ORARIO MINIMO GARANTITO
REDISTRIBUIRE IL LAVORO, CREARE OCCUPAZIONE,
LIBERARE IL TEMPO
[1]

Mario Agostinelli

“L’unica cosa che non si può restituire è il proprio tempo,

nemmeno se si prova grande riconoscenza”.

(Seneca)

INDICE

Premessa

1 . Introduzione

2 . Verso una nuova concezione del tempo

3 . Organizzazione dell’impresa e del lavoro, mercato del lavoro, orario

4 . Il diritto al tempo libero (all’ozio)

5 . Occupazione e lavoro “non direttamente produttivo”

6 . Una politica economica e industriale per ridurre l’orario, creare occupazione, qualificare lo stato sociale.

7 . La proposta della CGIL Lombardia sulla riorganizzazione degli orari e la riduzione dell'orario di lavoro

8 . Appendice

8.1 Orari di fatto, orari contrattuali, contrattazione degli ammortizzatori sociali

8.2 La situazione in Europa, l’ipotesi del libro bianco di Delors, le esperienze francesi e tedesche

8.3 Il governo degli orari nelle città e sul territorio

PREMESSA

La Cgil Lombardia promuove due giorni di riflessione su un tema sostanzialmente rimosso dal movimento sindacale italiano: la riduzione dell’orario di lavoro. Cercheremo di affrontare i nodi connessi alla prestazione di lavoro, alla sua durata e retribuzione. Ma lo faremo a partire dall’intreccio tra vita e lavoro e dalla riorganizzazione dei tempi in fabbrica, negli uffici, nella società. Proveremo a pensare all’occupazione come ad un progetto, a dispetto di chi la considera una variabile residuale nel modello di sviluppo perseguito. E muoveremo alcuni passi verso una svolta anche culturale che metta al centro del programma di un sindacato della solidarietà e dei diritti il tempo ed una sua riappropriazione da parte delle lavoratrici e dei lavoratori.

Si tratta di un convegno internazionale di approfondimento, rivolto ad obiettivi strategici di natura contrattuale e a scelte di politica economica, che trarrà conclusioni aperte, ma assolutamente impegnative. La relazione sostiene una proposta inequivocabile di politica economica e di riduzione dell’orario annuale per via contrattuale, accompagnata dall’introduzione di una legislazione di sostegno che fissi le scadenze e gli impegni istituzionali verso le 35 ore. Non ci limiteremo tuttavia alla proposta, ma sosterremo con forza le ragioni che ne stanno alla base, così da fare di esse il punto fermo da cui non recedere, sia nel confronto unitario, che nel proseguimento del dibattito interno alla Cgil.

Le riflessioni che seguono sono già il frutto di un primo dibattito in un largo gruppo di lavoro. Ad esse si aggiungeranno i contributi di questi due giorni, il manifesto conclusivo sottoscritto da rilevanti personalità, il contenuto della tavola rotonda. Potremo così stampare, diffondere ed utilizzare un materiale su cui costruire ulteriori elaborazioni ed avviare nuovi impegni.

Per isolare e rendere più efficaci le novità dell’analisi e della proposta, si sono spostati in appendice alcuni paragrafi, anche se risulterebbero necessari alla comprensione dell’insieme di questa introduzione. Rimandiamo ad essi per una completa trattazione e per una compiuta spiegazione di tutti i passaggi.

1. Introduzione

Perché avanziamo oggi una proposta sulla riduzione e riorganizzazione degli orari? In fondo, le forze che si apprestano a governare il Paese promettono di regalare posti di lavoro se lavoratrici e lavoratori rinunciano ai loro diritti e ad essere portatori di un loro progetto; i governi dei Paesi più industrializzati contrappongono flessibilità a riduzione; l’orario di lavoro degli occupati cresce inesorabilmente, mentre viene a mancare la disponibilità di posti di lavoro; le stesse piattaforme contrattuali sembrano aver declinato l’impegno ad attualizzare rivendicazioni sul tempo.

Eppure, chiunque voglia rivitalizzare la democrazia nel mondo moderno deve misurarsi con la soppressione della disoccupazione e la qualità della vita di grandi masse. È ormai indilazionabile una discussione sul nesso tra lavoro, disoccupazione e democrazia e per il sindacato è evidente che il requisito per la sua estensione è la piena occupazione.

Pertanto non si può ulteriormente sfuggire dal riflettere sul tempo “confiscato” negli attuali rapporti di produzione e sulla necessaria riconquista del proprio tempo da parte di donne e uomini, lavoratrici e lavoratori, cittadine e cittadini. Crediamo sia possibile che il sindacato maturi un progetto di riorganizzazione della produzione e dei servizi basato sul riscatto della risorsa tempo, sempre più scarsa, alienata, scambiata in questa società. Una risorsa “riguadagnata” attraverso un processo complesso, che consente di ridistribuire il lavoro per garantire ad ogni cittadino il diritto politico di partecipare alla creazione collettiva di ricchezze e di acquisire per questa via poteri politici, economici, sociali; e di ridistribuire il tempo liberato dal lavoro per individuare occasioni nuove di occupazione e per esprimere quelle relazioni e facoltà che il lavoro oggi lascia ancora inespresse.

Gorz e Aznar sostengono che siamo di fronte ad un mutamento di civiltà e che non si risolverà il problema della disoccupazione senza che ciascuno di noi realizzi una mutazione culturale. È vero, poiché sono state create le condizioni materiali per un mutamento sociale profondo; ma esso non può essere efficacemente attuato senza che gli individui cerchino di appropriarsi del tempo che via via viene reso libero dagli aumenti di produttività. Dobbiamo renderci conto di non essere di fronte ad una dimensione locale o prettamente nazionale. Infatti, abbiamo chiesto a sindacalisti ed esponenti politici europei di collegare al nostro sforzo la loro esperienza e di proiettare le loro osservazioni in uno scenario sovranazionale. Un contesto dove, accanto a tentativi nuovi come quelli dell’SPD e dell’IG Metall ed a proposte controverse come quelle di Delors o di Clinton o del Governo francese, continua la sua desolante marcia una cultura dell’impresa ed un affidamento al liberismo economico che sembrano condannare questa generazione al saccheggio del presente ed alla negazione del futuro.

Una proposta sull’orario oggi, del sindacato, è un atto di realismo e di lungimiranza. Essendo questione che investe la società nel suo complesso (disoccupazione, sviluppo dell’individualità), deve entrare a far parte della strategia del sindacato confederale, ben oltre l’approccio delle categorie, indispensabile per quanto riguarda le lavorazioni faticose, i turni, i pericoli ambientali, l’utilizzo degli impianti, la flessibilità. Ci si dirà: un tema così rilevante non ha le condizioni per maturare qui e adesso di fronte ad un governo di destra, che attaccherà financo le conquiste fondamentali dei lavoratori. Poiché siamo certi che la sfida tra sindacato unitario e nuovo governo non avverrà sulle procedure di concertazione, ma sul loro svuotamento e soprattutto sul controllo del mercato del lavoro e l’arbitrarietà delle prestazioni, dobbiamo contrastare il disegno di costringere il sindacato alla tutela di quote sempre più ristrette di garantiti.

Proprio perché non siamo corporativi apriamo la discussione su questioni strategiche come la riduzione dell’orario e la vivibilità della collettività.

 Se dovessimo invece rifuggire dalle grandi questioni e spogliare il conflitto sociale della sua funzione democratica, potremmo essere corresponsabili di una ulteriore frattura tra le forze di progresso e il loro insediamento sociale naturale, frastornato e illuso di poter ricevere solo da avventure istituzionali e da vecchie ricette già fallite in altre parti del mondo la risposta ai nodi dello sviluppo, dell’occupazione, del disegno della società futura.

2. Verso una nuova concezione del tempo

Il tempo sta alla base dei nostri sistemi fisici e biologici: esso guida il nostro comportamento rispetto all’attività produttiva, cadenza la funzione riproduttiva, rende possibile l’interazione di gruppo e qualifica le relazioni sociali. “Non hai mai tempo per me!” è la rimostranza più dura di mancanza di attenzione nei rapporti interpersonali. Il tempo è, come afferma Rifkin, “la finestra dell’uomo sul mondo”.

Ogni cultura ha un proprio complesso particolare di impronte temporali, valori e dinamiche a cui sono collegati i sistemi di produzione che dipendono anche dalle tecnologie adottate. Possedere e dominare il tempo, così come possedere e dominare lo spazio, corrisponde, nel senso comune, al successo di una società.

I valori temporali dell’era moderna sono caratterizzati dall’efficienza e dalla velocità: il tempo, come lo spazio, nella civiltà industriale, diventa progressivamente una risorsa scarsa, usata per improntare la vita sociale in modi sempre più sofisticati e dipendenti dall’organizzazione della produzione. La politica e l’economia, considerate a lungo scienze attuali riferite allo spazio, stanno diventando sempre più tecniche di previsione del futuro e di sfruttamento del tempo.

Ci sono due fatti nuovi che comportano una migrazione della percezione del tempo dal passato e dal presente al futuro, dalla storia alla previsione: lo sviluppo del calcolatore e del trattamento a distanza delle informazioni, la consapevolezza del limite naturale che vincola la crescita e il concetto di entropia connaturato allo scorrere del tempo. Il primo associato ad una tecnologia rivoluzionaria, il secondo ad un profondo mutamento culturale.

Per quanto riguarda l’informazione, bene di rilievo strategico nell’epoca attuale, occorre riflettere sul fatto che il tempo è per il calcolatore una risorsa come il carbone per la macchina a vapore. Il calendario, orientato al passato, o l’orologio, legato alla produttività corrente, vengono soppiantati da una nuova forma di controllo sociale del tempo: quella fornita dai programmi che, impostati su macchine ultraveloci, non solo regolano o simulano il futuro, ma sono in grado anche di eseguirlo sulla base di alcune ipotesi loro fornite. Gli individui potrebbero diventare spettatori che osservano il dispiegarsi di diversi futuri prestabiliti, con scarsa capacità di influire o di apportare variazioni nelle attività che già in anticipo sono state impostate nei programmi. Tutto ciò ha a che fare addirittura con la democrazia e il suo esercizio. Le prime novità cominciano ad essere al centro delle competizioni elettorali dei Paesi avanzati. Proprio il 27 marzo 1994 in Italia potrebbe segnalare l’esito di un più pervasivo dominio del tempo: non solo nei luoghi di lavoro, ma anche nei nuovi riti di socializzazione dove avviene la costruzione di aspettative individuali e collettive.

Chi prende possesso del futuro della società, anche in maniera virtuale, dispone di strumenti ancor più suggestivi di chi tradizionalmente ha riflettuto sulla lezione della storia. Non è questione di valori, ma di “potenza” con cui dobbiamo da ora fare i conti. Se poi analizziamo i mutamenti culturali di questo secolo, ci accorgiamo che essi assumono una direzione precisa, che ha a che fare con una nuova descrizione del mondo e delle sue leggi fisiche.

Nelle ipotesi avanzate dal MITI giapponese o dai tecnocrati di Clinton stiamo passando da una concezione del mondo descritto come un gigantesco orologio che scandisce il tempo in modo ordinato e prevedibile, ad una società che assomiglia ad una mente gigantesca, simile ad un calcolatore, che si espande creando nuova informazione e conoscenza.

Per quando riguarda il rapporto tra attività umana ambiente e natura, è emersa una nuova scienza: l’ecologia. Essa è stata spesso considerata come uno scenario quasi permanente di lunga durata, che muta molto lentamente in rapporto al ritmo più veloce con cui cambia l’economia e a quello vertiginoso della politica. Ma questa sembra un’ottica buona per questa sola generazione e applicabile solo se si guarda al presente e se non ci si occupa di quel futuro a cui sembrano costringerci le informazioni elaborate, trasmesse, condivise, che sollecitano decisioni che hanno conseguenze di lungo periodo, assunte da una generazione che incide su quelle successive.

Noi abbiamo fino ad oggi continuato semplicemente ad assegnare un valore monetario e ad applicare un tasso di interesse (l’unico modo attraverso cui l’economia si occupa del tempo!) agli utili e alle perdite future per ottenere il loro valore attuale capitalizzato. Ma anche il calcolo monetario più preciso non risolve il dilemma della salute, della sopravvivenza, della prosperità. Se si tratta del futuro, costi e benefici sociali non si misurano in valori monetari o mercantili; occorre cambiare radicalmente registro.

Chiediamoci allora, di fronte a questa diversa concezione del tempo, che ormai ci piomba addosso, come sia possibile riproporre in modo inalterato i concetti di produttività, redditività, efficienza, consumo, orario, comunicazione, che hanno accompagnato la crescita della nostra economia e la democratizzazione delle nostre società dalla fine della seconda guerra mondiale fino a tutti gli anni ‘70.

Chiediamoci se possiamo fare sindacato facendo finta di niente e, così, rinunciando a prendere possesso del futuro della società, lasciare ad altri questo potere.

Dobbiamo imparare ad assumere orizzonti temporali lunghi. Per questo bisogna diventare il sindacato anche di chi da questa organizzazione della produzione non riceverebbe mai una occasione di lavoro. E perché non ripensare al valore di quell’intuizione di Berlinguer che presupponeva un mutamento antropologico dei modelli di consumo costruito sul consenso democratico e sulla solidarietà intragenerazionale, parlando di austerità in spazi temporali diversi da quelli a cui ci obbliga l’attuale organizzazione produzione/consumi a cui noi diamo un consenso spesso aprioristico?

Nei paragrafi successivi tratteremo più a fondo la nuova organizzazione della produzione e del lavoro, l’alienazione del tempo individuale indotto dalla società dei consumi, la più stretta connessione tra tempo di lavoro e tempo di vita che impone un rinnovo delle strategie di welfare. Ci muoveremo, cioè, con la peculiarità di chi parte dal lavoro e dalla sua riorganizzazione solidale per un progetto di società e per un assetto democratico di essa.

Qui però vogliamo definire un primo punto fermo. Noi, che organizziamo una parte della società - i lavoratori occupati - costretta a lavorare entro una ristretta fascia temporale, senza possibilità di volgersi al passato e al futuro, isolata sia dal processo economico che al proprio interno, dobbiamo scendere in campo. Questa parte della società deve poter lavorare e contemporaneamente decidere del proprio tempo e del governo del suo futuro, cioè deve ottenere per tutti i suoi membri quel diritto politico di cittadinanza che la Costituzione riconosce a tutti e che solo abilita ad una riconciliazione con tutto il proprio tempo di vita.

Ecco perché vogliamo assumere il problema della struttura, della riduzione e della ridistribuzione degli orari di lavoro come il fulcro di una nuova organizzazione della vita lavorativa e sociale.

3. Organizzazione dell’impresa e del lavoro, mercato del lavoro, orario

A) Pur essendo tuttora diffuso, il modello taylorista-fordista di organizzazione del lavoro, è in fase di superamento, soprattutto nei settori maturi. La sua crisi è emersa nella lotta agli sprechi di tempo “esterni alla fase di fabbricazione intesa in senso stretto”, cui ha contribuito in modo determinante l’impiego delle tecnologie informatiche.

La misura del tempo nell’organizzazione taylorista era fondata sul binomio lunghezza-durata/densità-intensità (si poteva ridurre l’orario, se si aumentava in modo più che proporzionale l’intensità della prestazione, sia attraverso innovazioni tecnologiche, sia attraverso incentivazione salariale).

La riduzione di orario andava di pari passi ad investimenti in macchinario, a remunerazione della maggior fatica, a conquista di nuovi mercati, a produzione di sempre maggior rifiuti ed inquinamento. A maggiore produttività poteva corrispondere un’estensione dell’occupazione globale, anche a parità di orario.

Sono molte le ragioni - di natura soprattutto economica e tecnico scientifica, ma, in parte, anche ambientale e culturale - che portano verso un nuovo modello di organizzazione del lavoro. Si tratta di un processo che per ora riguarda principalmente la grande impresa. Nel tempo si estenderà in misura rilevante verso l’impresa minore ed, in prospettiva, toccherà ampiamente l’erogazione dei servizi.

Nel nuovo modello, che non ipotizza più una crescita continua della produzione, l’aumento della produttività non è più ottenuto principalmente per via tecnologica (almeno nell’accezione tradizionale dell’impiego delle macchine) quanto, piuttosto, per via organizzativa.

L’organizzazione dell’impresa e del lavoro sono i nuovi investimenti, resi produttivi dall’impiego del trattamento delle informazioni. Si passa così dal tempo della meccanica (i minuti dell’orologio e il flusso di semilavorati) al tempo dell’elettronica (nanosecondi e simultaneità dei controlli e retroazione sui processi in tempo reale).

Oltre al binomio lunghezza-durata / densità-intensità, che non scompare affatto ed, anzi, è volto sempre più a sfavore dei lavoratori, viene introdotto un carico di fatica psichica legato alle risposte che ogni operazione eseguita riceve in tempo reale dal sistema di informazioni e relazioni che controlla in continuità le mansioni svolte.

Quel che vorremmo far notare è che c’è una quantità di tempo destinato alle relazioni e alle comunicazioni, trasmesse o ricevute dal sistema informatico (non solo quello interno ad un determinato ufficio, reparto o su un determinato treno che corre sui binari), che corrisponde a lavoro mentale inframmezzato alle tradizionali operazioni e che non è né contrattato né remunerato. Eppure esso è erogato ed è essenziale per l’innalzamento della produttività del sistema, che se ne appropria senza beneficio per l’occupazione! Noi, che finora abbiamo contrattato la durata (orario di lavoro) e l’intensità (ritmi, pause, carichi, incentivi di cottimo), ci siamo fatti soffiare sotto il naso l’attenzione, che procura fatica ai lavoratori e rende produttivi anche gli intervalli di tempo per il capitale.

C’è un lavoro cognitivo, erogato dai lavoratori ma non riconosciuto, “confiscato” dagli elaboratori secondo i loro programmi, che non si contratta né si ridistribuisce ed accresce solo la velocità e la qualità della produzione senza aumento di occupazione.

Se poi si esce dai singoli reparti o uffici e si risale al sistema delle imprese, sempre più integrate su scala mondiale, si può avanzare un’altra osservazione. Elaborando una strategia che consenta una sorta di rapporto immediato con l’insieme, le imprese hanno sostanzialmente pregiudicato il potere del mercato - che pure rivendicano - ed hanno creato le condizioni materiali affinché i singoli individui possano, a loro volta, cominciare a rapportarsi consapevolmente all’insieme del processo riproduttivo sociale. Le imprese procedono sulla via dello sviluppo senza avere alcuna percezione della sua natura contraddittoria e del fatto che proprio i progressi che compiono concorrono a determinare il problema della disoccupazione.

A seguito di tutte queste osservazioni si pone - a nostro giudizio - la novità “teorica” per quanto riguarda l’occupazione di una ridistribuzione e riduzione dell’orario di lavoro, nella produzione innanzitutto e nei servizi, a parità di salario. Altrimenti la forbice tra aumento di produttività e distruzione di lavoro si divaricherà irreversibilmente.

Si tratta, come afferma Gorz, di individuare il momento di necessità, quello che stabilisce che il cambiamento epocale in corso comporti una rottura di comportamenti. Gli individui da soli tenderebbero a continuare a lavorare di più, ma è la realtà della disoccupazione che obbliga a riconoscersi individui sociali e, pertanto, a rivendicare collettivamente la riduzione e la ridistribuzione del lavoro. La disoccupazione la produciamo tutti.

Il salto qualitativo che abbiamo cercato di illustrare, che risiede in uno scenario organizzativo, scientifico, tecnologico diverso da quello a noi noto, ci deve consentire di non ricadere nelle strettoie di un dibattito su orario-salario che aveva caratterizzato un contesto ormai in via di superamento.

B) Il mercato del lavoro risente direttamente dei nuovi parametri temporali che caratterizzano l’organizzazione dell’impresa e del lavoro. La produzione (non altrettanto, per ora, i servizi) viene ridislocata su basi qualitative e quantitative diverse dai principi che presiedono alla produzione in serie, immutabile fino all’obsolescenza dei modelli. La variabilità dei prodotti e la rispondenza alle richieste del mercato si ottiene con un assetto del macchinario e della manodopera che può variare continuamente verso l’alto, a partire da impianti sottodimensionati. La produzione diventa intrinsecamente flessibile, nel senso in cui può risultare possibile realizzare diverse quantità disponendo di un livello minimo critico di attivazione degli impianti fissi. Questi ultimi vengono progettati per prodotti differenziati, il cui successo dipenderà dalla risposta del mercato, che sarà possibile prevedere con tanta più sicurezza quanto più trascorrerà poco tempo tra ordinazione e consegna. Di nuovo l’ottimizzazione di tempo ed informazione sono al centro dei mutamenti.

Ed i riflessi sul lavoro, la sua struttura e qualità, sono dirompenti. Infatti, il raggiungimento del livello critico di attivazione degli impianti è funzione di un livello minimo di forza lavoro occupata stabilmente con qualifiche adeguate. Il tempo di lavoro viene così suddiviso logicamente in due parti, attribuite a due diverse categorie di persone. C’è un gruppo “centrale” che garantisce il livello di attivazione minimo degli impianti e che ha professionalità sufficiente per governare flussi superiori (si tratta di lavoro stabile e continuativo). C’è poi un gruppo flessibile (per orario) o saltuario (a tempo determinato) o addirittura esterno all’impresa madre, che consente l’esecuzione di punte di produzione su richiesta.

La flessibilità della prestazione di lavoro a cui siamo stati abituati dai CCNL (per i lavoratori stabili) viene superata da una doppia flessibilità: quella dei lavoratori stabili che fanno funzionare gli impianti nei periodi di punta e quella di una manodopera assunta per affrontare l’eccesso di domanda temporaneo.

Diventa quindi sempre minore il tempo di lavoro stabile, definito, “socialmente necessario”, mentre aumenta il tempo richiesto sul mercato senza che si crei occupazione non precaria. Questo effetto organizzativo amplifica la crisi occupazionale dovuta all’innovazione tecnologica intesa in senso tradizionale. Deriva anche da ciò la previsione per cui una ripresa produttiva non implicherebbe il riassorbimento della disoccupazione dovuta alla recessione.

È aperta nel mercato del lavoro una riorganizzazione sempre più profonda, di fronte a cui è debolissima o inesistente la strategia del sindacato. Ci si trova sempre di più di fronte ad un circuito che fornisce il lavoro permanente e ad un altro che è in funzione di pura fluidificazione. In entrambi i casi occorre manodopera con un alto livello di alfabetizzazione e necessita una stabilità sociale che consenta il funzionamento dell’attività produttiva. C’è, di conseguenza, in tutte le ipotesi delle destre la richiesta di una subordinazione dello Stato alle esigenze delle imprese e di una riduzione del sindacato ad agenzia esterna alla attività produttiva.  Dobbiamo tenere, viceversa, su un’idea di Mercato del Lavoro plurale, “regolato” con lo stesso grado di “durezza” in ogni sua parte.

C’è una stretta relazione fra le riflessioni avanzate prima sull’orario e queste ultime sul mutamento del mercato del lavoro. La situazione, anche dal punto di vista sindacale, è preoccupante: mentre si allunga l’orario degli occupati stabili, si ricorre perfino ai contratti di solidarietà per rispondere a problemi di stagionalità del mercato e si contrattano estensioni della precarietà in risposta alla crescita di domanda che la fase economica attuale lascia intravedere.

Per quanto accennato fin qui, la proposta di riorganizzazione e di riduzione degli orari che avanzeremo, si intende riguardi non solo il lavoro stabile a pieno tempo (oggi circa 1.750 ore anno), ma tutto il lavoro nelle sue articolazioni (part-time, CIG, tempo determinato etc.) e nelle sue forme composite (lavoro-formazione; lavoro-studio; lavoro produttivo - “lavoro socialmente utile”, lavoro produttivo-lavoro di cura etc.).

Una strategia per la riduzione dell’orario di lavoro deve, in ultima analisi, fare i conti con la flessibilità in tutte le sue accezioni ed in modo non subalterno, mettendo in relazione:

·      il lavoro nella nuova organizzazione;

·      i diritti personali e collettivi dei lavoratori e delle lavoratrici;

·      le strutture formative;

·      la relazione fra lavori stabili e lavori saltuari.

Ci sono poi di altri aspetti da cui dipende la riorganizzazione degli orari e di cui tratteremo nei prossimi paragrafi:

·      la struttura e l’organizzazione dello stato sociale;

·      l’organizzazione del tempo liberato e della qualità della vita che ne deriva;

·      il superamento dell’attuale concezione degli ammortizzatori sociali.

Un contesto così complesso richiede una grande articolazione di sperimentazioni ed interventi che uniformino secondo scadenze temporali definite i diversi percorsi seguiti sugli orari definendo un orario legale/contrattuale di base. Gli strumenti di cui abbiamo bisogno sono:

·      una proposta di politica economica che incentivi la riduzione dell’orario come strumento di politica settoriale in favore dell’occupazione;

·      una legge che fissi gli orari massimi settimanali e giornalieri e deleghi il sindacato a contrattare la loro distribuzione nelle realtà specifiche su un ampio arco temporale;

·      una riduzione annua generalizzata ottenuta nei vari settori per via contrattuale;

·      il diritto alla contrattazione decentrata.

In questa direzione si muoverà la proposta finale del convegno.

4. Il diritto al tempo libero (all’ozio)

Oggi il tema del diritto al proprio tempo liberato riemerge non più, come a fine ‘800, contrapposto al diritto al lavoro. Ne è invece complemento, imposto da soggettività (donne, ambientalisti) e da considerazioni (il carattere asociale dello sviluppo industriale fondato sulle merci) che non sono solo interne al conflitto capitale-lavoro. In fondo, per i capitalisti descritti da Marx il tempo dei lavoratori esisteva solo per ritemprare le loro energie. Ma siamo davvero, oggi, di fronte ad un mutamento di quella concezione?

Il nodo si può così sintetizzare: il “dividendo” guadagnato grazie al progresso tecnologico e alla nuova organizzazione su scala temporale e spaziale della produzione, può essere distribuito tra i lavoratori in tempo anziché in denaro?

Per la verità, a tutt’oggi è più facile trasferire un discorso di uguaglianza sul danaro che non sul tempo. Questo perché il valore del tempo è altamente soggettivo: è una potenzialità prima che una quantità, e liberare il tempo dovrebbe corrispondere a sottrarlo al calcolo.

Facciamo notare che il diritto a tempo libero si avrebbe in quanto si lavora, in quanto, cioè, si è responsabili di una produzione che si ottiene in minor tempo e con minori scarti in virtù del sapere e del lavoro socializzato.

A questo nodo si risponde, ovviamente, attraverso la riduzione generalizzata e politicamente diretta dell’orario di lavoro.

C’è una componente nuova - e teniamo a farla emergere - che spinge alla riduzione generalizzata e che non è più parte dello stesso dibattito che negli anni ‘70 divideva il sindacato e le confederazioni fra di loro.

Mentre il punto di partenza rimane ancora quello di trasformare la crescita della produttività del lavoro (questa volta in tempo anziché in danaro), il punto innovativo del ragionamento risulta nei valori identificati con la “prosperità” e che qualificano l’uso del tempo liberato. Sostituendo al “diritto ai consumi” un “diritto al tempo libero”, si sposta l’attenzione sulla qualità delle relazioni, della vita affettiva, del sistema sociale: cioè su beni immateriali collegati assai più alle scelte politiche che alle forze del mercato.

C’è quindi un’enfasi particolare sulla valorizzazione del tempo liberato, fonte di benessere. L’attenzione passa dalla liberazione del lavoro alla liberazione dal lavoro, fonte di opportunità fruibili non solo nel contesto di mercato, che domina invece il tempo di lavoro. Nella posizione sostenuta da Gorz, questo spostamento di attenzione fornisce risposte alle domande di nuova occupazione. Tratteremo questa questione nel paragrafo successivo.

È bene che il sindacato sappia che occorre avviare una battaglia anche culturale su un fronte che non l’ha visto fin qui impegnato: il vero problema della riduzione dell’orario di lavoro sta nel fatto che la gente nel tempo liberato non sa che fare. Spesso si sceglie salario anziché orario perché chi lavora ha subìto una sconfitta anche nel tempo che gli rimane fuori dall’ufficio, dalla fabbrica, dalla sua mansione. Potremmo scoprire che liberare il tempo delle relazioni, dello studio, degli affetti è ancor più difficile che liberare quello in fabbrica. Anche questa è una riflessione molto impegnativa per una sinistra che voglia tornare protagonista e che abbia il coraggio di sostenere che ci sono diritti umani, e non solo buone ragioni economiche per ridurre il tempo di lavoro.

Conviene ancora esaminare un punto, che riguarda le ricadute sulla contrattazione. Quanto più si trovano risposte convincenti alla fruizione di tempo liberato, tanto più varrebbe la pena di convertire completamente gli aumenti salariali in tempo libero. Ci potrebbe essere un approccio collettivo, oppure un approccio volontario, individuale. Noi propendiamo per il primo e, quindi, per il ruolo della contrattazione. Infatti occorre molta attenzione a non sostituire a disuguaglianza di reddito una disuguaglianza di tempo. Così come occorre tener conto dell’obiettivo delle donne di raggiungere l’uguaglianza nella divisione del lavoro all’interno della famiglia, per un successo di una prospettiva che non riproponga discriminazioni sotto nuove vesti.

In definitiva, la prospettiva di liberazione di tempo dal lavoro, può perseguire lo scopo di produrre una rete sociale di scambi al di fuori del lavoro per rivalutare il tempo libero. Ed anche un nesso tra il mondo dei produttori e quello dei consumatori, non solo nel senso oggi comune, ma in riferimento allo spazio occupato dal lavoro di cura e da una diversa divisione fra i generi nei compiti di riproduzione.

5. Occupazione e lavoro “non direttamente produttivo”

Fermo restando il fatto che la riduzione dell’orario di lavoro è un obiettivo in sé, la sua realizzazione andrebbe accompagnata da altre politiche pubbliche che aiutino la creazione di nuovi posti di lavoro, remunerando servizi il cui valore aggiunto non è apprezzato né dal mercato né dalle pubbliche amministrazioni. Si può pensare alla remunerazione di parte del tempo liberato impiegato in lavori che il mercato non riconosce; mentre si remunera parte del lavoro “produttivo” in tempo anziché in danaro.

Dal punto di vista contabile è possibile puntare su un Pil più elevato (somma dei beni e dei servizi finali già oggi prodotti e di nuovi servizi prodotti da lavoratori a tempo ridotto o da ex disoccupati) ed un ammontare di consumi aggregati più elevati (somma dei consumi già in essere e del consumo dei nuovi servizi).

Per consumi aggregati si fa riferimento a quei servizi che contribuiscono ad accrescere la “qualità sociale”. Servizi dove la produttività cresce più lentamente che nell’industria, dato che il lavoro umano può essere assistito dalla tecnologia, ma non sostituito. Si tratta di servizi sociali oggi non prodotti, o sottoprodotti. I prezzi reali di questi servizi sono sempre più alti, poiché in essi il saggio di crescita della produttività non può essere elevato. A questo proposito, va rilevato che la soluzione neoliberista consiste nel tagliare le spese per i servizi e nel ridurre le prestazioni.

Va invece rilanciata una idea dello stato sociale che sottragga al mercato le prospettive del suo rilancio, senza riproporre automaticamente lo schema del passato. “In una visione non reazionaria del progresso sociale, non si tratta di ridurre la quantità dei servizi, ma di migliorarne la qualità. L’estensione dei servizi sociali richiede un processo di adattamento e non una passiva ripetizione dei metodi di azione tradizionale” (F. Caffè, 1986).

Dal lato della domanda si pone il problema di incoraggiare la richiesta individuale o collettiva di servizi sociali, soprattutto quelli oggi non prodotti o sottoprodotti. Per ottenere ciò la società deve modificare le proporzioni del reddito che spende nei differenti prodotti (consumi di merci - costi di istruzione, sanità, cultura, cura etc.), arrivando ad una modificazione della composizione della spesa senza far espandere la spesa pubblica. Ci sono due vie: la riconversione di spesa per ammortizzatori sociali verso occasioni di lavoro “socialmente utile”; l’incentivazione pubblica di forme (cooperative) di prestazione di “lavoro concreto”, di natura non mercantile, integrate in un progetto rinnovato di welfare state.

6. Una politica economica e industriale per ridurre l’orario, creare occupazione, qualificare lo stato sociale.

C’è un punto che differenzia la nostra analisi da quella di Gorz e di Aznar, pur così carica di suggestioni e di grandi intuizioni. La disoccupazione non è dovuta al superamento della società salariale o alla fine del lavoro produttivo. C’è invece una disoccupazione crescente a causa della crisi connaturata a questo sviluppo capitalistico. È una crisi inedita: nella stessa ipotesi di Keynes il lavoro era in espansione; non già oggi quando siamo di fronte ad un mutamento dell’organizzazione della produzione che non riassorbe lavoro. La novità si può così rappresentare: lo sviluppo recente crea tempo disponibile, che viene sprecato come disoccupazione.

Se gli individui riuscissero ad introdurre quei mutamenti sociali che consentono un uso di quel tempo, essi si muoverebbero già nella direzione di una sottomissione della dinamica sociale complessiva al loro controllo.

Noi pensiamo che è possibile introdurre mutamenti sociali, avviare politiche industriali che favoriscano, anche attraverso fiscalizzazioni, la riduzione dell’orario e modificare la spesa pubblica così da estendere i servizi sociali creando nuova occupazione sia nei settori manifatturieri che in settori non tradizionalmente mercantili.

Sappiamo di doverci misurare con una realtà economica produttiva abbastanza singolare come quella italiana, con un crescente declino della grande industria, una frammentazione delle dimensioni delle unità produttive, una elevata dipendenza dall’estero, una forte integrazione territoriale, un peso anomalo del terziario rispetto al manifatturiero, una scarsa produttività del settore pubblico.

Al fondo della nostra proposta sta una lettura “keynesiana” della disoccupazione come risorsa disponibile - e quindi anche tempo - che non riesce ad essere utilizzata a causa delle relazioni sociali che ne impediscono il reimpiego. E che invece la società può decidere di rendere disponibile per tutti ridistribuendo e riducendo l’orario a partire dai settori industriali dove più contenuti sono gli effetti inflazionistici e più efficaci i risultati occupazionali.

In uno studio commissionato dalla CGIL Lombardia (Vaggi, Salzano, Valota) e allegato tra i materiali, si dimostra la praticabilità economica di una riduzione a 1.650 ore annue dell’orario contrattuale nel settore manifatturiero e dei servizi ad elevata produttività o destinati alla vendita. Ciò corrisponderebbe a posizionare l’insieme del lavoro dipendente a 36,5 ore settimanali medie, tenuto conto del fatto che già oggi il pubblico impiego ha raggiunto soglie contrattuali anche inferiori.

L’ipotesi più propriamente di politica economica industriale consta dei seguenti punti:

a)   Passaggio in 3 anni da 1760 ore a 1650 ore (36,5 ore settimanali) nei settori manifatturiero e dei servizi esclusa la Pubblica amministrazione.

b)   Defiscalizzazione corrispondente ad una riduzione dei prelievi obbligatori per l’equivalente medio di 10 milioni all’anno per lavoratore nuovo assunto con ulteriore margine di fiscalizzazione per la riduzione di orario a seconda della posizione specfica delle imprese e del settore.

c)   Recupero di produttività corrispondente al 2,5% nel solo settore manifatturiero.

I risultati conseguenti sarebbero, secondo la nostra simulazione:

§ Aumento della domanda di lavoro nel settore lavoratori dipendenti escluso l’agricoltura: circa 342.000 unità (equivalente ad un +3,3%):

·      Settore manifatturiero

+207.000 unità con un incremento degli occupati del 3,7%: +3% metalmeccanici; +4% settore alta intensità di lavoro

·      Servizi (esclusa la pubblica amministrazione)

+125.000 unità: +2,7% di incremento occupazionale

·      Energetici estrattivi

+11.000 unità +5,6% di incremento occupazionale

·      Chimico farmaceutico

+3.700 unità: +2% di incremento occupazionale

·      Aumento dell’inflazione finale: inferiore all’1,5%

·      Gettito aggiuntivo fiscale e contributivo dovuto a nuova occupazione: 3.560 miliardi netto

·      Costi aggiuntivi per le imprese: 1,3% sul costo del lavoro

·      Esborso diretto per fiscalizzazione: 20.000 miliardi.

·      Riduzione costo diretto disoccupazione: -6,8%

(L’esborso di spesa per la fiscalizzazione -10 milioni a posto- corrisponderebbe al 58% dei costi diretti della disoccupazione per le finanze dello Stato (17,5 milioni all’anno)).

È di straordinario interesse apprezzare la fattibilità (dato che prudenzialmente non usiamo il termine “vantaggio”) economica di una operazione di politica industriale che individua in una defiscalizzazione - che potrebbe essere addirittura selettiva - la leva per espandere settori sia dal punto di vista occupazionale che dal punto di vista qualitativo. Una fattibilità resa ancor più auspicabile dalla liberazione del tempo individuale, dallo scarso impatto inflattivo, dall’aumento della platea contributiva.

Vogliamo aggiungere un rilievo in più. Le risorse per l’operazione qui delineata potrebbero essere parzialmente sostitutive di quelle oggi utilizzate per gli ammortizzatori sociali che, per un raffronto, raggiungono nel 1993 cifre ben più elevate di quelle qui previste: 4020 miliardi per i prepensionamenti; 2507 miliardi per la cassa integrazione straordinaria; 2.272 miliardi per la CIG ordinaria. E integrarsi a quelle delle agevolazioni per assunzioni non stabili (contratti formazione lavoro, contratti a termine, etc.) che raggiungono i 5072 miliardi e che comportano un abbassamento ed una diversificazione di diritti e tutele, piuttosto che incentivi per ampliare i livelli occupazionali.

Oggi occorre pensare che il lavoro tende strutturalmente a contrarsi e che non ha più senso orientare le risorse esclusivamente sugli ammortizzatori sociali, che continuano a considerare la mancanza di lavoro un fatto transitorio o saltuario.

Il saldo positivo dell’operazione di riconversione della spesa pubblica per l’occupazione che qui abbiamo delineato, oltre che creare occupazione nei settori considerati, finirebbe col contribuire a riqualificare lo stato sociale e a finanziare lavori socialmente utili e occupazione in attività definite “non mercantili”.

7. La proposta della CGIL Lombardia sulla riorganizzazione degli orari e la riduzione dell'orario di lavoro

Il rinnovo dei contratti nazionali di lavoro non comporterà significativi avanzamenti sul tema dell'orario. Il movimento sindacale italiano raggiungerà nel 1998 un orario contrattuale medio di 39 ore. Secondo lo schema di relazioni industriali adottato con l'accordo di Luglio 1993, non si andrà molto più in là entro il 2000.

Viceversa, il movimento sindacale in Germania prospetta percorsi nuovi che tendono ad abbassare il muro delle 35 ore. E le proposte che sono nell'agenda della sinistra europea, il dibattito di sociologi e intellettuali, l'iniziativa di alcuni governi, delineano una riduzione degli orari assai consistente e tracciano percorsi innovativi.

C'è uno scarto, incomprensibile tra le analisi dei paragrafi precedenti, la vivacità del dibattito, il livello di coscienza dell'opinione pubblica, e l'impegno dei sindacati di categoria nelle vertenze contrattuali.

Potremmo trovarci di fronte alla possibile divaricazione tra i contenuti delle conclusioni contrattuali e i nodi politici che il confronto sull'occupazione prospetterà alla politica economica dei Governi da qui alla fine del secolo.

La proposta che ora avanziamo cerca di recuperare l'iniziativa sindacale su un terreno cruciale come quello della riorganizzazione e della riduzione degli orari, al di là degli esiti dei rinnovi dei contratti in corso. Più propriamente, si tratta di una proposta che trova nella contrattazione di categoria e interconfederale e nella iniziativa legislativa i complementi ad un disegno di politica economica finalizzato principalmente all'occupazione e alla riqualificazione dello stato sociale.

Schematizzando, si può individuare una sequenza di interventi così concepiti:

a) Il Governo sostiene una politica di riduzione generalizzata degli orari di lavoro a parità di salario attraverso una fiscalizzazione secondo modalità e tempi da definire, orientata a incentivare la reindustrializzazione e l'occupazione in settori individuati da una politica industriale di lungo periodo. Il rientro del contributo pubblico è legato all’impegno diretto delle aziende tempificato dai contratti di lavoro.

     Poiché le categorie industriali oggi hanno l'orario di lavoro più lungo, si può ipotizzare che l'intervento si concentri in questi settori, portando in sostanza entro il 1998 l'orario di lavoro annuo di tutte le lavoratrici e i lavoratori italiani a 1650 ore (circa 36,5 ore medie settimanali). Nel caso di ricorso ai C.d.S. la fiscalizzazione protrarrebbe per questa via l'intervento oggi in atto da parte dello Stato.

b) Una nuova legislazione sull'orario viene varata dal Parlamento. Essa fissa i tetti settimanali e giornalieri massimi (da subito 39 ore settimanali) oltre i quali la prestazione viene considerata non dovuta senza consenso preventivo. Entro il tempo di due contratti (2002) gli orari vengono portati per legge a 35 ore medie.

     La legge attribuisce alle rappresentanze dei lavoratori il potere di contrattare preventivamente la distribuzione dell'orario su base plurisettimanale e annua.

c)  I contratti di lavoro da subito uniformano e integrano le normative sull'orario così da far concorrere tutti gli strumenti alla definizione del calendario settimanale, mensile e annuo (straordinario, flessibilità, permessi, 150 ore, ROL). La verifica biennale dello scostamento fra inflazione programmata e inflazione reale ai fini di un adeguamento salariale, viene utilizzata per ridurre strutturalmente e a parità di salario gli orari di lavoro, fino a concorrenza delle risorse disponibili. La contrattazione aziendale viene indirizzata prioritariamente al recupero del salario reale, ai recuperi di produttività aziendale, alla gestione e riorganizzazione degli orari.

d) I prossimi contratti di lavoro (che partiranno dal 1998) portano l'orario annuo a 1550 ore. Le 1550 ore sono il punto di riferimento per il calcolo di qualsiasi prestazione di lavoro, comprese quelle proporzionalmente ridotte ed oggi discriminate sul mercato del lavoro.

     La disputa orari di fatto / orari contrattuali si risolve facendo delle 1550 ore annue l’orario entro cui confluiscono tutti gli istituti contrattuali, (straordinari, flessibilità, ferie, permessi individuali, ROL. Ciò significa che il superamento dei regimi settimanali o le riduzioni dovute a CIG, o, ancora, i congedi individuali o gli stessi regimi di solidarietà vengono compensati su base annua attraverso una contrattazione di anticipo che mette in campo tutti gli istituti che riguardano gli orari e che oggi sono tenuti separati.

e) In un accordo interconfederale si stabilisce che moduli di flessibilità finalizzati alla difesa dell'occupazione anche con riduzione di salario, possono essere adottati tra le 36,5 e le 30 ore.

f)   Nelle città e nei territori omogenei viene data facoltà al sindacato confederale territoriale di contrattare con le istituzioni e le organizzazioni datoriali la riorganizzazione degli orari, collegando in un progetto definito tempo di lavoro e qualità della vita, scansioni collettive e aspirazioni individuali, tempo della produzione, dei servizi, spazi e tempi di socializzazione. È possibile modulare in questa sede i tempi di percorrenza, l’apertura dei negozi, la prestazione di lavori socialmente utili etc.

Sotto un altro profilo, si tratta di dar avvio ad una vertenza generale con Governo e imprenditori che riconosca le necessità di un patto sociale su occupazione e qualità della vita (punti a,b,e). Nel contempo il sindacato sosterrebbe una proposta di legge di iniziativa popolare sulla durata dell'orario di lavoro su cui confluirebbero prescrizioni e schemi di incentivo del tenore di quelli già avanzate dalla CISL o dalla Commissione sui tempi di lavoro nominata dal Ministro Giugni, nel 1993.

Da ultimo i contratti in corso, i prossimi, la contrattazione decentrata e la verifica biennale prevista per ora solo in termini salariali, assumerebbero una direzione molto netta e coerente.

Un metodo di concertazione ed una pratica diffusa di contrattazione sosterrebbero una politica industriale innovativa e la lotta alla disoccupazione; aprirebbero spazi impensabili oggi ad una cultura del mantenimento anziché del consumo a tutti i costi, della valorizzazione delle risorse immateriali, delle relazioni interpersonali; dischiuderebbero infine percorsi di rinnovamento dello stato sociale.

Ai fini di questa relazione non entriamo ulteriormente in dettagli (molti sono riportati in osservazioni precedenti, altri nelle appendici, altre ancora nel materiale che è distribuito).

Basta però accennare alla scelta di fondo di ricercare un rendimento occupazionale delle risorse che sono invece solitamente distribuite indipendentemente da un disegno di sviluppo settoriale; all'idea di espandere la quota manifatturiera rispetto a quella dei servizi; alla prospettiva di attenuare gli squilibri, come la sperequazione del reddito o la disoccupazione, che possono derivare dal progresso tecnologico; al risultato auspicabile di aumentare il gettito contributivo con evidenti benefici per le pensioni e il diritto alla salute; alla possibilità di ricreare le condizioni per la ripresa della domanda interna non solo in termini di consumi tradizionali; all'occasione impagabile di riappropriarsi del proprio tempo da parte delle lavoratrici e dei lavoratori.

Siamo di fronte, per ora, solo ad un percorso. Sta a noi renderlo probante con scelte nette, confronti ulteriori, coinvolgimenti anche esterni al sindacato.

Nel confronto difficile che si apre con un'inedita compagine di destra che governerà il nostro Paese, è di ottimo auspicio poter rafforzare l'autonomia delle nostre proposte a partire dal confronto che si apre già da stamani. E contrapporre a improbabili regali di un milione di posti di lavoro - posto più, posto meno -, una linea di radicale ripensamento del tempo e di sviluppo economico fondata su alcune delle condizioni che condividiamo del piano Delors (un comune sviluppo sostenibile, il ripristino delle protezioni sociali, un patto sociale), senza peraltro nulla sacrificare di quella varietà di diritti civili e sociali dei quali le lavoratrici e i lavoratori italiani si possono fregiare perché li hanno conquistati con grandi lotte, con una ferma unità, con una straordinaria capacità di adeguamento delle proprie strategie.

8 . APPENDICE

8.1 Orari di fatto, orari contrattuali, contrattazione degli ammortizzatori sociali

La strumentazione contrattuale e legislativa per normare l’orario di lavoro è inadeguata e calibrata sul concetto di tempo connaturato all’organizzazione taylorista del lavoro. Mentre le leggi sono addirittura improntate ad una scansione della giornata e della settimana che tiene conto solo di lunghezza/durata, i contratti hanno cercato, con una proliferazione di istituti ormai di difficile integrazione, di adeguare il negoziato sui luoghi di lavoro alla trattazione dei parametri di densità/intensità.

Ma nulla si occupa di quei concetti di attenzione, di previsione, di comunicazione introdotti dal trattamento e dall’elaborazione delle informazioni. Con le leggi siamo ancora ai tocchi delle campane (48 ore settimanali!); con i contratti all’orologio e al cronometro; il calcolatore e il tempo ad esso connaturato non sono presi in considerazione. Se si pensa che l’Europa vorrebbe uniformare la propria legislazione al “tocco di campane”, si può ben evidenziare il distacco tra le relazioni sindacali e l’evoluzione dell’assetto sociale e produttivo.

Questo distacco è ancor più evidente se si tiene conto degli orari di fatto. E qui c’è da trarre una lezione molto significativa. Il possesso e l’espropriazione del tempo sono un prodotto di rapporti di produzione e di rapporti sociali storicamente definiti, non certo di aspirazioni o di imposizioni tecniche e necessità economiche oggettive.  La crisi infatti ha sortito come effetto l’aumento di ore lavorate per gli occupati e la riduzione dell’orario per gli “esuberi” pagato dalla comunità attraverso gli ammortizzatori; la contrattazione ha svolto solo una debole azione difensiva, mentre la vera novità è data dalla ridistribuzione operata dai contratti di solidarietà.

Vale la pena di esaminare con precisione lo stato della normativa contrattuale per le categorie dei lavoratori privati e pubblici. Noi lo abbiamo fatto per 12 categorie e 27 settori. Abbiamo poi confrontato gli orari di fatto per il ‘92 e il ‘93. E in fine abbiamo valutato il rilievo che assumono nella Lombardia i contratti di solidarietà nell’industria e - caso nuovo ed eccezionale - nell’artigianato.

Alcune schede del materiale allegato illustrano in dettaglio tale studio.

Qui vogliamo avanzare alcune considerazioni sulla confusione ormai presente tra gli istituti contrattuali (ben sette distinti istituti concorrono a determinare l’orario giornaliero, settimanale, annuo); sulla inadeguatezza, già anticipata, ad adattarsi alla nuova concezione del tempo che prevarrà negli sviluppi futuri di questa epoca; sulla forbice tra orari di fatto di chi ha lavoro e orari differenziati nelle aziende in crisi; sulla novità e l’autentica rottura conseguente alla massiccia diffusione dei contratti di solidarietà.

1) Situazione contrattuale nazionale

Se ci si riferisce alle ore prestate contrattualmente nell’arco dell’anno, è più semplice uniformare i confronti fra le categorie, una volta sfrondati i dati delle peculiarità degli istituti accessori (ex festività, ROL, ferie etc.). È incredibile come già oggi ci sia una diversificazione amplissima tra i settori , al punto che tra le 1558 ore dei postelegrafonici e le 1782 ore degli edili, ci corrono 28 giornate lavorative di 8 ore, con una oscillazione di più o meno 7% rispetto alla media. Anche i giorni impegnati nell’anno hanno un’escursione notevole: da 231 a 278 (con 134 e 87 giorni liberi). I permessi retribuiti stanno tra 40 e 104 ore (5 e 13 giorni rispettivamente). Le ferie stanno tra i 20 e i 28 giorni.

L’orario settimanale medio è ovunque inferiore - contrattualmente - a 40 ore e giunge a 37,5 tra i bancari, a 36 ore nel pubblico impiego e 35 ore tra i postelegrafonici. La flessibilità contrattata su base settimanale segue tre tipologie: una prima fissa limiti massimi settimanali; una seconda fissa i limiti annui; una terza fissa entrambi. Il recupero delle ore di supero dovrebbe essere la norma; i “pacchetti” disponibili arrivano fino a 90 ore nell’anno. All’istituto della flessibilità va aggiunto quello, differente, dello straordinario, meno soggetto a programmazione su un arco temporale vasto e, contrariamente alla flessibilità, non vincolato sempre a informazione preventiva.

È facile trarre una prima considerazione: l’enorme differenziazione tra settori e su più istituti della regolamentazione dell’orario, denuncia la rincorsa ad una situazione in evoluzione, che un sistema di relazioni sindacali ancorato al modello tayloristico cerca di coronare vanamente di successo.

Ci sembra che un punto fermo potrebbe ritrovarsi nel prendere atto del nuovo modello di organizzazione della produzione e del lavoro, nell’approfondirne le implicazioni su tempo, orario, tipologia della prestazione, nell’integrare e razionalizzare i vari istituti (che spesso sono solo residui storici di conquiste non più attuali) e soprattutto, nell’organizzare la durata e il controllo dell’orario su base annuale con un diritto preventivo a stabilire il calendario e a verificarne in corso d’opera l’attuazione.

Questa impostazione è aperta a tener conto non solo delle esigenze dell’orario sul luogo di lavoro, ma anche dell’integrazione di esso ai ritmi sociali e al diritto individuale al tempo liberato di cui abbiamo già fatto cenno e che tratteremo più diffusamente nel paragrafo dedicato agli orari sul territorio e delle città.

2) Gli orari di fatto nel 1992 in Lombardia

Abbiamo considerato una ricerca su un campione per il 1992 dell’industria in Lombardia. L’indagine sugli orari di fatto è stata fortemente influenzata dall’andamento economico contingente dall’estensione della cassa integrazione e dalla crisi delle grandi industrie. Dal ‘91 al ‘92 l’aumento della cassa integrazione era stato del 71%, mentre l’utilizzo degli impianti si era ridotto al 73% già a metà ‘92.

Su una media di 1760 ore annue contrattuali, un lavoratore chimico ha lavorato in media per 26,5 ore di straordinario: cioè tutto il settore ha aumentato dell’1,5% l’orario contrattuale. Per i meccanici l’aumento è stato addirittura del 3% (49 ore annue procapite medie). Perfino i tessili hanno aumentato del 2,1% le prestazioni di lavoro con gli straordinari.

Eppure, la cassa integrazione ha portato a contrarre gli orari per l’1,3%, il 3,3%, il 6,5% nel chimico, meccanico, tessile rispettivamente (117 ore annue quelle ridotte procapite tra i lavoratori tessili).

Occorre avanzare due riflessioni:

- poiché sono distinti i lavoratori e le lavoratrici che fanno gli straordinari o che vanno in CIG, è evidente che tra i lavoratori a tempo pieno l’impennata di straordinari è stata altissima, nonostante la crisi;

- nei settori con crisi diffusa come il tessile, già ora l’orario medio è risultato di 1.690 ore, contro le 1773 contrattuali. In media si è già ridotto a 37,5 ore l’orario, senza che gli industriali si siano stracciati le vesti. Evidentemente perché il costo della riduzione era a carico dello Stato e del lavoratore, mentre l’occupazione veniva ridotta del 2% con un risparmio ulteriore dei datori di lavoro a causa del massiccio ricorso agli straordinari per gli occupati rimasti.

È difficile sfuggire alla considerazione per cui l’attuale meccanismo contrattuale accoppiato a CIG comporta un uso delle risorse a danno solo dell’occupazione e a vantaggio invece delle imprese: lo straordinario assorbe nuova occupazione a costi inferiori; la CIG corrisponde al finanziamento che lo Stato profonde ad una riduzione di orario dovuta alla crisi, ma non funzionante all’atto della ripresa per creare nuovi posti di lavoro stabile ad orario ridotto.

3) I contratti di solidarietà in Lombardia

In base ad una legge recente (D.L. n. 148 del 20/5/93) è possibile in caso di crisi ridurre l’orario di lavoro di tutti i dipendenti per consentire a tutti di mantenere un rapporto di lavoro con l’azienda. La riduzione è finanziata per il 75% da un fondo statale: la retribuzione del lavoratore viene pertanto ridotta solo di 1/4 rispetto alle ore non lavorate (ad esempio, passando da 40 a 32 ore, la retribuzione percepita è di 38 ore).

Una apposita scheda dettaglia i risultati della contrattazione della legge in Lombardia.

Ad aprile le aziende che hanno contratto accordi di solidarietà sono 170 per 49.200 addetti. I dipendenti posti ad orario ridotto sono 19.420 e i licenziamenti rientrati a seguito del nuovo orario sono 7673.

Ci sono aziende di prima grandezza (ABB, Olivetti, Falck, Corneliani, FIAT, Iveco) ed una altissima concentrazione in aziende meccaniche e tessili e commerciali (49, 52 e 20 rispettivamente). Molto interessante è l’estensione ad aziende dei trasporti, giornali, edilizia.

Nelle aziende artigiane si è attivato un meccanismo innovativo che consente di integrare il salario attraverso uno strumento mutualistico come l’ELBA e di fare così della solidarietà non solo un elemento interno agli occupati di una azienda, ma anche un collegamento tra grande e piccola azienda a difesa del settore più esposto ai licenziamenti.

In totale in questo settore si sono stipulati 114 Contratti di Solidarietà per 810 dipendenti: è senz’altro straordinario avere adottato la riduzione e la ridistribuzione dell’orario per evitare licenziamenti in unità produttive dove solo 10 anni fa esisteva ancora il licenziamento “ad nutum”.

Nella proposta finale cercheremo di stabilire un collegamento anche temporale tra le scadenze di riduzione di orario per tutte le lavoratrici e i lavoratori e il consolidamento dell’orario ridotto di chi ha sottoscritto l’accordo di solidarietà, quando esso verrà a scadere con pericolo di licenziamenti.

8.2 . La situazione in Europa, l’ipotesi del libro bianco di Delors, le esperienze francesi e tedesche

C’è un dibattito che coinvolge la commissione CEE sulla durata dell’orario di lavoro. Esso procede soprattutto per incursioni di “lobbies” e per risposte diplomatiche dei governi, ma non sembra posizionarsi all’altezza di un progetto per il futuro, e nemmeno in sintonia con il pur criticabile libro bianco di Delors.

L’Europa vede coesistere orari di lavoro più disparati: l’integrazione di essi non sembra così interessante per i Governi come quella di tutte le variabili monetarie oggi sotto attenzione. Eppure, se si deve pensare al futuro, la risorsa tempo andrà necessariamente meglio valorizzata.

E’ curioso verificare come nell’ultimo decennio l’orario di lavoro annuo è aumentato in Svizzera (1969 ore/anno ma negli Stati Uniti siamo a 1904 ore e in Giappone 2119!), diminuito moderatamente in Svezia e Gran Bretagna e Francia, diminuito nettamente in Germania (dove siamo già a 1600 ore) in Danimarca, in Olanda, in Austria.

Alcuni Paesi hanno già introdotto misure di riduzione dell’orario di lavoro, che abbiamo esaminato nella documentazione sul piano Delors, distribuito tra il materiale del Convegno.

C’è un crescente interesse alla possibilità di combattere la disoccupazione mediante misure che consentano di ripartire il monte ore lavoro disponibile tra un numero maggiore di lavoratori e di accompagnare tali iniziative con una riduzione stabile dell’orario.

Olanda, Danimarca, Belgio e Germania hanno conseguito un notevole incremento occupazionale nel periodo 83-91, pur a seguito di un contenuto incremento del monte ore lavorate totale. Ciò a seguito di una notevole redistribuzione del lavoro (in particolare in Olanda e Danimarca, con suddivisione dei lavori e part-time) e di una corposa riduzione di orario. Spagna e Portogallo hanno ampliato l’occupazione a seguito di una rapida crescita economica. La Gran Bretagna, nonostante effetti negativi sull’orario, comincia a registrare un aumento di posti di lavoro come conclusione del durissimo ciclo di licenziamenti e di riconversione della Thatcher: questo debole segnale non è ampliato affatto da politiche sull’orario. L’Italia, ormai in fase di recessione, registra i risultati più negativi riguardo all’occupazione, se si escludono Grecia e Irlanda in grave crisi, proprio perché le politiche dell’orario qui sono inesistenti (si vedano le note precedenti sugli orari di fatto).

Lo scenario di debole e incerta ripresa di questi mesi in Italia assomiglia molto allo scenario esaminato per i Paesi del Nord Europa. Anche una ripresa più consistente di quella annunciata non sarebbe efficace per il riassorbimento dell’occupazione se non si accompagna a politiche nette e decise di ridistribuzione e riduzione dell’orario, a cui si dovrebbero accompagnare occasioni di lavoro collegate alla funzione del tempo liberato.  Molti autori hanno sottolineato la scissione strutturale tra produttività e occupazione e, per questo, hanno indagato, oltre a indispensabili scenari nuovi di sviluppo, anche l’area di lavoro non mercantile o autogestito. Torneremo su tutto questo quando parleremo degli orari a livello territoriale o nelle città.

Una scelta europea non riguarda solo la possibilità di fare confronti omogenei in un’area affine del mondo. Riguarda la collocazione nella sede più appropriata di quell’inversione della politica economica, che può ottenere consenso ed efficacia non più a livello solo nazionale (dove, anzi, ricompaiono ricette nefaste come quelle liberiste già sperimentate, contro cui il sindacato italiano deve condurre una battaglia intransigente anche per ragioni europee).

Esaminiamo di seguito alcune proposte ed esperienze in corso in Europa.

1)      Ci sembra interessante analizzare il piano di Delors, “snobbato” dagli Esecutivi di tutta Europa nonostante esso si muova su una linea “pre-keinesiana” in corrispondenza con il trattato di Maastricht. Non per farci incantare da qualcosa che non c’è, ma per avanzare critiche opportune in un contesto comunque interessante per l’ottica in cui avanzeremo la nostra proposta.

          Si parte dalla constatazione che la crescita in Europa risulta meno efficace per l’occupazione rispetto agli USA e al Giappone che, per le loro caratteristiche strutturali, non sono indicati come nostri modelli. I rimedi sembrano essere indicati in una strategia comune articolata su tre grandi questioni: un comune sviluppo sostenibile, il ripristino delle protezioni sociali, un patto sociale che ripristini la solidarietà generazionale e quella tra occupati e disoccupati. Accanto ad uno scenario diverso da quello attuale, Delors avanza la richiesta di riduzione di orario non a parità di salario, di allargamento della flessibilità del mercato del lavoro (secondo lo scambio “meno rigidità e stabilità, ma protezione per tutti”) di diminuzione del costo del lavoro, con riduzione degli oneri, ma non del salario.

          Il libro bianco non sostiene la riduzione generalizzata dell’orario ma critica l’azione di retroguardia dei Governi, che hanno compensato con iniziative a valle gli interventi di ristrutturazione delle imprese e di taglio delle spese sociali, non occupandosi della disoccupazione, ma solo dei suoi effetti da limitare.

          Delors ha sfiducia nella contrattazione e consiglia come strumento l’intervento legislativo verso i deboli e le nuove generazioni, così da costruire posti di lavoro aggiuntivi a disposizione della forza lavoro più svantaggiata.

          Ripartire il monte complessivo di ore-lavoro tra più posti di lavoro non penalizzando il part-time e disincentivando lo straordinario; flessibilizzare il mercato del lavoro; ridurre l’orario solo se il reddito è elevato: questa è la conclusione che riguarda invece la forza lavoro stabile.

          Molti spunti sono interessanti: totalmente nuova è la premessa di rilancio dello sviluppo (in settori nuovi come telecomunicazioni, energia, trasporti) come precondizione alla ripresa di occupazione.

2)      Nel novembre del 93 in Francia è stata varata una legge che è indicativa del mutamento di scenario con cui la politica già fa i conti, mentre le forze sociali, tranne che in Germania, sembrano più in ritardo. In questa legge si fa riferimento all’orario annuo e ad un lavoro ridotto (33 ore) con meno salario (anche se contrattato), nonché a riduzione degli oneri sociali purché ci sia l’impegno ad assunzioni ed ad eliminazione degli straordinari.

3)      Vale la pena di accennare, anche all’accordo Volkswagen, ormai a tutti noto, e a quello tra IG Metall e Gesamimetall, che ci sarà illustrato dai nostri ospiti del sindacato tedesco. In quest’ultimo la novità sta nell’accordo a imboccare la strada della riduzione a 30 ore tutte le volte che insorgono problemi di esubero. È proprio una cultura nuova che si fa avanti e che, pur nella peculiarità economica tedesca, rappresenta a nostro giudizio un modo di intendere la politica e la società non più funzione del sistema di impresa e della sua espansione a qualsiasi costo.

          Qui siamo già oltre perfino la proposta che noi avanziamo oggi, e che stranamente incontrerà grandi diffidenze nello stesso sindacato. E cioè, a partire da 1.550 ore annue e 36 settimanali, si sperimenta un rapporto tra flessibilità e crescita dell’occupazione nello spazio tra 30 e 36 ore, con riduzione contrattata del salario.

4.      Alcune organizzazioni politiche (le donne del PDS) o sindacali (la Cisl , la CdL di Brescia) , alcuni sociologi, economisti o uomini politici (in particolare Carniti, Lepenies, Aznar, Somaini, Gorz) hanno formalizzato proposte sugli orari. Esse sono riportate per esteso nel materiale allegato al Convegno. I tratti più interessanti ad esse comuni si possono così riassumere: si conviene che la crescita di produttività collettiva debba dar luogo a riduzione generalizzata di orario; si prevede un intervento di defiscalizzazione a sostegno della riduzione; l'orizzonte di calcolo non è più la giornata o la settimana, ma un arco di tempo tendenzialmente coincidente con l'anno; si propende verso una autogestione del tempo; il contesto è sovranazionale o, perlomeno, europeo; le ipotesi si spingono al di sotto delle 35 ore.

La proposta della Cisl, che mutua molte delle conclusioni della "Commissione per lo studio e la formulazione di ipotesi di modernizzazione della normativa vigente in materia di tempi del lavoro" presieduta da Rino Caviglioli e nominata dal Ministro Giugni, articola una gamma di interventi molto interessanti e innovativi, quali l'istituzione di un fondo per la riduzione sostenuto dalle maggiorazioni per straordinari, la riduzione degli oneri sociali al di sotto delle 32 ore, la flessibilità del pensionamento.

          Abbiamo tratto molti spunti dal dibattito aperto per aticolare in modo conveniente la proposte di questo Convegno.

5)      Il gruppo di lavoro dei sindacati europei del Tessile Abbigliamento ha raggiunto conclusioni oltremodo significative. In esse si prevede una consistente riduzione degli orari di lavoro a parità di retribuzione, la definizione di un orario annuo effettivo di prestazione come termine di riferimento per l'omogeneizzazione delle condizioni fra i vari paesi, il riposo compensativo come regola, ulteriore riduzione per il lavoro notturno.

8.3 . Il governo degli orari sul territorio e nelle città. L’economia del tempo libero

La liberazione del tempo ha una sua funzione economica. Presso la Fondazione di ricerca europea di Dublino si sta ragionando proprio sull'opportunità di favorire politiche per lo sviluppo del "settore" del tempo libero, provocando con ciò un vero e proprio impulso alla crescita economica in generale e a quella occupazionale.

Il tentativo è quello di creare equilibrio fra offerta di tempo libero e domanda, fra qualità della vita e lavoro per la produzione di merci. Oggi questo incontro è lasciato quasi completamente alla casualità e alla spontaneità. Porsi il problema di razionalizzarlo ci costringe a misurarci nell'enorme complessità di questa problematica. Cercheremo di enuclearne solo alcuni aspetti.

Innanzitutto il tempo libero è distribuito in modo diseguale, esattamente come il tempo di lavoro. Affronteremo tale diseguaglianza nel duplice aspetto di diseguaglianza fra gli individui e diseguaglianza fra gli orari di lavoro.

Accanto al tradizionale avvicendarsi di periodi di lavoro e di non lavoro dovuti a fattori legati all'età e alla diversa attribuzione fra i sessi del lavoro connesso alla vita riproduttiva, coesistono grandi varianze a questo schema, le cui cause possono essere sintetizzate in tre grossi fattori di cambiamento:

- la regolarità della presenza delle donne nel MdL

- l'irregolarità di costanza del posto di lavoro e la tendenza alla crescita della disoccupazione stabile

- l'evoluzione della composizione e della struttura della famiglia (sono in aumento i single, le unioni libere, le famiglie con un unico genitore; le dimensioni sono più piccole).

Il quadro di questo processo ci dice che:

- aumenterà sempre di più la pressione delle donne nella richiesta di servizi più efficienti e con orari compatibili col proprio lavoro;

- aumenterà la richiesta di alcune tipologie di servizi alla persona anche grazie al venir meno, almeno nei grandi centri urbani, dell'assistenza domestica interparentale e al crescere del numero e dei livelli di autonomia della popolazione anziana ( vedi analisi nel dettaglio dell'art. 7 del Piano regolatore degli Orari per Milano vol. 2 " le analisi preliminari del piano ").

Senza una politica molto decisa di riduzione degli orari la forbice fra coloro che avranno molto o solo tempo libero ( in modo coatto e non per libera scelta) e coloro che ne avranno sempre meno è destinata a crescere.  In termini di qualità della vita lo scenario che avremmo di fronte è quello di una società regolata più da rapporti di dipendenza fra diseguali che non da reciprocità fra uguali.

L'altro fattore di diseguaglianza consiste nella diversificazione degli orari di lavoro sia nei loro aspetti quantitativi ( diversità fra i contratti di lavoro, diversità soprattutto fra donne e uomini nel ricorso a straordinari e part-time) sia in quelli qualitativi ( come nei lavori a turni).

Razionalizzare significa quindi operare per l'attenuazione di tali diseguaglianze attraverso una gestione globale del tempo che preveda il collegamento dei vari segmenti di uso del tempo sociale: la scuola / gli svaghi / gli acquisti / i servizi / i trasporti / la salute psicofisica / la produzione, come in una sorta di sistema di vasi comunicanti.

Occorre perciò ridefinire la gestione del tempo di lavoro e l'accessibilità ai servizi.

Ridefinire il tempo di lavoro nel duplice aspetto di riduzione del tempo di lavoro per la funzione redistributrice del lavoro e stimolatrice di domanda di uso di tempo libero e di controllo/negoziazione/regolazione della diversificazione degli orari.

Diversi sono i sistemi di flessibilità e distinte le loro funzioni e ripercussioni sul lavoro; in assenza di negoziazione, semplicemente prevarranno le tendenze in atto legate al massimo sfruttamento degli impianti o ottimizzazione degli assetti organizzativi con i minori costi possibili.

Favorire l'accessibilità ai servizi significa, per ciò che riguarda gli orari di apertura, porsi l'obiettivo di un superamento di un'organizzazione tradizionale del tempo di lavoro che sembra prevalere con particolare accentuazione nella pubblica amministrazione.  

Ciò provoca un'eccessiva sincronizzazione degli orari di attività diverse, l'incompatibilità tra i diversi sistemi di orario con affollamento di tempi e di spazi. Alcuni effetti vistosi nelle città sono congestione del traffico, sovraffollamento e saturazione. Naturalmente a risentirne maggiormente sono in particolare alcuni soggetti, come le donne, la cui percezione del "tempo che manca" è assillante.

Non vi è dubbio che, essendo il tempo di lavoro nei servizi consumato in tempo reale, un'estensione degli orari di apertura viene percepita in genere come un miglioramento della qualità della vita, proprio perché implica un maggior controllo del tempo e una maggiore libertà di scelta. Tuttavia, flessibilizzare il lavoro nei servizi non è semplice. Possono sorgere contrasti di interessi fra lavoratori e utenza, se ad esempio il lavoratore dei servizi subisse come conseguenza, a sua volta, una minore accessibilità ad altri servizi oppure se, in assenza di controllo sindacale, il prolungamento degli orari di funzionamento comportasse un peggioramento delle condizioni di lavoro.

I fattori di resistenza ci sono ed è inutile ignorarli. Giocano resistenze culturali a modifiche nelle abitudini della gestione del tempo nelle relazioni sociali e familiari e per i timori di isolamento: gli orari standard creano sensazioni di sicurezza mentre un riesame dei tempi obbliga i soggetti a reimpostare la propria esistenza anche in termini psicologici nei confronti della propria autonomia e capacità di scelta nel disporre del proprio tempo. Insomma, sono in gioco cambiamenti culturali profondi, non esclusi quelli simbolici e religiosi che necessitano di tempi di adattamento non brevi e della massima condivisione possibile. Ciò non toglie l'estrema urgenza di un governo più razionale ed armonico dei tempi della città e del territorio.

Esistono già molte ricerche effettuate sia a livello europeo sia in Italia grazie alla Legge 142/90 che attribuisce ai sindaci competenze nel coordinamento degli orari degli esercizi commerciali e dei servizi pubblici con lo scopo di armonizzare l'erogazione dei servizi alle esigenze dell'utenza. A Milano è stato siglato un protocollo tra Istituzioni e Cgil Cisl e Uil.

Sono già state evidenziate proposte e progetti e sono in corso sperimentazioni (come a Roma) che tengono conto dei cambiamenti in atto prima citati. Piani regolatori degli orari per le città sono già stati definiti o in corso di definizione (Modena, Bolzano, Como, Varese). Le proposte riguardano i vari settori dalla scuola agli svaghi, dalla pubblica amministrazione alla sanità e trasporti, dalla distribuzione commerciale al credito, ecc. Un bagaglio di conoscenze e di possibilità di intervento politico che non dovrà essere trascurato.

Le proposte dovranno vedere il sindacato come attore di negoziazione con le istituzioni. Dovranno essere percorse fasi di sperimentazione, lasciati aperti spazi di creatività collettiva, con i massimi livelli di informazione alla cittadinanza.

La posta in gioco non riguarda solo gli orari di fruizione dei servizi ma anche un loro raccordo con l'organizzazione del lavoro e con l'uso dei sistemi informatizzati (come gli sportelli delle banche o l'autocertificazione della p.a.)

Da ultimo, si aprono interrogativi e questioni di fondo di enorme rilevanza strategica come la riorganizzazione del welfare.

Come assicurare l'ampliamento di servizi che siano efficienti e fruibili per una tipologia di utenza sempre più diversificata nei bisogni e nelle aspirazioni, che non creino ulteriori diseguaglianze di accesso e di reddito e non accentuino il dualismo, peraltro già in atto, fra un pubblico "scadente" e un privato "efficiente"?. Forse è il momento di riprogettare il tempo liberato in modo da creare forme nuove di erogazione di servizi di pubblica utilità, forme di cooperazione con finanziamenti misti fra pubblico e privato in una sorta di micro welfare e di scambi di servizi in nuove forme di reciprocità.

La posta, anche politica, di una nostra iniziativa in questa direzione è alta. C’è infatti una stretta connessione tra un ridisegno degli orari a livello territoriale e lo sviluppo di modelli di democrazia decentrata, l'attribuzione di risorse agli enti locali, la valorizzazione di un localismo né antisolidale né reazionario.

NOTE


[1] Relazione introduttiva di Mario Agostinelli Camera del Lavoro di Milano 9-10 maggio 1994