DALL’ITALIA, CRONACHE MARXIANE[1] Il maestro, l'allievo e la critica alla malattia speculativa della filosofia italiana Un seminario in tre tappe alla Casa delle Letterature di Roma su due filosofi eterodossi della nostra cultura. Le opere di Galvano Della Volpe e Lucio Colletti alla luce della loro eredità teorica. Concorde è stato il giudizio sulla rottura operata con lo storicismo e sul controverso tentativo di presentare il marxismo come scienza esatta. Teorici in gabbia Una lettura innovativa di Marx che non seppe affrontare le sfide della «rivoluzione mondiale del Sessantotto». Roberto Ciccarelli C'era una volta il marxismo italiano. Da quando gli intellettuali e i partiti della sinistra conquistati dalla sirena neo-liberale hanno rinunciato ad una politica di egemonia culturale in Italia, la sua storia riposa da un trentennio nei cassetti di pochi chierici dediti alla compilazione di commenti e glosse al testo marxiano. Una delle occasioni per riparlarne, ripensando ad uno dei suoi momento fondativi, la teoria di un Marx critico radicale di Hegel e della polemica contro lo storicismo italiano che tracciava una continuità tra loro imponendo, sul piano nazionale, una linea interpretativa che univa De Sanctis, Labriola, Croce e Gramsci, è stato il convegno organizzato dall'assessorato alla cultura del comune di Roma, dalla «Casa delle letteratura» e dalla «Fondazione Lucio Colletti» svoltosi a Roma dal 30 settembre al 5 ottobre su Galvano della Volpe, Lucio Colletti e il materialismo italiano. Strano destino quello del maestro e dell'allievo: il primo è stato il teorico dell'antihegelismo marxiano. Il secondo, pur partendo dalle stesse premesse, giungeva alla fine degli anni 70 ad un anti-marxismo radicale. Due personalità complesse, ugualmente eterodosse, che hanno condiviso da protagonisti la stessa vicenda, quella del marxismo italiano. Il primo si oppose strenuamente allo storicismo gramsciano rielaborato da Togliatti, evento piuttosto raro che non gli creò molte simpatie nel partito comunista, ma che lo portò ad elaborare l'idea di una continuità filosofica e scientifica tra il giovane Marx, il cosiddetto «scienziato morale», e il Marx più maturo, lo studioso dell'economia politica del capitalismo. Colletti raccoglieva l'eredità del maestro durante le sue lezioni all'università di Roma nei primi anni 60 quando, forse unico docente in Italia, glossava riga per riga le pagine del primo libro del Capitale, in particolar modo quelle dedicate alla circolazione semplice delle merci. La morale di Galileo Uno dei meriti storici che vanno riconosciuti al maestro e al discepolo è senz'altro la rottura con la tradizione storicista italiana e poi con quella del materialismo dialettico di Lissenko, il famigerato diamat, quella dottrina dogmatica imposta a livello internazionale dagli accademici sovietici. Sia pure scontando alcuni limiti, derivanti dalla cultura idealistica italiana fondata su una pesante ipoteca umanistica di fondo, Della Volpe prima e Colletti poi, impostarono una «svolta scientifica» del marxismo che consisteva nel ritorno alla lettera di Marx, e in una «logica filosofica intesa come scienza storico-sperimentale» ispirata «a quella filosofia della scienza di cui i primi fondamenti metodologici sono stati posti da Marx nella sua critica all'idealismo hegeliano» scriveva Della Volpe in Logica come scienza positiva del 1950. La rivolta dellavolpiana contro il materialismo dialettico avveniva nello stesso decennio in cui, nel 1946, Giulio Preti pubblicava sul Politecnico un saggio in cui sosteneva che il diamat era una metafisica, e quindi una filosofia antiscientifica, e Ludovico Geymonat pubblicava nel 1956 un saggio sul Contemporaneo, l'inserto di Rinascita, intitolato «Troppo idealismo», in cui rivendicava contro l'idealismo gentiliano-crociano la tradizione scientifica da Galilei fino a Cattaneo per lanciare una nuova stagione «neo-illuminista» nella filosofia italiana. E in quello stesso anno licenziava per Einaudi il suo libro su Galileo. Della Volpe introduceva in questo dibattito il principio della sperimentalità, essenziale per le scienze naturali, anche nell'ambito delle scienze umane. Gli diede anche una definizione, quella di «galileismo morale». «La sua critica - sottolinea Giulio Giorello, allievo di Geymonat a Milano - colpiva l'idealismo del movimento operaio, influenzato da Croce e Gentile, ignorando che la tradizione scientifica italiana era antiautoritaria». In piena battaglia anti-stalinista, il ritorno a Galileo era dunque un segnale forte. Il galileismo morale di Della Volpe - continua Giorello - «stabiliva il valore dall'esperienza nella conoscenza perché è da essa che nascono le ipotesi, si verificano alcuni fatti, da cui seguono conferme o disprove». Da questo rigore sperimentale, ai limiti del positivismo, anche se attento alla metodologia scientifica della ricerca (morale, oltre che logica), discendeva la tesi di un marxismo inteso come galileismo delle scienze sociali, insomma una critica dell'economia politica come scienza esatta, niente di più o di meno della biologia o dell'ingegneria meccanica. In un'intervista all'Espresso del 1965 Della Volpe affermò che la filosofia «è sociologia, politica, economia, storia»: insomma aveva perso la sua autosufficienza speculativa ed adottato il rigore dell'analisi sociale. Era una sfumatura importante: con il suo scientismo Della Volpe non intendeva affondare lo storicismo in quanto tale, ma attaccava la sua derivazione idealistica a favore di quella materialistica. Alla luce di queste dichiarazioni riesce difficile spiegare la sua sottovalutazione delle ricerche sociali della scuola di Francoforte, accompagnate dal rigetto della Dialettica dell'illuminismo di Theodor W. Adorno e Max Horkheimer. «Si tratta dell'ennesima reazione spiritualistica, romantica nel fondo, contro la tecnica e la moderna organizzazione sociale» scriveva sul Contemporaneo nel 1966. E Colletti aggiungeva, con l'ironia sprezzante che certo non gli mancava, su Problemi del socialismo nel 1967: un libro banale. Al di là del giudizio sul libro, al maestro e al discepolo, pur non essendosi mai cimentati con la ricerca sociale, non piaceva la sociologia moderna di ambiente tedesco ed anglosassone che, leggendo la società attraverso funzioni impersonali e i sistemi sociali, superava la loro idea di filosofia «galileiana». Della Volpe, e poi Colletti, si scagliavano contro «la malattia speculativa di cui soffriva il marxismo in quegli anni - ricorda Emilio Garroni che in quegli anni insegnava estetica a Roma - Ma quel materialismo storico, pur confortato da verifiche scientifiche, aveva anch'esso limiti idealistici che lo dilatarono a teoria della storia». Erano limiti che riportavano il loro furore anti-hegeliano al punto di partenza: entrambi non si rassegnavano al fatto che Marx avesse intrattenuto rapporti molto intensi con Hegel sin dalla giovane età. L'atteggiamento di Dalla Volpe verso Hegel era mutuato dal Marx della Critica della filosofia del diritto di Hegel, di cui curò la prima traduzione per Editori Riuniti nel 1946, poi emendata e riscritta con il titolo Critica del diritto statuale hegeliano da Roberto Finelli e Francesco Trincia per le Edizioni dell'Ateneo nel 1983. Hegel fu anche il cuore del dramma teorico di Colletti (Il marxismo e Hegel). Si consumò nel giro di un decennio, tra la pubblicazione nel 1969 di Ideologia e società e il 1979 con Tra marxismo e no, passando attraverso il libro rivelatore della crisi del suo marxismo che fu l'Intervista politico-filosofica del 1974. Colletti andava cioè scoprendo che le ascendenze dell'aristotelismo antiplatonico, o dell'empirismo inglese di Hume erano secondarie rispetto a quelle derivanti dalla Scienza della Logica di Hegel. Ma trascurava ugualmente di vedere che Marx si liberò di Hegel nei Grundrisse e nel Capitale, sostituendo alla logica dell'essere e del nulla quella dell'astratto e del concreto, aprendosi così al metodo e alla dialettica dell'astrazione reale. Questa parabola è evidente nella loro formulazione di lavoro astratto usato in termini logico-epistemologici e non come figura storica della forza-lavoro. Sarà poi l'operaismo da Mario Tronti ad Antonio Negri, fino a Paolo Virno, ad individuare nel lavoro astratto la cruna dell'ago dove passare per porre il problema della classe operaia come soggetto politico: «Noi abbiamo usato la loro lettura materialistica del capitale - osserva Mario Tronti - e ci abbiamo aggiunto una storia della lotta di classe». Il successivo distacco di Colletti dal marxismo, a cui attribuiva negli ultimi anni una filosofia della storia di tipo totalitario e reazionario sull'onda di un certo revisionismo propagandistico e virulento, esemplifica la crisi forse irreversibile del marxismo italiano, ma evidenzia allo stesso tempo alcune costanti nella cultura filosofica italiana. In primo luogo bisogna dire che la battaglia anti-hegeliana di Della Volpe e Colletti, al di là della loro effettiva lettura di Hegel, rivoluzionò la genealogia del marxismo ufficiale di ascendenza engelsiana (fondato sulla Dialettica della natura e sull'Antidühring). Quella rottura scontava tuttavia il limite di una lettura che imponeva una continuità tra il giovane Marx e quello del Capitale, e quindi l'estensione di un paradigma umanistico all'intera opera del pensatore tedesco, negando i risultati più avanzati ottenuti in quegli stessi anni da Louis Althusser (in Per Marx e Leggere il capitale) che sancivano invece l'esistenza di una rottura epistemologica tra i lavori del giovane Marx e il Capitale, un salto di paradigma interpretativo che trovava nella famosa introduzione alla Critica dell'economia politica del 1857 la sua premessa essenziale. Della Volpe e Colletti non accettavano invece la tesi dei due Marx: il Marx dell'alienazione e della contraddizione e il Marx dell'astrazione reale. Per loro Marx partiva da una specie di metafisica del soggetto, dall'idea cioè che l'uomo in qualità di produttore fosse il dominatore della natura e della storia. Ne discendeva una tesi correlata: l'alienazione era il prodotto della contraddizione tra le forze produttive e i rapporti sociali di produzione che tendevano a svuotare la potenza produttiva dell'homo faber. A quest'ultimo toccava il compito di riappropriarsi della sua essenza originaria espropriata dal capitale. Era un marxismo senza capitale, che non solo non vedeva la dialettica astratto-concreto del capitale, ma curvava l'ispirazione organicistica originaria di Marx desunta da Feuerbach in senso scientista o materialista. Salto di paradigma Nelle lezioni, frequentate da gran parte della generazione che avrebbe fatto il Sessantotto romano, Colletti andava così elaborando una lettura del capitale attraverso la teoria dell'alienazione del giovane Marx, rifiutando l'idea che il capitale fosse il prodotto di una contraddizione in processo. Rifiutava cioè quella paradossale scoperta dell'astrazione reale che Marx fece nel Capitale compiendo una vera e propria rottura epistemologica ed antropologica rispetto ai testi giovanili: la Questione ebraica, i Manoscritti economico-filosofici del 1844 e l'Ideologia tedesca. Per Mario Tronti, Colletti «si era imbucato in questa via del marxismo come scienza esatta che doveva servire alla politica». Ma alla politica non è mai servita una scienza esatta: «Il marxismo - continua Tronti - è un'analisi del capitalismo in funzione della teoria della rivoluzione. L'analisi è un procedimento quasi militare di aggressione dell'oggetto scientifico». Per questo il marxismo non può essere considerato una scienza, ma un dispositivo teorico di lotta. Della Volpe, a suo modo, lo usava nella sua Critica dell'ideologia dominante del 1967, quando criticava la democrazia rappresentativa, e la sua ideologia, proponendo un diritto post-borghese che «consentisse ad ogni persona di realizzarsi attraverso la società». Che il marxismo non fosse soltanto una sociologia, ma uno strumento politico, Colletti lo aveva nel suo piccolo sperimentato negli anni della rivista trotskista «La sinistra» (1965-7), pubblicata da Savelli, che contestava il Pci e il suo riformismo, dalle stesse posizioni del movimento del Sessantotto. Ma quel movimento e, soprattutto quello dell'autonomia del 1977, contestò violentemente il suo magistero accademico. Colletti non ne capiva affatto la vocazione anti-autoritaria e se ne doleva profondamente, anche perché la «sinistra ufficiale» non lo difese perché troppo impegnata a difendersi a sua volta dai duri attacchi del movimento. Colletti maturò così altre scelte, improntate ad un rapporto preferenziale con i leaders politici, Craxi e Berlusconi in particolare. «La sua vocazione era quella di condizionare le scelte politiche - aggiunge Tronti - e cercava il luogo in cui questo era possibile». Una vocazione politica che ha prodotto in realtà pochi risultati e ha accompagnato lo spegnersi della sua analisi filosofica a mera testimonianza. «Era il precursore - continua Tronti - di un intellettuale di sinistra, anche marxista, rigoroso nel suo specialismo, e ce ne sono molti in giro, che quando parla di politica si sente in dovere di essere portavoce del senso comune e vendere concetti di bassa cucina». Ciò che lo ha salvato è l'essere stato un filosofo per una sola stagione teorica: «Colletti è stato un marxista e poi più nulla», conclude Tronti. NOTE Colletti, Il rifiuto di Marx Da Galvano Della Volpe riprese la battaglia antistoricista della cosiddetta linea «nazional-popolare» De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci. Ma dal maestro, e dalla sua versione «scientifica» del marxismo, si allontanò fragorosamente con la sua «Intervista politico-filosofica», pubblicata da Laterza nel 1974. L'uscita dal marxismo corrispondeva alla scoperta di Popper, e l'adesione alle tematiche politiche del liberalismo, recuperando parzialmente alcune correnti dell'epistemologia anglosassone rimosse in Italia. Il suo disincanto lo portò negli ultimi anni alla teorizzazione disperata della «fine della filosofia» che lo indusse ad occuparsi sempre meno di filosofia. Questa scelta improntata ad un radicale e intransigente anticomunismo di stampo liberale e ad uno scetticismo di fondo lo assimila ad una delle figure tragiche del pensiero del 900. Della Volpe, la scienza del Capitale Logica, estetica, politica e teoretica, gli interessi di un filosofo sistematico. Galvano Della Volpe scrisse di autori come Hume e Hegel sino a Gentile, ma trovò in Marx l'autore della sua maturità. Dopo la sua iscrizione al partito comunista, nel 1944, scrisse «Teoria marxista dell'emancipazione umana» (1944), la «Libertà comunista» (1946) e tradusse parzialmente la «Critica della filosofia del diritto di Hegel», «I manoscritti economico-filosofici del 1844», poi pubblicati nel 1963 in Karl Marx. Opere giovanili (Editori Riuniti). Gli anni cinquanta si aprono con il suo libro più importante La logica come scienza positiva e si concludono con La critica del gusto. La sua estetica cinematografica è confluita in «Il verosimile filmico» del 1954. Prima del Sessantotto pubblicava «Critica dell'ideologia dominante». La sua opera completa è stata pubblicata nel 1972. NOTE [1] Estratto da: “Il manifesto” del 6 ottobre 2004. |