DAVID RICARDO: LA STORIA COME ORDINE NATURALE

Giorgio Lunghini

Non penso che Ricardo abbia fatto molte letture storiche. La difficoltà che si ha con lui è affine a quella che io provo, a questo riguardo, con i miei studenti americani. Essi mancano del senso storico che nessuno studio pratico può dare. Questa è la ragione per cui è molto più facile farne dei teorici che degli economisti.

J. A. Schumpeter

              Nella nota redazionale circa questi scritti su storia e teoria nei grandi economisti, si ricordava che la storia economica ha assunto dignità scientifica e autonomia disciplinare e accademica, quale branca di analisi delle società capitalistiche, circa un secolo dopo la teoria economica. Dunque Ricardo non poteva interrogare la storia economica, egli era immerso nella Storia e cedendo al suo vizio ne cercava le leggi: “La determinazione delle leggi che regolano questa distribuzione [del prodotto della terra tra le classi della comunità] è il problema fondamentale dell’economia politica”. L’ambiguità epistemologica di Ricardo è questa: egli indaga il “corso naturale della rendita, del profitto e dei salari”, come se rendita, profitto e salari, che non sono nomi ma categorie storicamente determinate, avessero poi un “corso naturale”. Ricardo trasforma la storia in natura, riducendo a mito un mercato determinato.

               Una scienza che fa onore al pensiero

               C’è qui, a proposito della storia, una differenza importante tra le diverse epoche e visioni della teoria economica. Per gli economisti classici, da Petty a Ricardo, storia c’è stata (si pensi alla distinzione tra uno “stadio selvaggio e primitivo della società” e uno “stadio più progredito della società”); tuttavia con l’avvento del capitalismo la storia è finita o finirà con lo stato stazionario cui conduce, secondo il Ricardo che dall’economia si rifugia nella chimica organica, la necessaria caduta del saggio dei profitti (“L’uomo dalla giovinezza passa alla virilità, poi invecchia e muore; ma non è questo il cammino delle nazioni. Una volta giunte a uno stato di massimo vigore, il loro ulteriore progresso può certo essere arrestato, ma la loro tendenza naturale è di continuare per epoche intere a mantenere inalterate la loro ricchezza e la loro popolazione”). Nei neoclassici la storia semplicemente non conta e non deve contare, poiché si tratterebbe di una terra sconosciuta o perché rinviare a essa potrebbe ridurre la teoria economica a mera descrizione dei fatti. Negli eretici, massimamente in Marx e in Keynes, l’analisi ha invece e sistematicamente uno spessore storico, poiché ben definito ne è l’oggetto: essi non parlano di un sistema economico in generale, ma di quel particolare sistema economico e sociale che è il capitalismo.

               Quella ambiguità, tuttavia, è feconda. Senza di essa, senza la credenza in un ordine naturale affine a quello che regge “il sistema planetario, che presenta all’occhio sempre solo movimenti irregolari, ma le cui leggi possono essere conosciute”, l’economia politica non avrebbe potuto costituirsi in disciplina autonoma, che scientificamente cerca di scoprire le ‘leggi naturali’ di un ordine economico autoregolato. “Una scienza”, secondo Hegel, “che fa onore al pensiero, poiché trova le leggi di una massa di casualità. È uno spettacolo interessante come tutti i rapporti sono qui interagenti, come le sfere particolari si raggruppano, influiscono su altre e ricevono da esse promozione o impedimento. Questo reciproco confluire, a cui dapprima non si crede, poiché tutto sembra affidato all’arbitrio del singolo, è eminentemente degno di nota, e ha una affinità col sistema planetario, che presenta all’occhio sempre solo movimenti irregolari, ma le cui leggi possono essere conosciute”.

               Il vizio ricardiano (e di Keynes)

              La definizione del ‘vizio ricardiano’ si deve a Schumpeter. Il giudizio di Schumpeter circa Ricardo è severo, e per quanto riguarda i rapporti tra storia e teoria è curiosamente simile a quello di Piero Sraffa. Nella Storia dell’analisi economica Schumpeter scrive che di solito si definisce Ricardo un utilitarista, ma che in verità egli non fu tale. Questo non perché egli avesse un’altra filosofia, ma perché quella mente positiva e indaffarata non ne aveva nessuna. Analogamente, non è che egli avesse una sociologia inadeguata, bensì non ne ebbe nessuna: ci furono certi problemi economici che affascinarono il suo potente intelletto, ma la struttura sociale egli la considerò data. Data la natura della sua teoria, questa non sarebbe stata migliorata con una bardatura sociologica. Ma naturalmente questo vale soltanto per la sua teoria in quanto tale, non per le sue raccomandazioni: “in queste notiamo mancanza di penetrazione nelle forze motrici del processo sociale e per di più mancanza di senso storico”.

              Schumpeter ricostruisce così lo sviluppo del pensiero ricardiano: Ricardo studia la Ricchezza delle nazioni; viene colpito da ciò che gli sembra un caos logico; si adopera per mettere ordine in quel caos; i Principi sono il risultato finale di questa critica creatrice. L’interesse di Ricardo era rivolto a quei risultati teorici che potevano avere una immediata importanza pratica (qui davvero Ricardo somiglia a Keynes: per Keynes l’economia politica è una miscela di teoria economica e di arte del governo). Per ottenere quei risultati Ricardo smontò nei suoi elementi quel sistema generale; riunì il maggior numero possibile di parti e le mise in fresco, allo scopo di avere il maggior numero possibile di elementi ‘dati’: quindi accatastò una ipotesi semplificatrice dopo l’altra fino a quando, avendo tutto sistemato con queste ipotesi, non gli rimasero che poche variabili aggregative; tra le quali, date queste ipotesi, egli istituì delle semplici relazioni univoche, sicché alla fine i risultati vennero fuori quasi come tautologie. Schumpeter così conclude: “Si tratta di una teoria eccellente che mai può essere confutata, e che però è priva di significato. Chiameremo ‘vizio ricardiano’ l’abitudine di applicare risultati di questo genere alla soluzione di problemi pratici”. (Lo stesso vizio, secondo Schumpeter, sarebbe stato coltivato da Lord Keynes: circa i sistemi adoperati da Ricardo e da Keynes per ottenere il risultato finale, “essi furono fratelli in spirito”).

              Conflitto e cambiamento

              In almeno due luoghi dei Principi risulta evidente la collocazione storica del ragionamento ricardiano: nella tesi che “i profitti saranno alti o bassi a seconda che i salari sono bassi o alti” e nel capitolo XXXI sull’influenza delle macchine. La prima tesi non è affatto una proposizione ‘tautologica’: se lo fosse, sarebbe già stata incorporata nella teoria economica neoclassica. Essa può infatti essere riscritta così: non è vero che a una data configurazione produttiva corrisponde una e una sola configurazione distributiva di equilibrio. Se si rimuove l’ipotesi extraeconomica di salario di sussistenza, ciò significa che tra salario e saggio dei profitti c’è una relazione inversa, e che dunque la configurazione distributiva prevalente in un dato momento non dipenderà soltanto dalle condizioni tecniche della produzione, ma anche dai rapporti di forza “tra le classi della comunità”. “I profitti”, d’altra parte, “hanno la tendenza naturale a diminuire, perché con lo sviluppo della società e della ricchezza, la quantità supplementare di viveri richiesta viene ottenuta col sacrificio di quantità sempre maggiori di lavoro. Questa tendenza, questa gravitazione per così dire dei profitti, è fortunatamente arrestata, a intervalli ricorrenti, dai progressi delle macchine connesse con la produzione dei beni di prima necessità, come pure dalle scoperte che si fanno nella scienza dell’agricoltura, che ci consentono di fare a meno di una parte del lavoro prima necessario e di ridurre quindi il prezzo dei beni di prima necessità del lavoratore”.

              Per quanto riguarda l’influenza delle macchine sugli interessi delle diverse classi della società, Ricardo scrive che la scoperta e l’impiego delle macchine possono essere accompagnati da una diminuzione del prodotto lordo, “e questo, tutte le volte che si verifica, sarà di danno alla classe lavoratrice poiché una parte dei suoi membri verrà allontanata dal lavoro e la popolazione diventerà eccessiva rispetto ai fondi che devono darle impiego”; dunque “l’opinione della classe lavoratrice, secondo cui l’impiego delle macchine è spesso dannoso ai suoi interessi, non è fondata sul pregiudizio e sull’errore, ma è conforme ai corretti principi dell’economia politica”. Ora a me pare difficile sostenere che una teoria del processo capitalistico di produzione, distribuzione e accumulazione, centrata sulle categorie del conflitto e del cambiamento tecnico, non sia una teoria storicamente determinata e necessariamente aperta all’analisi storica.

            Regolarità e necessità

            Quale fosse la filosofia di Ricardo, è questione che era già stata posta da Gramsci, nella nota dei Quaderni su Regolarità e necessità:

Come è sorto, nel fondatore della filosofia della praxis, il concetto di regolarità e di necessità nello sviluppo storico? Non pare che possa pensarsi a una derivazione dalle scienze naturali, ma pare debba invece pensarsi a una elaborazione di concetti nati nel terreno dell’economia politica, specialmente nella forma e nella metodologia che la scienza economica ricevette da Davide Ricardo.

            La riflessione di Gramsci sulla natura delle “leggi economiche” è precoce e costante. Nella nota su Il mio cameriere sostiene il fatale andare delle leggi economiche, Gramsci scrive che di “leggi” economiche si può bensì parlare, ma “questa benedetta fatalità è uno spauracchio che convince solo molto relativamente, perché tutte le leggi, anche quelle che paiono più metafisiche, più impalpabili, sono in realtà l’esponente di uno stato di fatto, le cui responsabilità si possono impersonare o meglio, se si potesse dire, inclassare”. Può darsi, suggerisce Gramsci, che la scienza economica sia una scienza sui generis, anzi unica nel suo genere. Essa non è né una scienza naturale né una scienza “storica” nel senso comune della parola. Il modello, la legge, lo schema sono espedienti metodologici che aiutano a impadronirsi della realtà, espedienti critici per iniziarsi alla conoscenza. La grandezza degli “economisti classici” sta nel loro metodo del “supposto che”, del “mercato determinato”. Ciò non vuol dire che la loro visione sia “naturalistica” e “deterministica”, poiché il “mercato determinato” è appunto determinato dalla struttura fondamentale della società in questione: in questo senso l’economia classica è la sola “storicista” sotto l’apparenza delle sue astrazioni e del suo linguaggio matematico. “Mercato determinato” equivale a dire “determinato rapporto di forze sociali in una determinata struttura dell’apparato di produzione”. La stessa “critica” dell’economia politica parte dal concetto della storicità del “mercato determinato” e del suo “automatismo”, mentre gli economisti puri concepiscono questi elementi come “eterni”, come “naturali”. Circa Ricardo, Gramsci scrive a Tania nella lettera del 30 maggio 1932:

Ti voglio riferire una serie di osservazioni, perché, se del caso, le riscriva a Piero domandandogli qualche indicazione bibliografica che mi permetta di allargare il campo delle meditazioni e di orientarmi meglio. Vorrei sapere se esiste una qualche pubblicazione speciale, anche in lingua inglese, sul metodo di ricerca nelle scienze economiche proprio del Ricardo e sulle innovazioni che Ricardo ha introdotto nella critica metodologica. Penso che specialmente intorno al centenario della sua morte, dieci anni fa, sia uscita una ricca letteratura in proposito e che ci sia una qualche probabilità di  trovare ciò che precisamente fa al caso mio. Il corso delle mie riflessioni è questo: - si può dire che Ricardo abbia avuto un significato nella storia della filosofia oltre che nella storia della scienza economica, dove è certo di primo ordine? E si può dire che Ricardo abbia contribuito a indirizzare i primi teorici della filosofia della praxis al loro superamento della filosofia hegeliana e alla costruzione del loro nuovo storicismo, depurato di ogni traccia di logica speculativa? A me pare che si potrebbe tentare di dimostrare questo assunto e che varrebbe la pena di farlo. Prendo lo spunto dai due concetti, fondamentali per la scienza economica, di “mercato determinato” e di “legge di tendenza” che mi pare siano dovuti al Ricardo e ragiono così: - non è forse da questi due concetti che si è preso motivo per ridurre la concezione “immanentistica” della storia, - espressa con linguaggio idealistico e speculativo della filosofia classica tedesca, - in una “immanenza” realistica immediatamente storica, in cui la legge di causalità delle scienze naturali è stata depurata del suo meccanicismo e si è si è sinteticamente identificata col ragionamento dialettico dell’hegelismo? - Forse tutto questo nesso di pensieri appare ancora un po’ torbido, ma mi importa appunto che sia compreso nel suo insieme, sia pure approssimativamente, per quanto basta per sapere se il problema è stato intravisto e studiato da qualche studioso di Ricardo. Occorre ricordare come lo stesso Hegel abbia, in altri casi, visto questi nessi necessari tra diverse attività scientifiche, e anche tra attività scientifiche e attività pratiche. Così, nelle Lezioni di storia della filosofia egli ha trovato un nesso tra la Rivoluzione francese e la filosofia di Kant, di Fichte e di Schelling, e ha detto che “solo due popoli, i tedeschi e i francesi, per opposti che siano tra loro, anzi appunto perché opposti, hanno preso parte alla grande epoca della storia universale” della fine del secolo XVIII e dei primi del secolo XIX, poiché il nuovo principio in Germania “ha fatto irruzione come spirito e concetto” mentre in Francia si è esplicato “come realtà effettuale”. Dalla Sacra famiglia si vede come questo nesso posto da Hegel tra l’attività politica francese e quella filosofica tedesca sia stato fatto proprio dai teorici della filosofia della praxis. Si tratta di vedere come e in che misura all’ulteriore sviluppo della nuova teoria abbia contribuito l’economia classica inglese, nella forma metodologica elaborata dal Ricardo. Che l’economia classica inglese abbia contribuito allo sviluppo della nuova filosofia è comunemente ammesso, ma si pensa di solito alla teoria ricardiana del valore. A me pare che si debba vedere più oltre e identificare un apporto che direi sintetico, cioè che riguarda l’intuizione del mondo e il modo di pensare e non solo analitico, riguardante una dottrina particolare, sia pure fondamentale. Piero, nel suo lavoro per l’edizione critica delle opere del Ricardo, potrebbe raccogliere un materiale prezioso in proposito. In ogni modo, veda se esiste una qualche pubblicazione che tratti questi argomenti o mi sia di aiuto nelle mie condizioni carcerarie, mentre cioè non posso fare ricerche sistematiche di biblioteca.

            Sraffa, tramite Tania, risponde il 21 giugno 1932:

Torno alla lettera su Ricardo: Nino può immaginare quanto mi abbiano interessato le sue osservazioni. Alla principale osservazione, riguardante il significato del Ricardo nella storia della filosofia, bisogna che ci pensi - e per comprenderla bene bisogna che io studi più che gli scritti di Ricardo, quelli dei primi teorici della filosofia della praxis. Vorrei però avere qualche spiegazione sui due concetti di “mercato determinato” e di “legge di tendenza”, che Nino chiama fondamentali e che, mettendoli fra virgolette, sembra attribuire loro un significato tecnico: confesso che non capisco bene a che cosa si riferiscano, e quanto al secondo, io ero abituato a considerarlo piuttosto come una delle caratteristiche dell’economia volgare. Ad ogni modo è molto difficile apprezzare l’importanza filosofica, se vi è, di Ricardo, perché egli stesso, al contrario dei filosofi della praxis, non si ripiegava mai a considerare storicamente il suo proprio pensiero. In generale poi egli non si pone mai dal punto di vista storico e come è stato detto considera come leggi naturali ed immutabili le leggi della società in cui vive. Ricardo era, e restò sempre un agente di cambio di mediocre cultura: prima di mettersi, fra i 30 e i 40 anni allo studio dell’economia, aveva studiato per conto suo, dopo i 25 anni, chimica e geologia: lesse delle opere filosofiche (Bayle e Locke) dopo i 40 anni, per consiglio di James Mill. Ma anche dai suoi scritti è chiaro, mi sembra, che l’unico elemento culturale che vi si può trovare, è derivato dalle scienze naturali.

              La scienza infernale

              La diade ordine naturale - storia evoca immediatamente il tema dello statuto epistemologico delle leggi dell’economia politica: se a garanzia della loro scientificità esse debbano esibire una precisione assoluta, così come si suppone sia per le leggi delle scienze fisiche, matematiche e naturali; oppure se le scienze morali possano, o addirittura debbano, consentirsi delle approssimazioni. Circa Ricardo, le dubitose considerazioni di Sraffa sono autorevoli per definizione. Nessuno conosceva le opere di Ricardo meglio di Sraffa, tuttavia l’ipotesi di Gramsci è ben fondata ed è significativamente analoga a quella di György Lukács, ne La distruzione della ragione e ne Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, per quanto riguarda i rapporti tra l’economia politica classica, Hegel e quindi Marx, e in particolare per quanto riguarda la natura delle leggi scientifiche, delle approssimazioni e delle ‘tendenze’.

              L’economia politica classica entra nella cultura moderna attraverso la filosofia tedesca (mentre l’economica ne esce quando si fa disciplina speciale, adotta la forma matematica e rifiuta il linguaggio ordinario). Lukács rileva come Smith e Ricardo formulino bensì, con franchezza e disinvoltura, tutte le contraddizioni in cui s’imbattono, con lo spregiudicato amore della verità di pensatori di prim’ordine. Poco li preoccupa che la constatazione di un rapporto contraddica ad un altro rapporto da loro stessi stabilito. La contraddittorietà, tuttavia, è presente solo materialmente, solo de facto, e nulla è più estraneo agli economisti classici inglesi di vedere nella contraddittorietà stessa il dato fondamentale della vita economica e quindi della metodologia dell’economia politica; mentre la coscienza di questa contraddittorietà è proprio il problema centrale della filosofia classica tedesca. Secondo Lukács è estremamente verosimile che proprio lo studio dell’economia politica classica abbia significato una svolta nello sviluppo di Hegel, con l’individuazione del problema del lavoro come forma centrale dell’attività umana e come molla dell’evoluzione che, attraverso lo sviluppo delle forze produttive associato allo sviluppo della divisione del lavoro, fa dell’uomo un prodotto della sua stessa attività: “Fabbriche e manifatture fondano la loro esistenza proprio sulla miseria di una classe”.

              Hegel, ricorda Lukács, indica “il regno delle leggi” come “l’immobile riproduzione del mondo che esiste o che si manifesta in fenomeni”. Di conseguenza “il fenomeno è, in contrapposizione alla legge, la totalità, poiché contiene la legge, ma anche qualcosa di più, cioè l’elemento della forma che muove se stessa”: “la legge è quindi il fenomeno essenziale”. La legge coglie ciò che è immobile, e perciò la legge, ogni legge è angusta, incompleta, approssimativa. (Scrive Ricardo, nel capitolo Del valore: “Ogni progresso in materia di macchine, di attrezzi, di edifici, di coltivazione dei prodotti agricoli risparmia lavoro e ci consente di produrre con maggiore facilità la merce a cui si applica il perfezionamento, e di conseguenza ne modifica il valore. Nello stimare, quindi, le cause delle variazioni nel valore delle merci, pur essendo errato omettere completamente la considerazione dell’effetto prodotto da un aumento o da una diminuzione della quantità di lavoro, sarebbe altrettanto erroneo attribuirgli molta importanza; di conseguenza, nel prosieguo di quest’opera, pur facendo occasionalmente riferimento a questa causa di variazione, considererò che tutte le grandi variazioni che hanno luogo nel valore relativo delle merci siano prodotte dalla quantità più o meno grande di lavoro che da un’epoca all’altra può essere richiesta per produrle”. Secondo W. H. Auden, “la scienza infernale si differenzia dalla scienza umana in quanto le manca il concetto di approssimazione: la scienza infernale crede nella esattezza delle sue leggi”. Di parere opposto è Sraffa: “Le misurazioni teoriche richiedono una precisione assoluta. Ogni imperfezione in queste misurazioni teoriche non solo sconvolge, ma distrugge l’intera base teorica”).

              Per Lukács la dialettica di Hegel è lo stadio più alto della filosofia borghese, il suo più energico tentativo di creare un metodo che possa garantire una siffatta approssimazione della riproduzione teoretica della realtà a questa stessa realtà. In questo quadro è determinante l’apporto dell’economia politica classica. È certamente vero che “Ricardo, al contrario dei filosofi della praxis, non si ripiegava mai a considerare storicamente il suo proprio pensiero”, ma è anche vero che i filosofi (e gli economisti) - ne siano coscienti o meno, che lo vogliano o che non lo vogliano - sono sempre legati anche interiormente alla loro società, a una determinata classe di essa, alle aspirazioni progressive o retrograde di questa: “quanto più un pensatore è originale e importante, tanto più è figlio del suo tempo, del suo paese, della sua classe”.

            L’età dell’oro

            Come ho accennato all’inizio, l’economia politica poteva acquistare autonomia teoretica e lo statuto di ‘scienza’ soltanto con l’affermarsi del modo capitalistico di produzione. Una scienza ha bisogno di un oggetto e l’economia politica si può costituire in scienza, in scienza del capitalismo, soltanto quando acquista autonomia l’attività economica. L’attività economica acquista autonomia quando da finalizzata ad altro (alla produzione di valori d’uso e al consumo signorile) diviene fine a se stessa e alla propria impersonale riproduzione mediante la produzione di merci anziché di beni, non di utilità ma di profitti. Questo modo di produzione, come qualsiasi altro, è animato da contraddizioni (altri preferirebbero dire delle opposizioni reali), e gli economisti classici non hanno paura di coglierle. Così Marx scrive di Ricardo nelle Teorie sul plusvalore:

Se la concezione di Ricardo è in complesso nell’interesse della borghesia industriale, ciò soltanto perché e nella misura in cui l’interesse di essa coincide con quello della produzione o dello sviluppo produttivo del lavoro umano. Dove esso viene in contrasto con quelli, egli è altrettanto privo di riguardi verso la borghesia, come lo è, d’altro lato verso il proletariato e l’aristocrazia.

              La capacità degli economisti classici di cogliere le contraddizioni della società civile di cui sono parte è il frutto della loro ambiguità epistemologica, della loro credenza in una storia che si impone come ordine naturale. Questa credenza si regge sulla falsa premessa, oggi volgarmente riproposta, che con l’avvento del modo capitalistico di produzione la storia sia finita. Senza questa premessa l’economia politica non avrebbe potuto costituirsi in scienza autonoma. Proprio la storia, tuttavia, ne interromperà l’età dell’oro:

L’economia politica, in quanto è borghese, cioè in quanto concepisce l’ordinamento capitalistico, invece che come grado di svolgimento storicamente transitorio, addirittura all’inverso come forma assoluta e definitiva della produzione sociale, può rimanere scienza soltanto finché la lotta delle classi rimane latente o si manifesta soltanto in fenomeni isolati. Prendiamo l’Inghilterra. La sua economia politica classica cade nel periodo in cui la lotta tra le classi non era ancora sviluppata. Il suo ultimo grande rappresentante, il Ricardo, fa infine, consapevolmente, dell’opposizione tra gli interessi delle classi, tra salario e profitto, tra il profitto e la rendita fondiaria, il punto di partenza delle sue ricerche, concependo ingenuamente questa opposizione come legge naturale della società. Ma in tal modo la scienza borghese dell’economia era anche arrivata al suo limite insormontabile. ... Col 1830 subentrò la crisi che decise una volta per tutte. La borghesia aveva conquistato il potere politico in Francia e in Inghilterra. Da quel momento la lotta tra le classi raggiunse, tanto in pratica che in teoria, forme via via più pronunciate e minacciose. Per la scienza economica borghese quella lotta suonò la campana a morto.

Università di Pavia, aprile 2001

Riferimenti bigliografici

Auden W.H., Il jolly nel mazzo, Garzanti, Milano 1972.

Gramsci A., Scritti di economia politica, Bollati Boringhieri, Torino 1994.

Lukács G., La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959.

Lukács G., Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, Einaudi, Torino 1960.

Marx K., Il capitale. Critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1967.

Marx K., Storia dell’economia politica. Teorie sul plusvalore, Editori Riuniti, Roma 1993.

Ricardo D., Sui principi dell’economia politica e della tassazione, ISEDI, Milano 1976.

Schumpeter J. A., Storia dell’analisi economica, Bollati Boringhieri, Torino 1990.

Sraffa P., Lettere a Tania per Gramsci, Editori Riuniti, Roma 1991.