LA CRESCITA DEL DEBITO PUBBLICO IN ITALIA[1]

Note in margine al recente dibattito politico-economico

Carluccio Bianchi

1. Introduzione

La consistenza del debito pubblico nel nostro paese ha mostrato, soprattutto nell’ultimo quinquennio, una notevole accelerazione, giungendo infine a superare, nell’anno in corso, la stessa dimensione del prodotto interno lordo (PIL).

Tale evoluzione ha provocato un intenso ed acceso dibattito di politica economica, nel corso del quale sono stati sottolineati i rischi in termini di stabilità finanziaria del sistema e/o di possibile reinnesco di temute fiammate inflazionistiche, derivanti dal proseguimento delle tendenze in atto. In generale, seppure con motivazioni ed accenti diversi, vi è stato un riconoscimento pressoché unanime della necessità di stabilizzare il valore del rapporto debito/reddito nel breve-medio periodo e di farlo progressivamente diminuire fino a livelli ritenuti “di equilibrio” nel medio-lungo termine. A tale consenso di opinioni sugli obiettivi da raggiungere, si oppone tuttavia una sostanziale divergenza riguardo alle concrete proposte di politica economica volte a favorire la soluzione del problema, sia per ciò che concerne la definizione degli obiettivi intermedi da perseguire, sia per ciò che riguarda le dimensioni temporali delle manovre da adottare.

Il principale dilemma è legato al ruolo che deve svolgere la politica monetaria nei confronti di quella fiscale, ammesso che quest’ultima sia comunque finalizzata al raggiungimento di un riassetto della finanza pubblica, ad una razionalizzazione delle procedure di bilancio e, in generale, ad un contenimento dei valori del fabbisogno in percentuale del PIL. Da un lato alcuni vorrebbero un radicale irrigidimento della politica monetaria e un drastico obbligo di pareggio del bilancio in campo fiscale. Dal lato opposto si invita la Banca d’Italia a tornare almeno temporaneamente ad un maggiore finanziamento monetario del deficit, in modo da rendere più “morbido” l’impatto della manovra di progressiva riduzione dei livelli del fabbisogno, e soprattutto in modo da con sentire un abbassamento dei livelli dei tassi d’interesse reali (ritenuti i veri ostacoli ad una più equilibrata crescita del sistema). Le nostre autorità monetarie (così come una certa parte degli studiosi) sono schierate su una posizione intermedia e ribadiscono la volontà di proseguire sulla linea, intrapresa da qualche anno a questa parte, di relativa inflessibilità nei confronti delle esigenze di finanziamento del Tesoro.

In queste note, dopo avere brevemente commentato le tendenze manifestate dal debito pubblico italiano nell’ultimo decennio ed evidenziato le possibili dinamiche future, ci proponiamo di esaminare alcuni aspetti del dibattito, accademico e politico-economico, ad esse collegato, insieme alle proposte da più parti formulate per il raggiungimento di una situazione più equilibrata della finanza pubblica. Le analisi e le proposte che emergono dagli interventi esaminati forniscono lo spunto per alcune riflessioni conclusive, che si possono riassumere nella presa di posizione a favore del mantenimento di un margine discrezionale della Banca Centrale, seppure in un’ottica di perseguimento di rigore e stabilità. Tale atteggiamento deve infatti costituire l’adeguato supporto (o, se si preferisce, il necessario pungolo) per l’attuazione delle inderogabili misure di politica fiscale da attuare se si vuole cercare di stabilizzare la consistenza del debito pubblico su livelli compatibili con una crescita equilibrata e continua del sistema economico italiano.

2. Alcuni cenni sull’evoluzione del debito pubblico in Italia

Negli anni ‘60 e ‘70, in seguito al predominio accademico e politico delle teorie economiche keynesiane, disavanzi pubblici ampi e persistenti non erano visti con sfavore, ma erano piuttosto considerati come il mezzo indispensabile per assicurare al sistema un elevato livello di attività e di occupazione. L’accettazione pressoché generalizzata di tale principio era del resto favorita, in un contesto di ampia disoccupazione, dall’ottica prevalentemente di breve periodo della teoria keynesiana stessa. L’accento veniva cioè posto solo sui flussi annui di risorse mobilitate con l’intervento statale, mentre gli effetti dei flussi sulle consistenze venivano di fatto trascurati, nell’ipotesi, implicita od esplicita, che essi fossero di modeste dimensioni. Ciò era comunque in parte giustificato, come vedremo meglio in seguito, sia dalle ridotte entità dei disavanzi, sia dai bassi tassi di interesse pagati sul debito pubblico, sia infine dagli elevati tassi di crescita sperimentati.

Tale punto di vista è efficacemente sintetizzato da un intervento del Direttore Generale del Fondo Monetario Internazionale, Jacques De Laroisière, nel 1984: “Fino a poco tempo fa il dibattito sul ruolo della politica di bilancio nell’andamento delle diverse economie nazionali aveva posto al centro il problema dei deficit statali, mentre quello dell’accumulo di passività da parte del settore pubblico era rimasto in secondo piano. I deficit di bilancio venivano valutati sulla base dell’impatto che si supponeva essi avessero sull’attività economica corrente, sul tasso l’inflazione e sulla bilancia dei pagamenti. Sembrava ovvio ritenere che questo impatto avesse carattere temporaneo, e che pertanto la presenza di un disavanzo influenzasse l’andamento corrente dell’economia, ma non il suo sviluppo futuro. Molto spesso si ignoravano del tutto gli effetti cumulativi che derivano da una catena di disavanzi. Si ignorava cioè che un deficit di bilancio, mentre nell’immediato può risultare vantaggioso per l’andamento della situazione economica (specialmente quando l’economia non funziona in regime di piena utilizzazione delle risorse), può però compromettere lo sviluppo economico futuro se dà luogo ad incrementi eccessivi del debito pubblico, se influenza negativamente le esportazioni e se, in ultima analisi, riduce gli investimenti.”[2]

De Laroisière, rilevando la tendenza generalizzata delle economie dei paesi industrializzati ad un aumento dell’incidenza del debito pubblico sul prodotto interno lordo, individuava proprio nell’Italia uno dei paesi a più alto rischio per la situazione venutasi a creare in seguito alle scelte di politica fiscale e monetaria dei primi anni ‘80, caratterizzate da una notevole espansione del disavanzo del settore pubblico e da una politica monetaria generalmente restrittiva, causa di un rialzo inusitato dei tassi di interesse. Egli indicava quindi come principali effetti negativi di tale politica la riduzione o “spiazzamento” degli investimenti privati e la possibilità di favorire un nuovo virulento processo inflazionistico nel medio-lungo periodo.

Nel nostro paese, in effetti, in seguito alle modificazioni intervenute all’inizio del presente decennio nella definizione dei principali obiettivi intermedi della politica monetaria[3], anche a seguito della mutata situazione economica internazionale, si è passati nel giro di pochi anni da una situazione di esteso finanziamento del fabbisogno con base monetaria (attuato attraverso una ampia “monetizzazione” del debito degli anni ‘70) ad una situazione radicalmente diversa. Più recentemente le autorità monetarie, pur senza annunciarlo formalmente, si sono poste obiettivi alquanto rigidi di crescita della base monetaria e della quantità di moneta[4]. In tale situazione la copertura del fabbisogno è stata per larghissima parte attuata tramite l’espansione del debito fruttifero di interessi. È opportuno ricordare che mentre nel 1976 la quota del debito pubblico collocata presso la Banca d’Italia-Ufficio Italiano Cambi era pari appena al 40%, alla fine del 1979 essa era già scesa al 22%; nel 1983 raggiungeva quindi il 17%, assestandosi poi intorno a valori del 16% circa[5]. Come si è detto, questo processo è stato accompagnato da una progressiva crescita del collocamento di titoli pubblici sul mercato: alla fine del 1985, i titoli presso investitori privati e istituzioni creditizie diverse dalla Banca Centrale rappresentavano il 65,3% del debito pubblico totale contro il 25,4% di fine 1976[6].

Al riguardo la Tavola 1 evidenzia l’evoluzione della consistenza dell’indebitamento totale del settore pubblico nell’ultimo decennio, insieme alla sua struttura.

voci

1975

1976

1977

1978

1979

1980

1981

1982

1983

1984

1985

Indebitamento totale

83.732

102.516

124.001

158.274

190.307

227.679

282.190

360.417

454.973

560.478

681.783

Debito pubblico in % del PIL

66,8

65,4

65,2

71,2

70,4

67,2

70,3

76,6

84,4

91,6

99,6

Tav 1 – Consistenza dell’indebitamento del settore pubblico. Valori nominali in miliardi di Lire.

 

1975

1976

1977

1978

1979

1980

1981

1982

1983

1984

1985

BOT

23,7

27

26

24

25

32

37,9

38,7

33,1

28,5

25,3

titoli a medio e lungo termine

34,4

31,8

40,2

44,4

42

34,2

30,4

30,6

39,8

43,7

49,8

di cui: BTP

5,9

6,3

6,2

10,9

9,9

7,5

7,5

5,4

5,1

5,7

5,3

CCt c.v

 

 

4,4

9,6

13,4

12,4

11

16,5

27,9

32,8

38,7

Risparmio postale

16

15,6

15,5

15,2

16,2

14,5

12,6

10,9

9,7

9

8,7

C7C tesoreria

4,2

5

3,9

4,2

5,3

8,4

9

8,8

6,9

7,5

7,1

Debiti esteri

1,3

1,4

1,3

1,3

1,3

1,5

2,3

2,6

2,7

2,8

2,7

Altri debiti

20,4

19,2

13,1

10,9

10,2

9,4

7,8

8,4

7,8

8,5

6,4

Indebitamento totale

100

100

100

100

100

100

100

100

100

100

100

Tav 1 – Consistenza dell’indebitamento del settore pubblico. Composizione percentuale.

È facile constatare come la crescita sostenuta del rapporto tra debito pubblico e PIL si verifica a partire dal 1981. Va segnalato inoltre come a fine 1986 il valore del rapporto tra debito e PIL supererà l’unità: sommando infatti alla consistenza del debito di fine ‘85 la previsione relativa al fabbisogno del settore statale per il 1986, si ottiene un valore possibile dello stock di debito pari al 793.000 miliardi circa[7]. Tale cifra implica un rapporto rispetto al reddito, presunto uguale a 768.500 miliardi, del 103% circa[8].

La tabella mostra pure chiaramente la crescente importanza dei titoli nel finanziamento del settore pubblico: la loro quota sul debito passa infatti dal 58% al 75% nel decennio in esame, con un notevole allungamento della scadenza media dei titoli nell’ultimo periodo. Il collocamento dei titoli è stato favorito in questi anni dalla progressiva crescita del livello dei tassi di interesse reali, definiti come differenza tra i tassi di interesse nominali e il tasso di variazione dei prezzi al consumo. Ciò è evidenziato in particolare dalla Figura 1[9].

 

l

 

Fig. 1

Al tempo stesso si deve sottolineare però che il massiccio ricorso alle emissioni di titoli fruttiferi di interesse ha a sua volta contribuito ad elevare, o quanto meno a mantenere elevati, i tassi di interesse reali nel nostro paese. L’effetto combinato della crescita dei tassi di interesse e dello stock di titoli pubblici collocati sul mercato è riscontrabile soprattutto nella notevole ascesa della spesa statale per interessi, evidenziata dalla figura 2[10].

 

 

Fig. 2 – La spesa per interessi del settore statale: 1976-1985 e previsioni per il 1986

Nel corso dell’ultimo decennio tale spesa ha più che raddoppiato la propria incidenza percentuale, rispetto al PIL, passando dal 4,2% del 1975 al 9,6% del 1985, con una netta accelerazione, di nuovo, negli anni più recenti. Tale forte espansione della spesa per interessi ha retroagito sulla formazione di debito aggiuntivo, nel senso di determinare il ricorso a nuove emissioni finalizzate soltanto al pagamento degli interessi sulle consistenze esistenti.

In effetti, dal punto di. vista formale, si può dimostrare che, in un dato istante temporale t, il rapporto tra debito pubblico e PIL (indicato con dt) risulta uguale al fabbisogno aggiuntivo al netto di interessi dell’anno di riferimento (at) più il rapporto del periodo precedente (d t-1) moltiplicato per un fattore legato al quoziente tra il tasso di interesse reale (rt) e il tasso di crescita del sistema (gt). In termini algebrici si avrà cioé:

dt = at + [(1+ rt ) : (1+ gt )] . d t-1

Se poi, anziché fare riferimento al debito pubblico nel suo complesso (cfr. tavola 1), si analizza più propriamente il solo debito fruttifero collocato sul mercato (bt) la relazione precedente viene sostituita da:

bt  = at - mt + [(1+ rt ) : (1+ gt )] . b t-1

dove mt rappresenta il fabbisogno pubblico (come quota del PIL) finanziato con l’emissione di base monetaria.

È facile constatare dalle espressioni precedenti che se il tasso di interesse reale è superiore al tasso di crescita, anche con un fabbisogno netto nullo, il rapporto debito/PIL tende a crescere senza limiti. Se risulta rt = gt lo stesso rapporto cresce di periodo in periodo per l’intero ammontare del fabbisogno al netto di interessi. Infine se rt è minore di gt allora il rapporto tende ad un valore limite tanto più elevato quanto più alti sono at e rt e quanto più bassi sono gt e mt .

In definitiva, l’evoluzione del rapporto debito/PIL può essere ricondotta all’operare di quattro fattori, riconducibili a situazioni completamente diverse:

1) il fabbisogno pubblico al netto di interessi, determinato dalle decisioni di politica fiscale;

2) il finanziamento monetario del Tesoro, ricollegabile a decisioni della Banca Centrale, nel quadro generale delle scelte di politica monetaria;

3) il livello dei tassi di interesse reali, influenzato dalle tendenze dei mercati finanziari internazionali;

4) il tasso di crescita, determinato dalla più generale evoluzione economica del sistema.

All’origine del netto incremento dell’incidenza del debito pubblico sul reddito sperimentato in Italia nell’ultimo quinquennio si deve porre una sfavorevole dinamica di tutti e quattro i fattori sopra elencati. A fronte di un fabbisogno al netto di interessi sempre elevato (mediamente pari al 7% circa del reddito), si sono associati una notevole contrazione del finanziamento monetario del Tesoro (in conseguenza della svolta di politica monetaria conseguente alla cosiddetta “operazione di divorzio” della primavera ‘81), un aumento dei tassi di interesse reali (in parte riconducibile alle decisioni di politica monetaria dell’Amministrazione Reagan) e un abbassamento del saggio medio annuo di crescita nel contesto del generale deludente processo di sviluppo dei paesi industrializzati dell’Occidente.

3. Il dibattito italiano sui problemi posti dall’accumulo del debito.

Una situazione quale quella sinteticamente descritta in precedenza è fondamentalmente caratterizzata da un “circolo vizioso” di autoalimentazione del debito, cioè dalla necessità di emettere debito aggiuntivo per assicurare il servizio del debito già in essere. Come si è detto, il problema diventa particolarmente delicato in presenza di un rendimento reale dei titoli positivo e superiore al tasso di crescita del prodotto interno lordo: secondo una certa letteratura americana alquanto recente[11], in queste condizioni si acuiscono i rischi di instabilità finanziaria e di repentino scatenarsi di fiammate inflazionistiche.

Sui problemi relativi alla sostenibilità di elevati valori del rapporto debito/PIL si è recentemente sviluppato anche nel nostro paese un vivace dibattito politico-economico. Nelle note seguenti ci proponiamo proprio di presentare una sintesi degli interventi di alcuni autorevoli studiosi italiani in merito ai possibili effetti di medio-lungo periodo legati alla rapida crescita del rapporto in esame. Tale dibattito trae spunto da un dibattito analogo sviluppatosi negli Stati Uniti tra la fine dello scorso decennio e i primi anni ‘80; per non appesantire troppo la trattazione, tuttavia, ci limiteremo ad analizzare il contesto italiano, fornendo in nota, ove necessario, alcune brevi precisazioni riguardo alla matrice del dibattito americano, concentrato essenzialmente sui possibili effetti inflazionistici di ampi e persistenti disavanzi pubblici, e dei conseguenti crescenti livelli di indebitamento.

Già alla fine del 1981 nell’ambito accademico, e appena dopo a livello politico, prende sempre più consistenza la discussione degli effetti di instabilità dinamica del sistema collegati ad una politica del debito pubblico attuata nelle particolari condizioni italiane sopra ricordate. In tale periodo vengono presentati due interessanti lavori[12] - di Giampiero Franco e Gianluigi Mengarelli l’uno, di Aldo Montesano l’altro - in cui vengono riprese, con riferimento al caso italiano, le tematiche della letteratura cosiddetta “bondista” statunitense[13] .

Dal primo di essi risulta che il finanziamento del deficit della Pubblica Amministrazione tramite il continuo ricorso all’emissione di titoli da parte del Tesoro tende a provocare una spinta inflazionistica maggiore di quella provocata dal finanziamento con base monetaria. In particolare risulta che una politica del debito pubblico caratterizzata da un processo di autoalimentazione del debito provoca sostenuti effetti di spiazzamento degli investimenti privati e comporta un aumento dei tassi di interesse sul debito pubblico, necessario per attirare risparmio normalmente indirizzato verso i depositi. Ciò provoca a sua volta un forte “effetto ricchezza” sui consumatori, i quali manifesterebbero una maggiore propensione alla spesa, che si tradurrebbe in ultima istanza in una spinta alla crescita del livello dei prezzi, ovvero in maggiore inflazione. Il secondo lavoro citato sottolinea un risultato ancora più preoccupante: non solo il finanziamento con titoli è più inflazionistico rispetto alla creazione di base monetaria, ma sembra che addirittura il finanziamento con titoli sia causa di un’inflazione esplosiva, cioè con tasso tendente all’infinito.

Il dibattito si fa via via più ampio e di rilevante interesse fino a concretizzarsi, nel corso del 1983 e soprattutto del 1984, in una serie notevole di contributi teorici e di proposte di politica economica culminanti con la formulazione di elaborati “piani di rientro” dal circolo vizioso dell’espansione del rapporto debito/PIL. Alcune di tali proposte vengono recepite e fatte proprie dallo stesso Ministro del Tesoro.

La fase del dibattito su cui concentreremo la nostra attenzione (tenendo conto del fatto che si tratta di un dibattito tuttora aperto) è quella che va dal 1983 al 1985. Osserviamo anzitutto che, pur ricollegandosi all’analogo dibattito americano, la controversia nel nostro paese se ne allontana per alcuni aspetti fondamentali. Il tema principale della contesa finisce infatti per diventare non tanto l’analisi degli effetti inflazionistici del debito, quanto piuttosto l’esame dei rischi di instabilità finanziaria connessi ad una espansione dell’indebitamento pubblico. Il concetto di instabilità va inoltre inteso in senso lato. Esso riguarda in primo luogo la possibilità di non riuscire a collocare sul mercato, magari anche solo temporaneamente, l’ammontare di titoli richiesti dal fabbisogno aggiuntivo della Pubblica Amministrazione (si pensi che, con un rapporto debito/PIL pari all’unità e con una scadenza media dei titoli di un anno, ogni mese deve trovare assorbimento sul mercato una quota di debito pari al 10% circa del PIL). In secondo luogo, l’ipotesi di instabilità riguarda le possibili conseguenze reali (su reddito, bilancia dei pagamenti, inflazione, cambi) di livelli crescenti di stock di attività finanziarie detenute dal pubblico, prontamente convertibili in decisioni di spesa. Infine, il dibattito sull’instabilità concerne la difficoltà di assicurare, in un contesto caratterizzato da un indebitamento crescente, una sempre maggiore propensione al risparmio necessaria ad impedire una corrispondente caduta della quota degli investimenti rispetto al prodotto o un inaccettabile deficit della bilancia dei pagamenti.

Dando per scontato che una manovra di stabilizzazione del rapporto debito/reddito nel breve periodo (e forse di graduale diminuzione di esso nel medio-lungo periodo) appare necessaria per motivi di stabilità finanziaria, il problema che si pone è quello di individuare se sia più opportuno perseguire questo obiettivo in presenza di una politica monetaria severa (eventualmente ancora più severa di quella correntemente adottata) e del tutto autonoma rispetto a quella fiscale, o viceversa se non convenga tornare almeno temporaneamente (fino a che non si sia raggiunta una possibile stabilizzazione dei valori del fabbisogno in percentuale del PIL) ad un maggiore ricorso al finanziamento con base monetaria del fabbisogno. Tale manovra alternativa forse potrebbe anche nel breve periodo favorire la ripresa dell’inflazione, ma eviterebbe i pericolosi effetti di una repentina manovra deflazionistica, quale quella implicita in una politica monetaria fortemente restrittiva.

In tale contesto, i suggerimenti di politica economica avanzati sono stati numerosi e, a dire il vero, abbastanza simili: il principale elemento di differenziazione riguarda piuttosto la definizione dell’obiettivo intermedio di finanza pubblica. Più precisamente, a fronte di una proposta di fissazione di un obiettivo in termini di stabilizzazione (e successiva graduale diminuzione) del fabbisogno al netto degli interessi (l’elemento at nelle relazioni del paragrafo precedente), assumendo come dati il tasso di crescita, il tasso di interesse ed il tasso di inflazione[14], si segnalano alcuni interventi alquanto scettici sull’efficacia di una tale manovra.

Il tipo di manovra cui ci riferiamo è esposto per esempio nel Rapporto della Commissione Spaventa[15] ; le principali perplessità sono formulate da R. Artoni in una nota personale a conclusione del Rapporto stesso e da L. Spaventa in alcuni contributi autonomi successivi[16]. Nel Rapporto, in base alle valutazioni delle prospettive della finanza pubblica per il quinquennio 1984-89 contenute in esso e in altri lavori del medesimo anno[17], si auspica la formulazione (e il conseguente perseguimento) di un obiettivo generale che preveda, in condizioni di crescita normale e di inflazione moderata, l’interruzione della crescita del rapporto tra debito pubblico fruttifero e prodotto interno lordo. In particolare si insiste sulla necessità di una programmazione pluriennale: in effetti si esprime un giudizio sfavorevole ad una eliminazione immediata degli squilibri esistenti (ammesso che ciò sia praticabile), privilegiando invece interventi inquadrati in un’ottica di maggiore gradualismo. In un programma pluriennale, la grandezza di riferimento deve essere la variazione del rapporto debito/PIL, per cui occorre stabilire tappe successive di riduzione sino a giungere all’azzeramento. In questo senso si ribadisce che obiettivi fissati solo con riferimento all’anno in corso e in termini di fabbisogno nominale (miliardi di lire correnti) sono irrilevanti e rischiano semmai di essere fuorvianti.

Quel che ci interessa qui ricordare però è che in tale Rapporto, insieme alla raccomandazione di garantire la traiettoria di rientro incidendo sul fabbisogno al netto di interessi, viene fornita una serie di indicazioni sul problema cruciale dei rapporti tra politica di bilancio e politica monetaria all’interno di una strategia di rientro. Da un lato, si sostiene, è improponibile che la Banca Centrale venga nuovamente privata della sua autonomia e che la politica monetaria torni ad assumere un ruolo subordinato rispetto alle esigenze di finanziamento del Tesoro; d’altro lato, però, l’autonomia può esplicarsi in modi diversi: non necessariamente deve essere intesa nel senso di perseguimento rigido e senza compromessi dei propri obiettivi, potendo infatti contemplare una qualche flessibilità nelle necessarie mediazioni.

Secondo gli autori del Rapporto “...un’impostazione troppo rigida della politica di finanziamento del Tesoro, subordinata a obiettivi parimenti rigidi di creazione di base, può rendere l’esecuzione del piano tanto più difficile e costosa, da renderla politicamente non praticabile. Quanto minore è il finanziamento monetario e quanto più alti i tassi d’interesse, infatti, tanto maggiore è la riduzione del fabbisogno al netto degli interessi che occorre operare per arrestare la crescita del debito fruttifero. Può dunque convenire accompagnare l’esecuzione delle necessarie misure su spese ed entrate, che rappresentano la condizione necessaria, con politiche di finanziamento meno rigide e più permissive” (op. cit., p. 142).

Nella “Nota personale finale”, Artoni si dissocia da alcune delle raccomandazioni testé sinteticamente esposte; in particolare ci sembra interessante ricordare qui una precisa critica relativa al merito dell’obiettivo prescelto. Artoni si mostra decisamente perplesso di fronte ad un generico obiettivo in termini di fabbisogno al netto degli interessi (al di là della logica più o meno pluriennale di programmazione della sua fissazione): la perplessità sorge dalla constatazione che nella grandezza considerata confluiscono componenti che hanno natura ciclica e altre che hanno un indubbio riferimento strutturale, senza contare la rilevanza che assumono nella formazione del fabbisogno le cosiddette partite finanziarie... Diventa perciò quanto meno dubbio il significato di un tetto (per quanto di medio termine) ad una grandezza così definita[18].

Diverso è invece il rilievo critico mosso da Spaventa. Anzitutto egli dimostra che quando esiste un ampio stock di debito accumulato la politica fiscale dovrebbe porsi un obiettivo in termini di stabilizzazione del fabbisogno complessivo, anziché del solo fabbisogno al netto di interessi. In un contributo successivo egli ribadisce il concetto che la riduzione del fabbisogno al netto di interessi è condizione preliminare e necessaria per ridurre la crescita del debito, ma non è. condizione sufficiente, in quanto la possibilità di raggiungere i risultati desiderati dipende strettamente dalle ipostesi circa la crescita reale e l’evoluzione dei tassi di interesse. In particolare si riscontra la possibile insorgenza di uno sgradevole trade-off tra una riduzione drastica del fabbisogno al netto di interessi e la crescita reale del sistema economico[19], con effetti perversi sull’auspicato obiettivo di ridurre l’incidenza dell’indebitamento.

Accanto al particolare dibattito cui abbiamo testé accennato, si sviluppa parallelamente, nel corso dei primi anni ‘80, una più generale controversia sull’opportunità o meno di ricorrere a nuove “regole costituzionali” nella conduzione della politica fiscale e monetaria. Sorgono così proposte di emendamento dell’articolo 81 della Costituzione[20], che mirano a forme maggiormente incisive e cogenti di controllo della finanza pubblica, ed altre che invitano quanto meno a fare rispettare nella sostanza il dettato costituzionale vigente, ponendo fine alla radicata consuetudine di aggirano nella formazione della Legge Finanziaria, dando vita ai continui e crescenti disavanzi del settore pubblico.

Si assiste qui ad una progressiva riscoperta della teoria fiscale pre-keynesiana, che insiste sulla necessità del bilancio in pareggio, filtrata però molto nitidamente attraverso gli echi del corrispondente dibattito statunitense[21] . Non a caso alcuni degli economisti italiani che maggiormente hanno insistito negli ultimi tempi sulla necessità di un ritorno al pareggio del bilancio (fissato da un rigido e inviolabile dettato costituzionale), si richiamano esplicitamente alle interpretazioni della relazione tra deficit ed inflazione e alle proposte costituzionali formulate in America dagli esponenti della cosiddetta Scuola di Public Choice. Escludendo gli interventi più marcatamente dettati da considerazioni di ordine politico-ideologico, ci sembra doveroso notare come progressivamente si faccia strada una diffusa richiesta di “risanamento della finanza pubblica”, ovvero di “razionalizzazione delle procedure di formazione del bilancio” (in particolare di “controllo dei meccanismi di spesa”) che pur non entrando nel merito delle riforme istituzionali proposte dai sostenitori delle “regole fisse”, sottolinea la necessità di una diversa metodologia nella conduzione della politica fiscale, nel senso di una più responsabile “disciplina fiscale”.

Così, per esempio, Giovanni Ruggeri, Ragioniere Generale dello Stato, in un lavoro del 1985[22] fa un quadro delle “condizioni che potranno portare al rientro della finanza pubblica nel medio periodo, attraverso un controllo della dinamica e degli obiettivi del bilancio statale derivante da indi rizzi più generali, ovvero da nuove regole di comportamento prima che da modifiche istituzionali”.(op. cit. p. 38, il corsivo è nostro).

Mettendo in evidenza l’endogeneità dei flussi del bilancio statale nel breve periodo, Ruggeri propone un controllo del fabbisogno di cassa in relazione agli andamenti tendenziali legati alle politiche ed ai meccanismi in vigore, in funzione di una verifica sulla coerenza con gli obiettivi di medio periodo: in questa prospettiva (che si inquadra cioè in un’ottica di verifica sulla coerenza tra gestione dei flussi di cassa e gli indirizzi programmatici del bilancio pluriennale) viene sottolineato il ruolo dell’annuale Relazione Previsionale e Programmatica.

Nello stesso ‘85 Antonio Pedone analizza[23] alcuni problemi correlati alla formulazione di regole costituzionali in materia di finanza pubblica: riprendendo alcune considerazioni keynesiane, egli fa notare come possa risultare pericoloso un tentativo di controllo sui saldi pubblici che sono per larga parte determinati dalle condizioni economiche congiunturali.

“Questa più stretta e complessa interdipendenza tra l’economia e il bilancio pubblico può far sorgere problemi rilevanti quando, ad esempio, una recessione improvvisa spinga il bilancio in disavanzo; in tal caso non avrebbe senso un tentativo di eliminare il disavanzo aumentando le imposte o riducendo le spese. È quindi opportuno ripetere che il saldo di bilancio non può essere controllato dal Governo e dal Parlamento, in quanto esso dipende in misura rilevante dall’andamento dell’economia...” (op. cit., p. 11 3). Maria Teresa Salvemini, in un articolo del 1985[24], si esprime favorevolmente su alcune proposte di controllo e vincolo sulla discrezionalità politica che possano costituire un’azione di completamento e di revisione della riforma del bilancio attuata con la legge n° 468 del 1978[25] . I principali punti di riferimento in questa prospettiva di completamento della riforma riguarderebbero:

a) il rafforzamento (e l’uso non formalistico) delle regole sulla copertura delle leggi di spesa,

b) il coordinamento di queste regole ad una decisione pluriennale sul mantenimento del confine tra economia pubblica ed economia privata (in questo senso si sottolinea l’importanza della fissazione di un tetto al rapporto debito/PIL o a quello spesa pubblica/PIL).

4. Considerazioni conclusive

Abbiamo sinteticamente presentato alcuni recenti contributi di autorevoli personalità accademiche su uno dei temi fondamentali dell’attuale dibattito politico-economico, quale è appunto il problema della continua crescita dello stock del debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo.

A fronte di una sostanziale uniformità di valutazioni sui possibili effetti di medio periodo di tale situazione (riconducibili al rischio di instabilità finanziaria e/o di ripresa dell’inflazione), abbiamo fatto notare una precisa divaricazione riguardo alle proposte di risoluzione del problema.

Precisamente, da un lato si formulano proposte di progressiva riduzione (fino all’auspicata stabilizzazione su valori ritenuti “di equilibrio”) del rapporto sopra indicato, accompagnata da manovre di politica di bilancio tendenti all’azzeramento del fabbisogno al netto degli interessi sul debito e da una politica monetaria severa, finalizzata all’obiettivo di controllo della base monetaria e dei principali aggregati monetari. Su questa linea sembrano attualmente schierate le nostre autorità monetarie; su una linea ancora più dura, per ciò che concerne tanto le misure di politica fiscale quanto quelle di politica monetaria, sono poi schierati i sostenitori delle proposte “costituzionali”.

Dall’altro lato vengono formulate le proposte alternative di una riduzione del rapporto debito/PIL quanto più possibile “morbida” (cioè priva di traumi deflazionistici)[26]; in tal senso i loro sostenitori invitano le autorità monetarie ad un (almeno temporaneo) ritorno ad un maggiore finanziamento con base monetaria del fabbisogno, con conseguente riduzione dei tassi d’interesse reali (i cui livelli, ritenuti “artificiosamente” troppo elevati, vengono considerati i veri e propri bersagli da abbattere). Su questa linea (con diverse sfumature) si pongono soprattutto Luigi Spaventa, Roberto Artoni, Rolando Valiani, Filippo Cavazzuti[27] . Sostanzialmente questi autori considerano più assennata una scelta di politica monetaria che favorisca forse un maggior tasso di crescita del livello dei prezzi nel breve periodo ma che consenta di sostenere la crescita reale del PIL, grazie all’auspicata discesa dei tassi d’interesse, piuttosto che una scelta (più o meno propriamente “costituzionale”) di controllo rigido della quantità di moneta.

All’interno di queste principali serie di proposte bisogna poi attuare un’ulteriore fondamentale distinzione tra proposte di rientro “graduale” dalla situazione di squilibrio della finanza pubblica (prospettiva: medio-lungo periodo) e proposte di rientro “drastico” (prospettiva: breve-medio periodo). È chiaro che l’impatto deflazionistico, con i correlati effetti sul reddito e sull’occupazione, delle manovre ipotizzate varia in senso opposto alle dimensioni temporali dei piani proposti.

In linea del tutto teorica non ci sentiamo di dissentire dalle tesi di coloro che invitano la Banca Centrale ad incrementare il coefficiente di monetizzazione del debito per il periodo richiesto da un serio piano di risanamento della finanza pubblica teso ad una stabilizzazione dei livelli dell’indebitamento. Nutriamo tuttavia qualche perplessità sulla realizzabilità pratica di un tale “serio piano” in assenza di un coordinamento delle politiche monetarie a livello internazionale.

È innegabile infatti che, in una situazione in cui i mercati finanziari mondiali sono fortemente integrati, i tassi di interesse interni risultano certamente condizionati da quelli prevalenti sulle principali piazze internazionali. Temiamo inoltre che un eventuale allentamento del regime di politica monetaria instaurato in Italia negli ultimi anni possa costituire per una parte del mondo politico, magari poco sensibile al problema economico dell’instabilità finanziaria, un pretesto per dilazionare nel tempo o annullare gli inevitabili interventi di razionalizzazione nelle procedure di formazione del bilancio, e per proseguire sulla strada di scelte fiscali poco rigorose, assecondando il radicato paradigma “acquisitivo” che caratterizza le richieste sociali o scaricando sul bilancio pubblico i costi connessi alla riduzione della disoccupazione esistente.

Se si accetta l’ipotesi di integrazione finanziaria internazionale, l’attuale regime monetario, al più con una qualche correzione di grado, deve essere sostanzialmente mantenuto anche nel prossimo futuro. I maggiori sforzi di cambiamento di rotta debbono pertanto essere ricondotti a carico della politica fiscale. In tale contesto appare inevitabile, se si reputano rilevanti i rischi di instabilità finanziaria, l’adozione di un piano di rientro “graduale” dal circolo vizioso di autoalimentazione del debito, attraverso una strategia pluriennale che si ponga quale obiettivo intermedio la stabilizzazione del fabbisogno complessivo su livelli compatibili con una crescita soddisfacente del sistema.

NOTE


[1] Estratto da AZIMUT n° 24 rivista bimestrale di economia politica e cultura – luglio-agosto 1986

[2] Cfr. J De Laroisière: “L’aumento del debito pubblico nel mondo e l’esigenza di maggior rigore nelle politiche di bilancio”, in Bancaria, n. 9, 1985, p. 835.

[3] In luogo di un fin troppo ampio obiettivo intermedio in termini creditizi (come il credito totale interno o CTI), i cui tetti venivano regolarmente superati principalmente perché non era possibile controllare la base monetaria creata attraverso il finanziamento del fabbisogno del Tesoro, si passa progressivamente nei primi anni ‘80 ad un regime tendenzialmente più “monetarista”: le autorità si pongono cioè quale principale obiettivo intermedio la crescita della base monetaria secondo un prefissato (ma non “annunciato”) sentiero temporale, al fine di controllare la quantità di moneta (in particolare l’aggregato detto M2 = circolante più depositi bancari del pubblico).

[4] E’ da sottolineare però il fatto che gli obiettivi non vengono annunciati in tempi perentori, cosicché si lasciano aperti alcuni margini di discrezionalità e flessibilità.

[5] Cfr. Tendenze Monetarie, n. 50, dicembre 1985 e R. Valiani: “Quali soluzioni al problema dell’accumulo del debito pubblico?”, in Economia Italiana, n. 1, 1985, pp. 81-105.

[6] Cfr. Banca d’Italia., Relazione annuale per il 1985, Appendice, Tav. aC4, p. 127.

[7].La tav 1 è derivata dalla corrispondente Tav 3 di A. Fazio “ Debito pubblico, ricchezza e sviluppo dell’economia”, in Bollettino Economico della Banca d’Italia, marzo 1986, pp. 47-58, integrata con i dati della più recente relazione Annuale.

[8] Tali dati sono stati ricavati dalle recenti proiezioni dell’ISCO per il 1986

[9] La Figura 1 è stata ricavata dalla Fig. 4 di Tendenze Monetarie, cit.

[10] La Figura 2 corrisponde alla Fig. 8 di Tendenze Monetarie, cit.

[11] Si veda ad esempio T. J. Sargent-N. Wallace: “Some Unpleasant Monetarist Arithmetic”, in Federal Reserve Bank of Minneapolis Quarterly Review, autunno 1981, pp. 1-7.

[12] Cfr. G. Franco- G. Mengarelli: “Debito pubblico, base monetaria e inflazione” in Banca ria, n. lI, 1981, pp. 1141-1145 e A. Montesano: “Inflazione e finanziamento del deficit pubblico”, Ibidem, pp. 1146-1152.

[13] Il filone “bondista” statunitense, che raccoglie autori di eterogenea derivazione (come B. T. McCallum, O. Smith, A. S. Blinder ed altri) si pone quale originale alternativa a quello “monetarista”. Mentre quest’ultimo sotto linea gli inevitabili effetti inflazionistici del finanziamento monetario dei deficit, secondo il filone di pensiero in questione risulta invece più inflazionistico il finanziamento con titoli.

[14] Questo tipo di obiettivo è enunciato in numerosi documenti e dichiarazioni del Ministero del Tesoro e, in particolare, nella Relazione Previsionale e Programmatica per il 1985. La caratteristica fondamentale di tali documenti è quella di puntare ad una riduzione del fabbisogno da conseguire attraverso una stabilizzazione delle spese correnti in termini nominali (con una conseguente riduzione in termini reali) ed un incremento delle spese in conto capitale (peraltro di incidenza ridotta rispetto al totale delle spese) in linea con il tasso programmato di inflazione.

[15] Cfr. L. Spaventa: “La crescita del debito pubblico in Italia: evoluzione, prospettive e problemi di politica economica”, in Moneta e Credito, settembre 1984, pp. 251-284; e L. Spaventa: “Piani di rientro, politica fiscale e politica monetaria”, in Economia Italiana. n. 1, 1985, pp. 9-36.

[16] Si intende fare riferimento a R. Artoni-G. Morcaldo-L. Spaventa-R. Valiani-P. Zanchi: “L’indebitamento pubblico in Italia: evoluzione, prospettive e problemi”, Rapporto alla V Commissione, settembre 1984 (Servizio Studi della Camera dei Deputati, documentazione per le commissioni parlamentari).

[17] Cfr. G. Morcaldo-P. Zanchi-G. Salvemini: “Un modello di previsione del bilancio pubblico per il breve-medio termine”, Seminario su “Ricerche Quantitative per la Politica Economica”, SA.DI.BA., Perugia, 1984.

[18] A titolo di esempio si consideri l’esperienza del 1975. È chiaro che la forte crescita dell’incidenza del fabbisogno al netto di interessi sperimentata in tale anno è spiegabile con la caduta del reddito reale provocata dalla prima crisi petrolifera, con una conseguente dilatazione del disavanzo pubblico determinata dalla contemporanea riduzione automatica delle entrate fiscali ed espansione delle spese sociali.

[19] Si veda la nota 15.

[20] L’articolo 81 della Costituzione così recita: “Le Camere approvano ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. L’esercizio provvisorio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi Con la legge di approvazione del bilancio noi si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”.

[21] Il dibattito cui ci riferiamo è stato animato negli Stati Uniti da un eterogeneo movimento “monetarista-neoliberista” di ispirazione “classica”. Tale movimento si è progressivamente rinsaldato nel corso degli anni ‘70 coagulandosi attorno al Center for the Study of Public Choice del Virginia Polytechnic Institute, insistendo sulla necessità di porre un drastico freno alla crescita del peso dello Stato nell’economia. In particolare i suoi maggiori esponenti (tra i quali ricordiamo J. Buchanan, R. Wagner, R. B. McKenzie) mettono sotto accusa l’eccessivo carico fiscale (suscettibile di inficiare le possibilità di accumulazione del capitale privato e soffocare l’espansione dell’attività economica) e la parimenti eccessiva spesa pubblica (ormai dominata da fini elettoralistico-assistenziali e gonfiata dagli oneri del crescente debito pubblico). Il cuore del problema consisterebbe nella possibilità di creazione del deficit, ovvero nella possibilità di separare le decisioni di spesa da quelle relative all’imposizione, dando vita ad una serie di asimmetrie nella percezione dei costi e dei benefici dell’intervento pubblico. In ultima analisi ciò si tradurrebbe in una crescita della spesa pubblica e in una maggiore inflazione. Sulla base di tale analisi vengono avanzate proposte costituzionali di bilancio in pareggio (“costituzione fiscale”).

[22] Cfr. G. Ruggeri: “Note per il controllo del disavanzo pubblico nel medio periodo”, in Economia Italiana, n. 1, 1985, pp. 37-79.

[23] Cfr. A. Pedone: “Regole costituzionali in materia di finanza pubblica”, in Politica Economica, a. 1, n. 1, 1985, pp. 111-121.

[24] Si veda M. T. Salvemini: “Costituzionalismo monetario e fiscale”, in Politica Economica, a. I, n. 1, 1985, pp. 123-135.

[25] La legge n. 468 del 1978 ha introdotto importanti modificazioni nelle procedure di formazione del bilancio, prescrivendo che questo fosse effettuata in termini di competenza e di cassa. Si presumeva che questo avrebbe contribuito ad un migliore controllo dei meccanismi di spesa del settore pubblico. Poiché in realtà il disavanzo della Pubblica Amministrazione ha continuato a mostrare un andamento crescente, è ormai diffusa la convinzione che questa riforma del bilancio costituisca uno strumento povero ed inefficace, da abbandonare a favore di nuove e più stringenti formulazioni del dettato costituzionale. La Salvemini si riferisce a tale “riforma” come ad un “classico esempio di costituzionalismo sconfitto” (cfr. o cit. p. 129).

[26] In termini indicativi si pensi che il mantenimento del rapporto debito fruttifero/PIL sui livelli raggiunti a fine ‘85 richiederebbe, pur in presenza di un’evoluzione macroeconomica favorevole, caratterizzata da un tasso di crescita del 3% e da un tasso di interesse reale del 2%, una riduzione del fabbisogno al netto di interessi al 3% circa del PIL (con un finanziamento monetario del Tesoro uguale a quello medio degli ultimi cinque anni). Tale obiettivo implicherebbe una riduzione, rispetto all’attuale dimensione del fabbisogno, di circa 4 punti percentuali in termini di PIL, corrispondenti però al 25% circa all’intero fabbisogno. Se si confronta tale cifra con quella, di dimensioni molto più ridotte, contenuta nei progetti di Legge Finanziaria, oggetto di ampi contrasti, si può facilmente vedere come essa sia di ben difficile realizzabilità pratica.

[27] In particolare F. Cavazzuti, Debito Pubblico. Ricchezza privata. Il Mulino, Bologna, 1986.