INNOVAZIONE
TECNOLOGICA Francesco Campanella I. Il tema “Innovazione tecnologica e mercato del lavoro” rientra nell’elenco degli argomenti alla moda. Tutti ne discutono con eccessiva animazione, tutti esprimono convinzioni forti e decise, tutti si dilettano a formulare previsioni profetiche su quanto accadrà nei prossimi anni. Per questo il tema procura, al commentatore critico ma non di staccato, un forte disagio. Quando a discutere sono tutti, è difficile comprendere e confrontare tesi che si ispirano a discipline diverse (dall’ingegneria alla filosofia, dalla fisica alla metafisica); è impossibile valutare o criticare affermazioni che non ammettono contraddittorio (la fede o il disprezzo diventano sentimenti totalizzanti quando si sconfina su certi terreni); è inevitabile scadere sul piano della apologia trionfalistica (quella secondo cui il progresso tecnico ci procurerà in futuro maggior benessere e liberazione dalla fatica del lavoro), oppure sul piano del pessimismo lamentoso (quella secondo cui la rivoluzione tecnologica che stiamo subendo accrescerà la dimensione della disoccupazione e accentuerà il divario tra le classi sociali). Per chi non è ingegnere e dunque non è capace di fare discorsi tecnici, per chi non è filosofo e dunque non è in grado di dire cose profonde, per chi non è un fisico capace di accettare la realtà come un dato di fatto e neppure un metafisico portato a sognare una società futura disegnata a misura dei propri ideali, ma soltanto un economista consapevole del fatto che sull’argomento “innovazione tecnologica e mercato del lavoro”, o meglio sul tema “introduzione delle macchine e occupazione”, non è possibile dire nulla di certo stando allo stato attuale delle conoscenze teoriche, il disagio diventa davvero notevole. Lo stato attuale delle conoscenze economiche non è molto diverso da quello vigente duecento anni fa, all’epoca in cui i lavoratori furono sottratti all’aratro e soggiogati ai telai; oppure da quello dominante centocinquant’anni fa quando, nelle manifatture, le macchine erano semplici attrezzi al servizio di lavoratori che conservavano un proprio “mestiere” e che possedevano una buona padronanza dei processi produttivi loro assegnati; o dalle conoscenze disponibili cento anni fa quando, con il sistema di fabbrica, i lavoratori divennero semplici strumenti al servizio di macchine sofisticate e funzionali a quella esasperata parcellizzazione dei compiti che non chiedeva alcuna capacità professionale dei salariati, anzi la aborriva. Come è successo a quei tempi, così anche oggi gli economisti non sono in grado di dire nulla di certo circa gli effetti sul mercato del lavoro e sull’occupazione della nuova rivoluzione tecnologica e dell’ennesima fase di transizione che paiono interessare l’economia contemporanea. Tuttavia, le dichiarazioni di “incertezza” appena fatte, da tenersi sempre ben presenti, non implicano che si debba rinunciare ad esaminare alcune ben determinate e deliziose questioni. 2. Le questioni determinate e deliziose che si possono sollevare senza scadere nel “già sentito” chiamano in causa il recente documento elaborato dal Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale dal titolo “La politica occupazionale per il prossimo decennio”, documento nel quale si disegna un certo scenario circa l’impatto sul mercato del lavoro dell’attuale rivoluzione tecnologica. Senza accettare il piano dei giudizi trionfalistici o pessimistici circa lo scenario presente e quello futuro descritti in quel documento, è sufficiente limitarsi a rileggere le tesi formulate dal Ministero preposto alla tutela del lavoro per raggiungere i confini dello stato dell’arte e per conoscere le certezze politiche che influiranno sulle nostre menti nei prossimi anni. Secondo il documento ministeriale, se v’è “concordanza di vedute nel riconoscere che le società industriali avanzate sono investite da innovazioni rivoluzionarie di portata assimilabile solo ad altre grandi trasformazioni epocali”, è al contempo “innegabile che una notevole dose di incertezza rimane circa gli esiti finali delle trasformazioni in atto”. L’incertezza denunciata dal Ministero non ha nulla a che fare con l’incertezza riconosciuta nella premessa. Mentre quest’ultima deriva da fattori puramente teorici, l’incertezza ministeriale discende dall’accettazione di alcuni specifici “dati di fatto” riguardanti il quadro macroeconomico coinvolto dalla nuova rivoluzione industriale e dall’ammissione di alcune specifiche “caratteristiche” delle nuove tecnologie introdotte nella sfera della produzione. Dichiara il Ministero del Lavoro che sul piano macroeconomico le incertezze circa gli effetti occupazionali della vigente e prorompente innovazione tecnologica dipendono da tre dati di fatto: 1) il crescente divario tra tassi di sviluppo del prodotto interno lordo e tassi di crescita dell’occupazione; divario indipendente dall’introduzione delle nuove tecnologie e tale da allontanare, con o senza le innovazioni, la prospettiva della piena occupazione; 2) il sempre più soffocante vincolo dell’equilibrio dei conti con l’estero, equilibrio che non potrà essere assicurato di per sé dall’innovazione tecnologica, ma che sarà determinato dalle imprevedibili vicende reali e monetarie internazionali dalla cui alternanza di penderà il livello dell’occupazione interna; 3) l’accentuazione della conflittualità sul mercato del lavoro e la sua sempre più profonda balcanizzazione in mercati segmentati, sommersi, locali, periferici e così via; fenomeni che impediscono ogni seria previsione di quanto accadrà ai futuri livelli occupazionali. Accanto a questi tre dati di fatto macroeconomici si devono porre, secondo il Ministero, almeno due caratteristiche specifiche delle nuove tecnologie adottate non soltanto dal settore industriale, ma anche dagli altri settori: a) la chiara natura “labour saving” dell’innovazione tecnologica in atto, la quale continuerà ad espellere lavoratori dall’industria, coinvolgerà lo stesso processo di formazione del capitale fisso, impedendo un riassorbimento dei lavoratori esuberanti e non si tradurrà nel tradizionale circolo virtuoso “innovazione - crescita del prodotto - nuovi investimenti - incremento dell’occupazione - aumento della domanda aggregata - nuova spinta all’innovazione - e così di seguito”; b) lo stretto rapporto che sembra essersi instaurato tra innovazioni tecnologiche e investimenti in “capitale immateriale” (conoscenza, ricerca, formazione); rapporto che rende problematico il processo di riconversione delle professionalità e che minaccia di approfondire gli squilibri tra la domanda e l’offerta di lavoro. 3. Dopo aver elencato le “incertezze” il documento ministeriale passa immediatamente ad elencare le sue “certezze”; e anche queste meritano un nostro richiamo. Secondo il Ministero del Lavoro se non saranno adottati “interventi adeguati” nel prossimo futuro verranno “necessariamente” a determinarsi: a) una perdita più ampia di occupazione, dal momento che la crescita spontanea dell’output tecnologico non solleciterà alcuna variazione positiva della domanda di lavoro; b) una sempre maggiore difficoltà d’ingresso sul mercato del lavoro da parte delle nuove leve; c) una sempre minore capacità dei settori di versi da quello industriale di “compensare” la crescita della disoccupazione tecnologica, dal momento che le innovazioni risparmiatrici di lavoro finiranno con il coinvolgere anche la loro struttura produttiva. Se invece saranno attuati “interventi adeguati” le prospettive occupazionali potranno tornare ad essere, se non rosee, almeno accettabili. È inutile dilungarsi a leggere l’interminabile elenco delle politiche suggerite dal Ministero, poiché si tratta di proposte assai note. È sufficiente limitarsi ad un breve riassunto, convenientemente articolato in tre gruppi di possibili interventi, senza preoccupazione alcuna della possibilità che tale riclassificazione venga influenzata da inevitabili prevenzioni o da irrinunciabili opzioni di parte. Il primo gruppo di interventi concerne la riforma generale del mercato del lavoro; anzi, per dirla con le espressioni originali del documento ministeriale, riguarda “la revisione globale, economico-istituzionale, dei sistemi di allocazione, di monitoraggio e di programmazione del fattore lavoro”. Come si vede, l’innovazione tecnologica si è infiltrata perfino nel linguaggio, con il rischio che anche nel campo della comunicazione si determini un qualche fenomeno di disoccupazione (delle idee). Se proviamo a tradurre quel dettato in termini più accessibili troviamo proposte e soluzioni a cui da tempo ci ha abituati il dibattito politico-economico: a) se si accentua la trasparenza del mercato del lavoro (mediante l’istituzione di osserva tori o di strutture che diffondano le informazioni); b) se si raggiunge una larga flessibilità nelle politiche salariali; c) se si accetta la “deregolazione dei processi di entrata” (dizione testuale con cui si intende parlare della revisione del collocamento); d) se si riconosce l’urgenza di una “riregolazione dei processi di uscita” (altra dizione testuale che sta per revisione dell’istituto della Cassa integrazione e per incentivazione della mobilità); e) se si provvede a una ragionevole riforma dello Statuto dei lavoratori (consentendo ad esempio che accordi collettivi possano determinare modifiche peggiorative in alternativa alla riduzione del personale o ponendo limiti al principio dell’assoluta indissolubilità del rapporto di lavoro); f) se si adeguano le strutture della qualificazione e della riqualificazione professionale della manodopera (in sintonia con le nuove tecnologie); g) se si collega la gestione del tempo di lavoro ad un nuovo assetto del mercato del lavoro (inquadrando il problema della riduzione o della riorganizzazione dell’orario di lavoro in un’ottica di perfetta flessibilità di quel mercato), si trarrà il duplice vantaggio della scomparsa, almeno nel settore industriale, della compresenza di disoccupazione e di posti vacanti e dell’eliminazione definitiva della frammentazione e della segmentazione del mercato del lavoro. 4. Come si vede, nulla di nuovo sul fronte occidentale. Vale la pena soltanto di precisare che soluzioni siffatte sono indipendenti dal problema “innovazione tecnologica e occupazione”, dal momento che rappresentano esigenze permanenti del mondo imprenditoriale, qualsiasi siano le condizioni generali del sistema economico. Nella migliore delle ipotesi, quegli interventi possono soltanto razionalizzare le condizioni del mercato del lavoro adeguando l’offerta alla domanda, non risolvere il problema che stiamo discutendo. Di questo è consapevole lo stesso Ministero, che provvede immediatamente a individuare un secondo gruppo di “politiche del lavoro”. Il secondo gruppo• è quello delle politiche volte a stimolare la domanda di lavoro, da un lato attraverso nuovi indirizzi della spesa pubblica, dall’altro mediante misure volte a favorire in ogni settore la natalità dell’impresa. Per quel che concerne il ruolo della spesa pubblica, confermato l’obiettivo della riduzione del suo deficit mediante tagli necessari alle uscite, si rinnova la vecchia invocazione a mutarne la composizione dai consumi agli investimenti (e qui l’elenco dei possibili interventi non soltanto è interminabile, ma anche accattivante). Per quel che riguarda la crescita quantitativa e qualitativa delle imprese, si accettano le suggestioni della cosidetta “Job Creation”, sulla quale mancano ancora dati sufficienti ad emettere un giudizio che eviti sia facili ironie, sia prematuri riconoscimenti. Nell’un caso e nell’altro le innovazioni tecnologiche sono viste come alleati potenziali, non come nemici dei livelli occupazionali; anzi, il documento ministeriale dichiara esplicitamente che una attenta distribuzione e orchestrazione delle nuove tecniche produttive tra tutti i settori dell’economia (con una strizzata d’occhio al terziario più o meno avanzato, salutato come vera terra promessa per chi pretenderà ancora di “lavorare”) oltre a dissolvere il fantasma della disoccupazione procurerà al nostro Paese quel “riequilibrio settoriale e territoriale” desiderato da almeno quarant’anni (o invocato da almeno cent’anni dal Meridione d’Italia). Il terzo e ultimo gruppo di interventi, dal sapore “residuale”, ammette la possibilità che nonostante le strategie previste ai punti precedenti rimanga in parte insoluta la questione della disoccupazione. Per dirla con il documento originario, si dovranno approntare efficaci misure di intervento volte alla gestione delle “eccedenze occupazionali” che via via si formeranno nel sistema in seguito alla ristrutturazione dei settori produttivi e alla diffusione delle nuove tecnologie. Ebbene, secondo il Ministero del Lavoro le forze di lavoro che risulteranno esuberanti non dovranno più fare affidamento alle garanzie dello stato assistenziale, ma dovranno accettare “nuove regole del gioco”. È difficile dire quali siano le regole nuove a cui allude il Ministero, dal momento che si parla in termini vaghi di “contratti di solidarietà” opportunamente ridefiniti, di “partecipazione” ad attività “cooperative di produzione e lavoro” e di ricorso al “pensionamento anticipato” anche nella forma di “prepensionamento parziale” o “progressivo”. Poiché queste soluzioni appaiono in alcuni casi generiche, in altri ispirate più al novero delle “politiche dell’inoccupazione” che alle “politiche attive del lavoro”, conviene astenersi da ogni commento 5. Se tutto quello che è stato riassunto descrive lo scenario “ufficialmente” delineato, in tema di rapporti tra innovazione tecnologica e mercato del lavoro, da un’Autorità ministeriale in grado di attingere informazioni da fonti comunemente inaccessibili e dotata di poteri indisponibili al comune cittadino, anche se economista, non è possibile pretendere di contrapporre quadri alternativi. E’ possibile soltanto appellarsi al diritto intellettuale e costituzionale di dichiarare le proprie opinioni, riconoscendo contestualmente la forte probabilità che possano incorrere in errori vistosi o soggiacere a visibili pregiudizi. Dunque, si può dire che lo scenario del Ministero del Lavoro, che pure solleva questioni di uno spessore innegabile e che pure propone problemi che non possono essere ignorati o sottovalutati, si fonda sull’accettazione di alcuni presupposti considerati come dati troppo “oggettivi” per i gusti di taluni cittadini. Perlomeno, quel testo si basa su ipotesi che, a detta di qualcuno, non sono esenti dal rischio di obiezioni ragionevoli. Una prima obiezione (abbastanza “scontata” tanto quanto ampiamente “scontate” sono le proposte ministeriali) riguarda il “quadro macroeconomico” assunto dal Ministero, con i suoi tre “dati di fatto”, che poi sono il divario irreversibile tra tasso di sviluppo del prodotto interno lordo e tasso di crescita dell’occupazione, la difficoltà di conseguire contemporaneamente l’equilibrio dei conti con l’estero ed elevati livelli occupazionali e, infine, l’incidenza della conflittualità e della segmentazione del mercato del lavoro sul problema della disoccupazione. A ben vedere, non si tratta di “tre” dati di fatto, bensì di “un unico” dato che, volendo, di fatto potrebbe essere modificato. Quell’unico dato concerne la collocazione del nostro sistema nell’ambito dell’economia internazionale. Come tutti sappiamo, quella collocazione, ben espressa dal deficit strutturale dei nostri conti con l’estero, da un lato impone al nostro sistema regole di competitività tali da accentuare il sopra accennato divario tra tassi di crescita del prodotto nazionale e tassi di incremento dell’occupazione (a causa del ruolo che deve giocare la produttività del lavoro), dall’altro provoca tensioni sociali all’interno del nostro Paese, anche se francamente il documento ministeriale esagera nel definire quelle tensioni come “crescente conflittualità” sul mercato del lavoro, dimenticando che negli ultimi sette anni (partendo dal “Documento dell’Eur” per arrivare a un recente “referendum”) i lavoratori hanno offerto un grandissimo contributo a una “politica dell’austerità” rivelatasi incapace di far uscire la nostra economia dalle sabbie mobili della crisi e dalla giungla della concorrenza internazionale. Ora, come tutte le persone di buonsenso intuiscono, la collocazione internazionale del nostro sistema condiziona, settorialmente e territorialmente, l’intera struttura produttiva, ci obbliga a una innovazione tecnologica lungo linee preordinate, ci costringe a comprimere la domanda interna, ci impone una dinamica del reddito inferiore alle capacità potenziali di sviluppo del nostro paese, ci porta a considerare il salario come costo di produzione e non come reddito spendibile a sostegno della domanda effettiva, ci mette nelle condizioni di dover esportare volumi crescenti di merci per poter pagare valori sempre più alti per risorse che potremmo in parte produrre all’interno e ci induce ad attribuire tutta la responsabilità della situazione a una data conformazione del mercato del lavoro. Queste affermazioni non intendono minimamente riproporre l’idea di una sorta di “autarchia” del nostro sistema o di una irrealistica “rivoluzione” dei rapporti economici e politici con gli altri Paesi. Intendono soltanto chiedere che venga riconosciuto il diritto al seguente ragionevole dubbio: non v’è alcuna speranza di una diversa politica economica verso l’esterno capace di far riassaporare al nostro paese il gusto dell’indipendenza nazionale? Se quella speranza vi fosse e se quella indipendenza fosse raggiungibile l’intera questione dell’innovazione tecnologica e dell’occupazione assumerebbe contorni completamente diversi e darebbe spazio a soluzioni alternative forse non risolutive, ma almeno più tranquillizzanti. 6. Una seconda obiezione si rivolge alla definizione data dal documento ministeriale alle caratteristiche delle nuove tecnologie. Come si ricorderà, le nuove tecniche vengono chiaramente denunciate come “labour saving” e addirittura come faccende appartenenti più al “capitale immateriale” che a quel “materiale”. Se così è, come sperare di vincere la sfida “affidandosi” a quelle tecniche, ‘diffondendole” in ogni angolo emerso o sommerso, privato o pubblico del nostro sistema e “rinunciando” a qualsiasi tentativo di un loro controllo? A parte queste considerazioni che potrebbero apparire meramente di principio, come dimenticare i dubbi espressi da alcune parti autorevoli, quale ad esempio l’economista Augusto Graziani, secondo cui l’attuale “rivoluzione tecnologica” (almeno quella che interessa il nostro Paese) non ha molto a che fare con l”innovazione”, bensì con il semplice “aggiornamento” delle tecniche? Se si attribuisce a quel dubbio un sia pur minimo fondamento, le conclusioni sarebbero molto più amare: l’aggiornamento delle tecniche è la conseguenza di una data “gerarchia internazionale” dei sistemi economici, che vede la contrapposizione tra paesi veramente avanzati che introducono continue innovazioni e paesi un po’ meno avanza ti che possono usufruire soltanto delle tecniche “scartate” dai primi e da questi cedute ai secondi secondo le leggi del ciclo dei prodotti, in modo che il loro aggiornamento sia tale da non compromettere lo “status” delle relazioni economiche reciproche. Non resta, infine, che una terza obiezione, quasi una vera e propria “obiezione di coscienza”. Le proposte governative finora sinteticamente illustrate, indipendentemente dalla loro praticabilità o meno, hanno il sapore di una rinuncia definitiva a certi “valori”; tanto per non deludere i lettori, i valori che chiamano in causa i rapporti tra Stato e Mercato e quelli che assegnano al sindacato compiti fondamentali di tutela del lavoro. Lo scenario disegnato dal Ministero del lavoro sembra più coerente con l’intento di portare lo Stato “dentro” il Mercato (per usare un’altra espressione della moda corrente), che con l’obiettivo di disciplinare il mercato mediante un’opera di controllo e di stimolo da parte della politica economica dello Stato. Per di più, lo scenario ministeriale, nel celebrare il trionfo delle nuove tecniche risparmiatrici di lavoro, trascura un ammonimento rinnovato non molto tempo fa da un altro grande economista, Wassily Leontief, secondo cui se davvero stiamo vivendo un’epoca di “innovazioni” tali da ridurre le occasioni di lavoro, non resta che affidarsi all’intervento “necessario” dello Stato nel campo della distribuzione del reddito, al fine di garantire non soltanto un adeguato livello della domanda effettiva, ma anche una civile partecipazione di tutti i cittadini al benessere e ai frutti del progresso tecnico. Quanto poi al futuro del Sindacato, il documento ministeriale lascia intendere un suo ruolo meramente “esecutivo”, da funzionario rispettoso dei programmi governativi o da guardiano degli accordi politici. In quel testo non v’è alcun accenno alla contrattazione collettiva come strumento irrinunciabile per tutelare gli occupati e per combattere la disoccupazione, né considerazione alcuna della “democrazia industriale” come disciplina razionale dei rapporti sociali di lavoro. Tanto è sufficiente per esprimere le più profonde preoccupazioni sul futuro che ci attende. Ma su questi ultimi aspetti è prudente non esprimere alcun giudizio o pregiudizio: è il Sindacato e soltanto il Sindacato a dover dichiarare le proprie posizioni, senza l’ausilio più o meno disinteressato dei soliti consiglieri o degli immarcescibili agitatori. NOTE [1] Estratto da AZIMUT n° 20 rivista bimestrale di economia politica e cultura – novembre -dicembre 1985 |