetto autore della voce Mathematical method in political economy del Palgrave vittoriano[4]. Quel breve scritto comincia con un avvertimento: “L’idea di applicare la matematica agli affari umani può sembrare, a prima vista, una assurdità degna della Laputa di Swift”. Per comodità del lettore, ricordo qui la narrazione di Gulliver:

Coloro a cui il Re mi aveva affidato, notando quanto fossi malvestito, mandarono il mattino dopo un sarto a prendermi le misure per un abito completo. Questo artigiano se la sbrigò in modo assai diverso dai suoi colleghi europei: prese la mia altezza con un quadrante, e poi, con regolo e compassi, segnò sulla carta le dimensioni e i lineamenti del mio corpo; sei giorni dopo mi portò un abito fatto malissimo e che non mi si adattava per nulla, perché nei suoi calcoli aveva sbagliato una cifra. [...] Immaginazione, fantasia e inventiva ai Laputiani sono totalmente negate: il loro linguaggio non ha nemmeno le parole per indicare questi concetti; la cerchia dei loro pensieri e del loro intelletto è limitato alla matematica e all’astronomia.[5]

Secondo Edgeworth, tuttavia, l’uso della matematica in economia può contribuire a quell’uso negativo o dialettico della teoria, che consiste nell’affrontare le argomentazioni erronee sul loro stesso terreno di ragionamento astratto: “Il metodo matematico è utile per liberarsi della spazzatura che ingombra le fondamenta della scienza economica”. Oltre a questa funzione critica, nota Edgeworth, l’uso di equazioni simultanee o di curve intersecantesi agevola la comprensione della marshalliana ‘simmetria fondamentale’ tra le forze della domanda e dell’offerta; mentre i littérateurs si perdono in dispute verbose su quale dei due fattori regoli o determini il valore. Il metodo matematico può dunque essere utile, ma non si devono dimenticare gli abusi e i difetti cui esso è esposto: “Uno di questi è il rischio di essere sopravvalutato, un rischio comune a qualsiasi organon e specialmente a quelli nuovi. Come dice il professor Marshall, ‘Quanto non si siano studiate le condizioni effettive di un problema particolare, questa sapienza [matematica] vale poco più di una trivella petrolifera dove non ci sono giacimenti di petrolio’”.

Un secolo dopo, l’autore della voce Mathematical economics del nuovo Palgrave è G. Debreu, un autore non meno competente di Edgeworth e altrettanto sorvegliato[6] Ne riporto un passo, circa il processo di assiomatizzazione dell’economia matematica:

Quando un modello formale di una economia assume vita propria, esso diventa l’oggetto di un processo inesorabile, nel quale vengono perseguiti senza sosta il rigore, la generalità e la semplicità. [...] L’interpretazione economica dei teoremi così ottenuti è l’ultimo passo dell’analisi. Secondo questo schema, una teoria assiomatizzata ha una forma matematica completamente separata dal suo contenuto economico. Se si rimuove l’interpretazione economica dei concetti primitivi, delle assunzioni e delle conclusioni del modello, la sua nuda struttura matematica deve comunque reggere.

Il divorzio tra forma e contenuto è così consumato, e finalmente l’analisi economica sembra liberata dall’ideologia[7]. La seduzione della forma è quasi irresistibile, e la ricerca può essere tentata di dimenticare il contenuto economico e di schivare quei problemi che non sono riducibili alla forma matematica. “La teoria economica”, conclude Debreu, “è destinata a un lungo futuro matematico, e in altre edizioni del Palgrave gli autori potranno scegliere come tema, e magari vi saranno inclini, ‘Forma matematica e contenuto economico’”.

Conseguenze dell’uso della matematica in economia: tre casi

Nei confronti del dilemma suggerito da Debreu è del tutto inutile, come per qualsiasi altro problema metodologico, assumere un atteggiamento prescrittivo. Può invece essere di qualche utilità prendere in considerazione, in una prospettiva storica, alcuni casi che illustrano le possibili e diverse conseguenze dell’uso della matematica in economia: il cosiddetto ‘problema della trasformazione’, da Marx a Sraffa; la riduzione della Teoria generale di Keynes al modello IS-LM di Hicks; la controversia sul concetto di capitale, tra neoricardiani e neoclassici. Nel primo caso l’esito è la cancellazione del problema; nel secondo la omologazione dell’eresia; il terzo è un caso di fin de non recevoir.

Trasformazione e tendenze

Marx cede alle tentazioni di Mefistofele nei capitoli nono e decimo del libro terzo del Capitale, Formazione di un saggio generale del profitto e trasformazione dei valori delle merci in prezzi di produzione e Livellamento del saggio generale del profitto ad opera della concorrenza[8]. Il luogo preciso è la tabella con la quale Marx vorrebbe mostrare che capitali con composizione organica diversa, ma con saggio uniforme del plusvalore e dunque con differenti saggi del profitto, possono, come devono, dar luogo a prezzi di produzione che assicurino la formazione di un saggio generale (medio) del profitto. Tuttavia ciò si può ottenere soltanto presupponendo l’esistenza di un saggio generale del profitto, al fine di calcolare il prezzo di produzione delle merci come somma del loro prezzo di costo e del profitto percentuale corrispondente al saggio generale del profitto.

La tesi dello stesso Marx è invece che tra le sfere di produzione che hanno una composizione del capitale diversa da quella del capitale sociale medio si manifesta la tendenza al livellamento, cioé alla posizione media ideale, che non trova riscontro nella realtà, ossia si manifesta la tendenza a adeguarsi a tale posizione ideale. Il problema veramente difficile consiste dunque nel determinare “come avviene questo livellamento dei profitti al saggio generale del profitto, essendo questo evidentemente un risultato e non un punto di partenza”. Infatti è conforme alla realtà “considerare i valori delle merci non solo da un punto di vista teorico, ma anche storico, come il prius dei prezzi di produzione” (la prestazione di un pluslavoro nella sfera della produzione precede l’eventuale e condizionata realizzazione di un profitto sul mercato). Marx avvertiva anche che

l’esistenza di un saggio generale del plusvalore - quale tendenza, come tutte le leggi economiche - è stata da noi ammessa per semplificazione teorica; essa peraltro costituisce nella vita reale una condizione effettiva del modo capitalistico di produzione, ostacolata in grado maggiore o minore da attriti che nella pratica provocano differenze locali più o meno importanti [...] In teoria si postula che le leggi del modo capitalistico di produzione si sviluppino senza interferenze. Nella vita reale c’è solo una approssimazione, e questa approssimazione è tanto maggiore quanto maggiore è il grado di sviluppo del modo capitalistico di produzione, e quanto più esso è riuscito a liberarsi da contaminazioni e interferenze con i residui di situazioni economiche anteriori[9].

Quando sceglie il linguaggio aritmomorfico, Marx si costringe a negare la propria tesi di fondo e a trattare come dato il saggio generale del profitto. D’altra parte la soluzione del “problema veramente difficile” non si poteva trovare incasellandone gli esponenti in una tabella, né se ne poteva trovare una qualche soluzione rilevante riducendolo a un sistema di equazioni simultanee, poiché in questo modo si nega in radice l’esistenza di un prius e si cancella la direzione del nesso tra pluslavoro e profitto. Un sistema di equazioni simultanee non può dar conto di un processo, di una tendenza. Che di ciò la matematica usata dagli economisti non consenta di parlare, è un problema degli economisti che le consegnano i problemi economici[10]. La lunga storia del problema della trasformazione (da Dmitriev e Bortkievicz a Sraffa) è nota, ma una volta intrapresa la via della forma matematica il suo esito - la soppressione del problema stesso - era fatale.

Conoscenza incerta

Nella storia delle eresie e del modo in cui neutralizzarle e annetterle alla ortodossia, il magistrale articolo di J. Hicks del 1937 ha come unico precedente, per sottigliezza e efficacia, l’esortazione che il cardinale Bellarmino rivolge a Galileo[11].

Nel 1616 era stato promulgato “il salutifero editto che, per ovviare a’ pericolosi scandoli dell’età presente, imponeva opportuno silenzio all’opinione Pitagorica della mobilità della Terra”. Il cardinale Bellarmino avverte Galileo: “faccia prudentemente a contentarsi di parlare ex suppositione e non assolutamente, perché dire che se la terra si muove e il sole sta fermo si salvano tutte le apparenze: è benissimo detto, e non ha pericolo alcuno”. Abbandonare il terreno della pura speculazione matematica e “volere affermare che realmente il sole stia al centro del mondo”, è invece “cosa molto pericolosa non solo d’irritare tutti i filosofi et theologi scholastici, ma anche di nuocere alla Santa Fede col rendere false le Scritture Sante”[12]. Ciò che della Teoria generale massimamente irrita i theologi scholastici è infatti la sua struttura teoretica e l’irriverente conclusione circa la normalità, in una economia monetaria di produzione, di un equilibrio di sottooccupazione. La sintesi migliore della Teoria generale ce la dà lo stesso Keynes nel suo articolo dello stesso anno[13]. È uno scritto che conviene ripercorrere secondo l’ordine lineare imposto dal linguaggio ordinario, un linguaggio in cui l’ordine espositivo non è casuale, ma corrisponde all’ordine causale che vi è postulato.

Ciò che per Keynes accomuna i Classici, da Ricardo a Marshall a Edgeworth e Pigou, è in primo luogo che essi considerano un sistema nel quale la quantità dei fattori impiegati è data e gli altri elementi rilevanti sono conosciuti in modo sostanzialmente certo. In particolare allora si presumeva (ma ancora oggi si presume) che il calcolo delle probabilità fosse in grado di ridurre l’incertezza alla medesima condizione di calcolabilità della stessa certezza. L’intero scopo della accumulazione della ricchezza è però di produrre risultati in un tempo lontano, e poiché la nostra conoscenza del futuro è fluttuante, vaga e incerta, la ricchezza è un argomento particolarmente inadatto per i metodi della teoria classica. Questo, il concetto di ‘conoscenza incerta’, costituisce il prius della Teoria generale e è il punto di distacco radicale dalla teoria ortodossa: “Io accuso la teoria economica classica di essere una di quelle piacevoli, elaborate tecniche che cercano di affrontare il presente, astraendo dal fatto che sappiamo molto poco del futuro”. Gli economisti classici (nella accezione di Keynes) “assomigliano a geometri euclidei in un mondo non euclideo”.

Il secondo punto di distacco, che discende dal primo, riguarda le funzioni della moneta e la natura del tasso di interesse: ”Il possesso della moneta culla la nostra inquietudine, e il premio che noi pretendiamo per separarcene è la misura della nostra inquietudine”. Il tasso di interesse ha dunque natura monetaria, non reale. Anche le decisioni di investimento sono prese sulla base di una conoscenza incerta. Non sorprende dunque che il volume dell’investimento sia soggetto a ampie fluttuazioni, poiché esso dipende da due insiemi di previsioni sul futuro, e cioè la propensione al tesoreggiamento e le opinioni sul rendimento futuro dei beni capitali, nessuno dei quali poggia su fondamenta adeguate o sicure. Posto che la spesa per consumi dipende soprattutto dal livello del reddito, la Teoria generale si può allora riassumere così: “data la psicologia della gente, il livello della produzione e dell’occupazione complessive dipende dall’ammontare dell’investimento”. Ciò non perché l’investimento sia l’unico fattore dal quale dipende la produzione globale, “ma perché è norma in un sistema complesso considerare causa causans quell’elemento che è più soggetto a improvvise e ampie fluttuazioni”.

I due punti fondamentali nei quali Keynes si distacca dalla teoria tradizionale sono dunque questi: 1. L’efficienza marginale del capitale non è determinata se non è dato il livello del reddito monetario. In un sistema in cui il livello del reddito monetario è soggetto a fluttuazioni, la teoria ortodossa ha perciò una equazione in meno rispetto a quante ne servirebbero per avere una soluzione. Ciò dipende dal fatto che nel sistema ortodosso tacitamente si assume che il reddito sia dato, e proprio a quel livello corrispondente al pieno impiego di tutte le risorse disponibili. Tale sistema di pensiero, per questa ragione, è incapace di trattare il caso generale in cui il livello dell’occupazione è soggetto a fluttuazioni. “Così, invece di essere l’efficienza marginale del capitale a determinare il tasso di interesse, è piuttosto vero che è il tasso di interesse a determinare l’efficienza marginale del capitale”. 2. Molti economisti moderni non si sono resi conto di accettare inavvertitamente la legge di Say, così che a loro sfugge la legge psicologica sottesa al moltiplicatore, cioè che l’ammontare di beni di consumo che agli imprenditori conviene produrre è una funzione dell’ammontare di beni di investimento per essi conveniente.

Di una teoria così fatta e delle sue conclusioni si può pensare quello che si vuole, ma ciò che importa qui è che il modello di Hicks non coglie la gerarchia concettuale tra gli elementi costitutivi della Teoria generale[14]. Hicks, nel suo feroce attacco a Keynes, sembra seguire alla lettera il suggerimento di Edgeworth: “l’uso di equazioni simultanee o di curve intersecantesi agevola la comprensione della marshalliana ‘simmetria fondamentale’ tra le forze della domanda e dell’offerta; mentre i littérateurs si perdono in dispute verbose su quale dei due fattori ‘regoli’ o ‘determini’ il valore”[15]. Keynes è un littérateur soltanto in quanto usa il linguaggio ordinario (ai suoi fini più ricco della forma matematica), e però non si perde affatto in dispute verbose quando scrive che “invece di essere l’efficienza marginale del capitale a determinare il tasso di interesse, è piuttosto vero che è il tasso di interesse a determinare l’efficienza marginale del capitale”.[16] Per arrivare a risultati definiti, Hicks cancella le aspettative dallo schema analitico della Teoria generale, fingendo di potere trattare in termini di equazioni simultanee il processo di cui si occupa Keynes, un processo in cui vi è un prima e un dopo.

Riducendo il complesso e ben ordinato ragionamento keynesiano alle tre equazioni che definiscono la condizione di equilibrio sul mercato della moneta, la domanda per investimenti, e la condizione di equilibrio tra investimenti e risparmio, Hicks può scrivere che

Il reddito e il tasso di interesse sono ora determinati insieme nel punto di intersezione tra le curve LL e IS. Essi sono determinati simultaneamente, proprio come prezzo e prodotto sono determinati simultaneamente nella moderna teoria della domanda e dell’offerta. In effetti, l’innovazione keynesiana è strettamente parallela, a questo riguardo, all’innovazione dei marginalisti. La teoria quantitativa tenta di determinare il reddito senza l’interesse, proprio come la teoria del valore lavoro tentava di determinare il prezzo senza il prodotto. Entrambe devono far posto a una teoria che riconosca un maggior grado di interdipendenza.

L’introduzione di questo “maggior grado di interdipendenza” consente a Hicks di sostenere che l’unica vera innovazione keynesiana, per quanto riguarda le caratteristiche dell’equilibrio del sistema economico, si ha quando l’intersezione tra le due curve si dà in corrispondenza di quella zona di bonaccia che usualmente viene definita ‘trappola della liquidità’. Dunque la Teoria generale non sarebbe affatto generale: essa sarebbe invece una teoria speciale, sarebbe “l’economica della depressione”. Secondo Hicks, tuttavia, la Teoria generale può essere generalizzata introducendo, “per ragioni di eleganza matematica”, reddito e tasso di interesse come argomento di tutte le equazioni, compresa quella della domanda per investimenti (e ciò “anche se si deve confessare che l’effetto del reddito sull’efficienza marginale del capitale sia capriccioso o irregolare”). Quando la si generalizzi in questo modo, secondo Hicks, “la teoria di Keynes comincia ad assomigliare parecchio a quella di Wicksell, e ciò non sorprende”.

La Teoria generale è invece la teoria generale di una particolare configurazione del sistema capitalistico. Se si volesse rendere il modello di Hicks almeno un po’ più rappresentativo dell’idea centrale di Keynes, occorrerebbe introdurre le aspettative (e non per ragioni di eleganza matematica) come argomento della funzione di domanda per investimenti e della funzione di domanda di moneta per il motivo speculativo. Quando si introduca una nuova variabile, la ragione matematica vorrebbe che si aggiungesse un’altra equazione. Tuttavia nessuno riuscirà mai a catturare in una equazione gli animal spirits. Nella risposta a Hicks, Keynes fu prudente; mezzo secolo dopo Hicks prese le distanze dalla propria Dunciad del 1937[17].Tuttavia i giochi erano fatti. Ciò che i manuali raccontano della Teoria generale, è soltanto quanto ne tradisce la forma ridotta in cui consiste il modello di Hicks.

Calculemus L’uso più promettente e neutrale del metodo matematico in economia sembrerebbe quello indicato da Edgeworth in quel suo uso negativo o dialettico, che consiste nell’affrontare le argomentazioni erronee sul loro stesso terreno di ragionamento astratto, al fine di liberarsi della spazzatura che ingombra le fondamenta della scienza economica. È il sogno di Leibniz: “quando sorgeranno controversie tra due filosofi, non sarà più necessaria una discussione; sarà sufficiente infatti che prendano in mano le penne, si siedano di fronte agli abachi e si dicano l’un l’altro: calculemus!” Questa fu infatti la strategia neoricardiana nella cosiddetta controversia tra le due Cambridge. Nel suo saggio del 1966 sul Mutamento delle tecniche Pierangelo Garegnani scriveva:

[La teoria della produzione e della distribuzione dominante negli ultimi sette o otto decenni] suppone che, dato un numero qualsiasi di “tecniche” alternative per la produzione “integrata” di una merce per mezzo di lavoro e di beni capitali, le tecniche possano essere poste in un ordine univoco secondo la loro intensità di capitale: la teoria afferma allora che ogni mutamento di tecnica provocato dalla diminuzione del saggio di interesse, sarà a favore di tecniche a maggiore intensità di capitale[18].

Dopo una dimostrazione inoppugnabile della possibilità di un ‘ritorno’ di un sistema di produzione, Garegnani concludeva così:

La tendenza è stata di sbarazzarsi di tali casi trattandoli come ‘eccezioni’: quasi che il principio tradizionale cui essi contraddicono fosse stato derivato dall’osservazione di regolarità empiriche, suscettibili di eccezioni, e non fosse stato invece il risultato di pure deduzioni da postulati che, si riconosce ora, erano privi di validità generale. In realtà ciò che quegli esempi dimostrano, è che il principio tradizionale - ricavato da premesse erronee - è esso stesso erroneo. Le conseguenze che derivano dall’ammettere l’erroneità di quel principio sono però assai gravi, perché su di esso è stata eretta la teoria della distribuzione generalmente accettata. Dall’aumento della proporzione tra capitale e lavoro nell’economia, quando l’interesse diminuisce, sono state infatti dedotte ‘funzioni di domanda’ del ‘capitale’ (cioè, in ultima analisi, del ‘risparmio’) e del lavoro; e, con esse, l’idea che la distribuzione del prodotto sociale fosse determinata dall’equilibrio tra la domanda e l’offerta di tali ‘fattori della produzione’. Di qui, in particolare, la spiegazione dell’interesse (profitto) in termini di scarsità del ‘capitale’, e di ricompensa per l’’attesa’. È difficile vedere come questa complessa struttura teorica possa essere preservata, quando la base su cui essa è stata eretta si rivela erronea.

La critica di Garegnani aveva preso spunto qui da un articolo di D. Levhari, articolo che a Levhari era stato suggerito da una congettura di P. Samuelson[19]. Per questa e per altre ragioni, Samuelson non poteva tacere. Infatti, nell’olimpico Riassunto del 1966 Samuelson scrive:

Il fenomeno del ritorno, per un saggio dell’interesse molto basso, a una serie di tecniche che erano sembrate vitali soltanto a un saggio dell’interesse molto alto, comporta assai più che tecnicismi esoterici. Esso mostra che la semplice favola raccontata da Jevons, Böhm-Bawerk, Wicksell e altri scrittori neoclassici - in base alla quale, quando il saggio di interesse cade, in seguito alla astensione dal consumo presente in favore di un consumo futuro, la tecnologia diventa, in qualche modo, più ‘indiretta’, più ‘meccanizzata’ e più ‘produttiva’ - non può essere universalmente valida. [...] Se tutto ciò causa emicranie a quei nostalgici delle antiche parabole di derivazione neoclassica, dobbiamo ricordarci che gli studiosi non sono venuti al mondo per avere una esistenza facile. Dobbiamo rispettare, e considerare nel loro valore, i fatti della vita[20].

Di lì a pochi anni, nel 1971, Joan Robinson si sente autorizzata a considerare chiusa la questione:

Sembra quindi che la controversia sia chiusa. Bisogna convenire (benché i piagnistei continueranno sui libri di testo) che è stato dimostrato che la produttività marginale del capitale, a livello macroeconomico, è una espressione priva di significato. Dobbiamo cercare altrove per determinare le leggi che regolano la distribuzione del prodotto sociale tra le classi della comunità[21].

Joan Robinson si sbagliava. Mentre nei libri di testo la Teoria generale è almeno nominata, ma nella forma ridotta dello schema IS - LM, negli stessi libri di testo (compresi quelli di Samuelson) quei ‘piagnistei’ non continuano affatto, l’esito della controversia è taciuto e quelle antiche parabole di derivazione neoclassica continuano a essere predicate. Poiché non se ne può contestare la soluzione, si rimuove il problema. È come se nei manuali di astronomia si tacesse di Galileo e si predicasse Tolomeo. In economia, l’inoppugnabilità della argomentazione non implica che nella disciplina prevalente la proposizione erronea sia sostituita da quella ‘vera’. Si può sempre opporre il fin de non recevoir.

Teoria e storia

Qualsiasi lavoro teorico comincia ritagliando dal contesto l’oggetto da studiare, e la matematica è il linguaggio che più di qualsiasi altro decontestualizza i propri oggetti (quando addirittura non li costruisca). Ciò può forse essere irrilevante in altre discipline, ma certamente non è irrilevante per l’economia, il cui contesto è la storia; storia cui si dovranno riconnettere i risultati analitici, se si vuole restituire loro un senso. Questo, dei rapporti tra teoria e storia, dunque tra teoria e politica, è un altro aspetto, e di particolare importanza, della questione ‘forma matematica e contenuto economico’[22]. Qui la contrapposizione diventa tra modelli chiusi o completi e modelli aperti o incompleti. Io credo che i modelli da cui si possono cavare proposizioni rilevanti vadano cercati tra i secondi. Circa il modo in cui far rientrare la storia nella teoria, e viceversa, accennerò, ancora per via di esempi, a alcuni luoghi delle teorie di Ricardo (dunque di Sraffa), di Marx e di Keynes. Il punto che hanno in comune è il diverso criterio con cui si distingue tra variabili e dati, tra variabili endogene e variabili esogene. Nei classici l’espediente è quello del ‘posto che’, del ‘mercato determinato’. In Marx e in Keynes è quello della contrapposizione alla legge in quanto tale, alla parte schematica della teoria, di cause antagonistiche o di fattori di stabilità.

Ricardo sembra a molti l’economista più astratto, il meno consapevole della determinazione storica della sua propria analisi. Nei suoi confronti Schumpeter è impietoso (ma lo è lo stesso Sraffa: “è molto difficile apprezzare l’importanza filosofica, se vi è, di Ricardo, perché egli stesso, al contrario dei filosofi della praxis, non si ripiegava mai a considerare storicamente il suo proprio pensiero. In generale poi egli non si pone mai dal punto di vista storico e come è stato detto considera come leggi naturali ed immutabili le leggi della società in cui vive. Ricardo era, e restò sempre un agente di cambio di mediocre cultura”)[23]. Schumpeter ricostruisce così lo sviluppo del pensiero ricardiano: Ricardo studia la Ricchezza delle nazioni; viene colpito da ciò che gli sembra un caos logico; si adopera per mettere ordine in quel caos; i Principi sono il risultato finale di questa critica creatrice. L’interesse di Ricardo era rivolto a quei risultati teorici che potevano avere una immediata importanza pratica. Per ottenerli, Ricardo smontò nei suoi elementi quel sistema generale; riunì il maggior numero possibile di parti e le mise in fresco, allo scopo di avere il maggior numero possibile di elementi ‘dati’: quindi accatastò una ipotesi semplificatrice dopo l’altra fino a quando, avendo tutto sistemato con queste ipotesi, non gli rimasero che poche variabili aggregative; tra le quali, date queste ipotesi, egli istituì delle semplici relazioni univoche, sicché alla fine i risultati vennero fuori quasi come tautologie. Schumpeter così conclude: “Si tratta di una teoria eccellente che mai può essere confutata, e che però è priva di significato. Chiameremo ‘vizio ricardiano’ l’abitudine di applicare risultati di questo genere alla soluzione di problemi pratici”[24].

Tuttavia in almeno due luoghi dei Principi risulta evidente la collocazione storica del ragionamento ricardiano: nella tesi che “i profitti saranno alti o bassi a seconda che i salari sono bassi o alti” e nel capitolo XXXI sull’influenza delle macchine. La prima tesi non è affatto una proposizione tautologica: se lo fosse, sarebbe già stata incorporata nella teoria economica neoclassica. Essa può infatti essere riscritta così: non è vero che a una data configurazione produttiva corrisponde una e una sola configurazione distributiva di equilibrio. Se si rimuove l’ipotesi extraeconomica di salario di sussistenza, ciò significa che tra salario e saggio dei profitti c’è una relazione inversa, e che dunque la configurazione distributiva prevalente in un dato momento non dipenderà soltanto dalle condizioni tecniche della produzione, ma anche dai rapporti di forza “tra le classi della comunità”. Per quanto riguarda l’influenza delle macchine sugli interessi delle diverse classi della società, Ricardo scrive che la scoperta e l’impiego delle macchine possono essere accompagnati da una diminuzione del prodotto lordo, “e questo, tutte le volte che si verifica, sarà di danno alla classe lavoratrice poiché una parte dei suoi membri verrà allontanata dal lavoro e la popolazione diventerà eccessiva rispetto ai fondi che devono darle impiego”; dunque “l’opinione della classe lavoratrice, secondo cui l’impiego delle macchine è spesso dannoso ai suoi interessi, non è fondata sul pregiudizio e sull’errore, ma è conforme ai corretti principi dell’economia politica”.

La teoria ricardiana del processo capitalistico di produzione, distribuzione e accumulazione, centrata sulle categorie del conflitto e del cambiamento tecnico, è dunque una teoria ad un tempo analiticamente rigorosa, storicamente determinata, e aperta alla storia e alla politica. Del tutto analoga, da questo punto di vista, è la teoria della distribuzione implicita in Produzione di merci a mezzo di merci. Anch’essa, come quella ricardiana, ammette un grado di libertà. Il saggio del profitto, tuttavia, può bene essere “dato” prima che i prezzi siano fissati. Secondo il suggerimento di Sraffa, “esso è quindi suscettibile di essere determinato da influenze estranee al sistema della produzione, e particolarmente dal livello dei tassi dell’interesse monetario”[25]. Il modo in cui Ricardo distingue tra variabili endogene e variabili esogene, tra variabili e dati, è quello che Gramsci chiama il metodo del ‘supposto che’, del ‘mercato determinato’[26]. Per Gramsci il modello, la legge, lo schema sono espedienti metodologici che aiutano a impadronirsi della realtà, espedienti critici per iniziarsi alla conoscenza. La grandezza degli economisti classici sta nel loro metodo del ‘supposto che’, del ‘mercato determinato’. Ciò non vuole dire che la loro visione sia naturalistica e deterministica, poiché il mercato determinato è appunto determinato dalla struttura fondamentale della società in questione. In questo senso l’economia classica è la sola ‘storicista’ sotto l’apparenza delle sue astrazioni e del suo linguaggio matematico. ‘Mercato determinato’ equivale a dire ‘determinato rapporto di forze sociali in una determinata struttura dell’apparato di produzione’. La stessa critica dell’economia politica parte dal concetto della storicità del mercato determinato e del suo automatismo, mentre gli economisti puri concepiscono questi elementi come eterni e naturali.

Circa Marx, un solo luogo: la legge della caduta del saggio dei profitti. L’argomentazione che viene imputata a Marx, correttamente per quanto riguarda la ‘legge in quanto tale’, è la seguente. Data la distribuzione del reddito tra capitalisti e lavoratori, i primi cercheranno di diminuire il reddito dei secondi sostituendoli con macchine. Questa pratica, per il singolo capitalista, è razionale: al singolo capitalista conviene che la forza lavoro sia pagata il meno possibile.

Tuttavia l’aumento del capitale costante rispetto al capitale variabile, a parità di ogni altra circostanza, se resta ferma la distribuzione del reddito tra capitalisti e lavoratori, per definizione farà diminuire il saggio del profitto. Alla legge della caduta tendenziale del saggio del profitto Marx intitola la terza sezione del libro terzo del Capitale. Questa sezione è divisa in tre capitoli: La legge in quanto tale, Cause antagonistiche e Sviluppo delle contraddizioni intrinseche alla legge. Nel capitolo sulla legge in quanto tale, Marx scrive che la progressiva tendenza alla diminuzione del saggio generale del profitto è solo una espressione peculiare al modo di produzione capitalistico per lo sviluppo progressivo della produttività sociale del lavoro. Tuttavia nella realtà questa diminuzione non è stata forte e rapida così come la legge in quanto tale indurrebbe a prevedere, dunque devono agire delle cause antagonistiche:

Qualora si confronti l’imponente sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale, con la produttività di tutti i periodi precedenti, si comprende come la difficoltà di spiegare la diminuzione del saggio del profitto venga ora sostituita dalla difficoltà opposta, consistente nello spiegare le cause per cui questa diminuzione non è stata più forte o più rapida. Devono qui giocare delle influenze antagonistiche, che contrastano o neutralizzano l’azione della legge in generale, dandole il carattere di una semplice tendenza; motivo questo per cui la caduta del saggio generale del profitto è stata da noi chiamata una caduta tendenziale.

Qui spiega bene il punto Sraffa:

La mia opinione è che la legge di Marx sia metodologica e non storica e quindi non verificabile statisticamente. Da quel che si sa, sembra che in ogni data società capitalistica sia il saggio del plusvalore che quello del profitto siano straordinariamente stabili nel tempo. Questo non contraddice la legge di Marx, quando ‘tendenziale’ sia inteso relativamente ad una particolare astrazione, cioè essa sia il risultato dell’azione di un gruppo di forze (accumulazione) supponendo che altre forze (progresso tecnico, invenzioni e scoperte) non operino. Il risultato è che la caduta tendenziale costringe i capitalisti a continue rivoluzioni tecniche per evitare la caduta del saggio del profitto[27].

Ecco, un modo di riaprire la teoria alla storia è quello di contrapporre alla legge in quanto tale le cause antagonistiche e lo sviluppo delle contraddizioni intrinseche alla legge, cause e sviluppo che si sottraggono a qualsiasi teorizzazione. Si potrebbe dire anche così: conviene trattare come variabili esogene quelle variabili che si considerano tanto importanti da non pretendere di poterle spiegare. È il punto di vista di Keynes: “è norma in un sistema complesso considerare causa causans quell’elemento che è più soggetto a improvvise e ampie fluttuazioni”. La Teoria generale è l’esempio migliore di questo rovesciamento: se si pretende a risultati rilevanti, si devono trattare come parametri, come grandezze non spiegate, quelle variabili che si considerano tanto importanti da non poterne dare una spiegazione. Le vere incognite sono i parametri, le convenzioni e i fattori di stabilità. Keynes distingue accuratamente, ma mai definitivamente, tra dati, variabili indipendenti e variabili dipendenti. La distinzione, tuttavia, è del tutto arbitraria da un punto di vista assoluto. Essa si regge soltanto sull’esperienza circa la variabilità dell’influenza dei diversi fattori, dei fattori prevalenti, sullo stato del sistema. Così come Marx critica la propria legge in quanto tale invocando, in nome della storia, le cause antagonistiche, Keynes critica la parte schematica della sua Teoria generale, là dove essa potrebbe suggerire la conclusione che il sistema è per sua natura violentemente instabile. Il corso effettivo degli eventi smentisce però questa conclusione ‘logica’: “una situazione intermedia, né disperata né soddisfacente, è la nostra sorte normale”. Keynes invoca dunque dei fattori di stabilità, epistemologicamente analoghi alle cause antagonistiche di Marx: “Poiché questi dati dell’esperienza non conseguono per necessità logica, si deve supporre che l’ambiente e le propensioni psicologiche del mondo moderno devono essere tali da produrre questi risultati”.

In Keynes, in Marx e in Ricardo (se se ne toglie la determinazione malthusiana del saggio di salario), le configurazioni reali dell’equilibrio capitalistico non sono riducibili a teoremi chiusi. È del tutto ragionevole spingere il più in là possibile la parte del ragionamento argomentabile mediante un calcolo; tuttavia si deve essere consapevoli della estrema complessità del corso effettivo degli eventi, della impossibilità di ridurlo a un qualsiasi schema analitico, e dunque della indecidibilità delle questioni politiche sulla sola base di un calcolo. Il tema più generale è dunque questo: quale sia lo spazio della storia, perciò della politica, che può essere cartografato secondo una geometria euclidea; e quale invece vada poi percorso con altri strumenti. Secondo Gramsci, “Poiché ‘pare’, per uno strano capovolgimento delle prospettive, che le scienze naturali diano la capacità di prevedere l’evoluzione dei processi naturali, la metodologia storica è stata concepita ‘scientifica’ solo se e in quanto abilita astrattamente a ‘prevedere’ l’avvenire della società. Quindi la ricerca delle cause essenziali, anzi della ‘causa prima’, della ‘causa delle cause’. In realtà si può prevedere ‘scientificamente’ solo la lotta, ma non i momenti concreti di essa, che non possono non essere risultati di forze contrastanti in continuo movimento, non riducibili mai a quantità fisse, perché in esse la quantità diventa continuamente qualità. Realmente si ‘prevede’ nella misura in cui si opera, in cui si applica uno sforzo volontario e quindi si contribuisce concretamente a creare il risultato ‘preveduto’. La previsione si rivela quindi non come un atto scientifico di conoscenza, ma come l’espressione astratta dello sforzo che si fa, il modo pratico di creare una volontà collettiva”.

Piace ricordare qui che secondo Giacomo Becattini, il metodo del ragionamento aperto era il metodo scientifico dell’economista a lui più caro, Alfred Marshall:

L’aspetto passivo è rappresentato dalla preoccupazione, sempre presente nel ragionamento marshalliano, di non entrare in conflitto col metodo deduttivo astratto, l’unico che consenta dimostrazioni rigorose. Marshall, come è noto, mette in guardia contro le lunghe catene deduttive e non si stanca mai di diffidare dall’uso troppo estensivo della matematica in economia, ma non vi è dubbio che durante tutta la sua vita, egli fece un uso personale assai intenso della logica deduttiva matematica. Il criterio che pare guidarlo in questo aspetto difensivo della sua metodologia sembra essere il seguente: sfruttare ogni apertura del modello matematico, per inserirvi quegli aspetti dell’attività umana che sfuggono alla teoria statica, senza mai entrare in conflitto formale col metodo deduttivo - astratto. È in ragione dell’applicazione coerente di questo canone metodologico, che il sistema di Marshall - a differenza, da un lato, di quello di Walras, dall’altro di quello di Smith - presenta contemporaneamente una struttura logica assai compatta ed un vivo colore di realtà e di vita[28].

Università di Pavia, agosto 2002

NOTE


[2] Vedi F. Ranchetti, Dal lavoro all’utilità. Critica dell’economia politica classica e costituzione della teoria economica moderna, in G. Lunghini (a cura di), Valori e prezzi, Biblioteca dell’economista, ottava serie, UTET, Torino 1993, e G. Lunghini, Political Economy and Economics, in H. D. Kurz e N. Salvadori (a cura di) The Elgar Companion to Classical Economics, Elgar, Cheltenham 1998

[3] Il termine ‘rilevanza’ è ambiguo. Lo uso qui in questo senso: una proposizione è rilevante, se consiste in un risultato analiticamente corretto (‘corretto’ secondo una qualche logica accettata o non rifiutabile), che pone un problema politico. La tesi di J. M. Keynes circa la normalità di un equilibrio di sottooccupazione è teoricamente ineccepibile, e pone un problema di politica economica.

[4] F. Y. Edgeworth, Mathematical method in political economy, in Palgrave’s Dictionary of Political Economy, Macmillan, Londra 1894-1899.

[5] J. Swift, Viaggi di Gulliver in vari paesi lontani del mondo, Rizzoli, Milano 1975

[6] G. Debreu, Mathematical economics, in J. Eatwell, M. Milgate e P. Newman (a cura di), The New Palgrave. A Dictionary of Economics, Macmillan, Londra 1987.

[7] Sull’uso della matematica in economia come antidoto all’ideologia, vedi l’introduzione Sull’ideologia di M. Dobb alla sua Storia del pensiero economico, Editori Riuniti, Roma 1974

[8] 7 la sua Storia del pensiero economico, Editori Riuniti, Roma 1974

[8] K. Marx, Il capitale, Libro III, Editori Riuniti, Roma 1965

[9] Viene qui in mente la difforme tesi di Sraffa:”Si dovrebbe sottolineare la distinzione tra due tipi di misurazione. Da un lato vi era quella cui erano soprattutto interessati gli statistici. Dall’altro vi era la misurazione nella teoria. Le misurazioni degli statistici erano solamente approssimate e fornivano una base appropriata per la soluzione dei problemi dei numeri indici. Le misurazioni teoriche richiedono una precisione assoluta. Ogni imperfezione in queste misurazioni teoriche non solo sconvolgeva, ma distruggeva l’intera base teorica”. Cfr. F. A. Lutz e D. C. Hague (a cura di), The Theory of Capital, St. Martin Press, Londra 1961.

[10] Una citazione da N. Georgescu-Roegen: “Erwin Schroedinger ha espresso l’idea secondo cui la difficoltà di analizzare il processo della vita non risiede nella complicazione della matematica, ma nel fatto che tale processo è troppo complicato per la matematica. [...] Il capitalismo, come tutti gli altri sistemi economici che l’hanno preceduto e che saranno prodotti dall’evoluzione continua della società umana, è una forma di vita. Alcuni aspetti del suo funzionamento si adattano perfettamente all’analisi matematica. Tuttavia, quando si arriva al problema della sua evoluzione, della sua trasformazione in un’altra forma, la matematica risulta essere uno strumento troppo rigido e troppo semplice per trattarlo”. Vedi N. Georgescu-Roegen, Dimostrazioni matematiche del crollo del capitalismo, in P. M. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, Boringhieri, Torino 1970

[11] J. Hicks, Keynes e i classici: suggerimento di una interpretazione, in M. G. Mueller (a cura di), Problemi di macroeconomia, Etas Kompass, Milano 1966.

[12] Dopo un lungo silenzio, agli inizi del 1630, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo è ultimato, tuttavia l’imprimatur sarà accordato soltanto a condizione che “non mai si conceda la verità assoluta” (alla posizione copernicana), ma se ne discuta solo come di “matematica considerazione”, in grado di “salvare le apparenze”. Galileo si adegua. Nel Dialogo, che esce nel 1632, Galileo prende le parti di Copernico, però cautamente “procedendo in pura ipotesi matematica”. Vedi l’articolo di U. Bottazzini pubblicato nel supplemento domenicale del SOLE- 24 ORE del 21 febbraio 1999.

[13] J. M. Keynes, La teoria generale dell’occupazione, in J. M. Keynes, La fine del laissez-faire e altri scritti economico-politici, Bollati Boringhieri, Torino 1991

[14] Anche autori non neoclassici manifestano un pregiudizio scientista nei confronti del concetto keynesiano di ‘aspettative’. M. Dobb, nella sua Storia del pensiero economico, cit., considera la nozione di efficienza marginale del capitale il punto più vulnerabile della Teoria generale. J. Robinson, pur ammettendo che “senza questi concetti è difficile vedere in quale modo la Teoria generale avrebbe potuto stare in piedi”, giudica la preferenza per la liquidità, la propensione al consumo e l’efficienza marginale del capitale, concetti ‘inafferrabili’, idee ‘metafisiche’ (J. Robinson, Ideologie e scienza economica, Sansoni, Firenze 1966). Secondo P. Garegnani, l’uso di categorie ‘non osservabili’ priverebbe la teoria di ‘risultati definiti’ (P. Garegnani, Notes on Consumption, Investment and Effective Demand: a Reply to Joan Robinson, “Journal of Economics”, 1979)

[15] L’incipit è il seguente: “Anche il lettore meno caritatevole dovrà ammettere che la piacevolezza della Teoria generale dell’occupazione del Signor Keynes è notevolmente rafforzata dalla sua vena satirica. È però anche vero che questa Dunciad [il poema satirico di A. Pope] ha lasciato perplessi molti lettori, etc”.

[16] “Buona scienza è buona conversazione”: vedi D. N. McCloskey, La retorica dell’economia. Scienza e letteratura nel discorso economico, Einaudi, Torino 1988

[17] Vedi J. M. Keynes, The General Theory and After, in “The Collected Writings of J. M. Keynes”, Macmillan, Londra 1973 sgg., vol. 13; e J. Hicks, Towards a More ‘General Theory’, “Economia politica”, 1986

[18] P. Garegnani, Mutamento delle tecniche, in G. Lunghini (a cura di), Produzione, capitale e distribuzione, ISEDI, Milano 1975.

[19] D. Levhari, A Nonsubstitution Theorem and Switching of Techniques, “Quarterly Journal of Economics”, 1965

[20] P. Samuelson, Un riassunto, in Produzione, capitale e distribuzione, cit.

[21] J. Robinson, La misura del capitale: fine di una controversia, ibidem.

[22] Non credo che la questione si possa liquidare con la brevità di B. Croce: “L’Economia non cangia natura quali che siano gli ordinamenti sociali, capitalistici o comunistici, quale che sia il corso della storia, al modo stesso che non cangia natura l’aritmetica pel variare delle cose da numerare. O bisognerà comandare all’aritmetica di non permettere che quattro e quattro facciano otto, e di aspettare quel che deciderà in proposito lo Stato, che è il Dovere e che è Dio?”. Vedi G. Lunghini, Benedetto Croce e l’economia politica, “Atti della Accademia Nazionale dei Lincei”, serie IX, volume XIII, Roma 2002. Sull’argomento vedi P. Ciocca (a cura di), Le vie della storia nell’economia. Gli economisti e il passato, il Mulino, Bologna 2002, e in particolare l’introduzione dello stesso Ciocca: Clio, nella teoria economica.

[23] P. Sraffa, Lettere a Tania per Gramsci, Editori Riuniti, Roma 1991.

[24] J. A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, Bollati Boringhieri, Torino 1990

[25] Vedi il § 44 di P. Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci, Einaudi, Torino 1960.

[26] A. Gramsci, Scritti di economia politica, Bollati Boringhieri, Torino 1994. Vedi anche G. Lunghini, David Ricardo: La storia come ordine naturale, “Rivista di storia economica”, 2001

[27] P. Sraffa, Lettere a Tania per Gramsci, cit

[28] G. Becattini, Il concetto d’industria e la teoria del valore, Boringhieri, Torino 1962