RITORNO A KEYNES DA ... SINISTRA a cura di STEFANO LUCARELLI Riporto qui di seguito alcuni ragionamenti di Giorgio Lunghini circa la necessità di un ritorno a Keynes per uscire dalla miopia politica delle Sinistre. Questi scritti sono originariamente apparsi su il manifesto tra il 1999 e il 2003. Secondo i riformisti del centro sinistra, “fordismo e keynesismo sono termini che richiamano strategie in gran parte inadeguate a risolvere i problemi di oggi”; dunque “la sfida, estremamente affascinante, consiste nel pensare a un altro modello di sviluppo”. In questa prospettiva, ciò che distingue la destra dalla sinistra sarebbe “la possibilità di accompagnare sempre all’espressione ‘quanto’ il ‘come’”. Circa il fordismo il giudizio è scontato. L’epoca fordista, che fu la risposta democratica alla crisi degli anni Venti, è irripetibile per ragioni evidenti. Il fordismo americano, poi europeo, si reggeva sulla produzione di massa di beni di consumo durevole, all’interno di mercati in cui vi era coincidenza tra produzione e consumo. E’ dunque un sistema che non si può riprodurre per decreto, né rianimare con la rottamazione delle Seicento. La fine di quell’epoca ha però riproposto intatti i due problemi che ne erano all’origine: l’incapacità della società nella quale viviamo a provvedere un’occupazione piena, e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi. Questi sono precisamente i problemi che stavano nel cuore e nella mente di Keynes, così che la fine del fordismo dovrebbe indurre a riscoprire Keynes, anziché a trovare anche per lui un posto in soffitta. Keynes, per sua sfortuna e colpa, si è prestato a molte interpretazioni teoriche e a disegni politici di diverso segno, tra il bastardo e il criminale. Il disegno di Keynes è invece molto chiaro, poiché ragiona sui fini oltre che sui mezzi. Sul piano della teoria è difficile confutare la tesi che un’economia monetaria di produzione è strutturalmente incapace di autoregolarsi: senza un’azione deliberata, il sistema è incapace di portarci dalla nostra attuale povertà alla nostra potenziale abbondanza. Se poi si sta attenti al ‘come’, sarà difficile non condividere la filosofia sociale verso la quale questa teoria conduce. Se si conviene che la disoccupazione e diseguaglianza sono i difetti più evidenti della società in cui viviamo, oggi non meno che nel 1936, sarà infine difficile negare che per porvi rimedio occorrerebbero una politica fiscale intesa a correggere in senso più egualitario la distribuzione del reddito e della ricchezza, l’eutanasia del rentier, e una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento. Questo dovrebbe essere un modello di sviluppo affascinante, per quanti ritengano il ‘come’ ancor più importante del ‘quanto’. L’unica obiezione seria a questo disegno, è che esso non è praticabile in un paese piccolo e aperto al resto del mondo. Con l’Unione europea, le premesse materiali di questa obiezione vengono meno. Non c’è dunque bisogno di nessun nuovo “modello di sviluppo” per architettare una Unione “politicamente più solida, economicamente più forte, socialmente più giusta”. Si tratta invece di sfruttare un’occasione storica irripetibile per tentare di realizzare un keynesismo senza fordismo. Il programma giusto, per quanto riguarda i problemi economici, è per Keynes (che del marxismo accoglieva solo pochi spunti teorici, e che, pur non essendo comunista, aveva alcuni grandi amici che lo erano, Piero Sraffa in primis), ma quello ricordato sopra (redistribuzione del reddito e della ricchezza, eutanasia del rentier e una certa, non piccola, socializzazione dell’investimento). La premessa necessaria è però l’abbandono del punto di vista ortodosso, secondo cui il “riequilibrio economico può e deve essere determinato dal libero gioco delle forze della domanda e dell’offerta”. Il Tesoro e la Banca centrale (scriveva ancora Keynes) “credono ancora che nella vita economica quotidiana accadano veramente le cose che si dicono nella teoria della libera concorrenza e della mobilità del capitale e del lavoro”. Con l’entrata in vigore della delega al governo per la revisione della disciplina dei servizi pubblici e privati per l’impiego, nonché in materia di intermediazione e interposizione privata nella somministrazione di lavoro (13 marzo 2003), il governo di centro destra sferra un attacco silenzioso e tremendo allo Statuto dei lavoratori. Il testo è disponibile sul sito del Ministero del lavoro e delle politiche sociali; sotto il titolo sinistro «Lavoro in affitto senza vincoli». Il Corriere della Sera ha anticipato alcuni punti dei decreti attuativi. Li riprendo. Le imprese potranno ricorrere al lavoro interinale «in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo». Viene così cancellato il limite che assegnava ai contratti la definizione dei casi in cui è consentito il lavoro in affitto. Questa forma di ‘flessibilità’ (nulla è flessibile come una frusta) viene estesa all’agricoltura e all’edilizia. L’articolo che riguarda l’affitto di manodopera a tempo indeterminato prevede una causale generica, ma è preciso nell’elenco gaddiano dei settori in cui le aziende potranno disporne senza remore: «facchinaggio, pulizia, manutenzione, vigilanza, call center, installazione di impianti e lavori di edilizia negli stabilimenti, assistenza informatica, cura della persona, trasporti aziendali, gestione magazzini e archivi». Ai contratti è generosamente lasciata l’individuazione di «altri casi», da aggiungere all’elenco. Per quanto riguarda il «lavoro occasionale», potranno svolgerlo disoccupati, casalinghe, studenti e extracomunitari. Chi ha bisogno di piccoli servizi di assistenza famigliare, di giardinaggio, di insegnanti privati, o di preparare manifestazioni sociali, culturali o sportive, o di lavori di solidarietà o di emergenza in occasione di calamità naturali, potrà comperare dei buoni al prezzo di 7,5 euro ciascuno, validi per un’ora di lavoro, con i quali pagare gli «occasionali». In cambio di questi buoni, gli occasionali potranno poi incassare quasi 6 euro per ora di servizio (il resto andrà per la loro previdenza e assistenza). Sindacati e associazioni imprenditoriali avranno quattro mesi per disciplinare con i contratti il lavoro a chiamata, altrimenti ci penserà il governo. Sia chiaro che i lavoratori a chiamata non entreranno nel calcolo dell’organico dell’impresa, ad esempio ai fini della soglia dei 15 dipendenti. Anche la politica è una disciplina che pensa mediante modelli, e che dovrebbe combinarsi con l’arte di scegliere i modelli rilevanti per il mondo contemporaneo. In questo momento, la sinistra non mi pare abbia né modelli né capacità di scegliere, né per il presente né per il futuro. É invece chiaro il modello cui guarda la destra, che nel campo del lavoro è la corvée. In una nota al suo L’antico regime e la rivoluzione, Alexis de Tocqueville spiegava che la corvée è il diritto che il signore ha sui suoi sudditi, in virtù del quale può impiegare a proprio beneficio un certo numero delle loro giornate di lavoro o di quelle dei loro buoi o dei loro cavalli. I nobili, gli ecclesiastici, gli scrivani, gli ufficiali di giustizia, gli avvocati, i medici, i notai, i banchieri, i notabili devono essere esentati dalla corvée. Con una sentenza del 13 agosto 1735, ne era stato esentato un notaio che il signore avrebbe voluto costringere a recarsi per tre giorni a stendere gratuitamente gli atti che dovevano essere redatti nella sua signoria, dove il notaio abitava. Un’altra sentenza del 1750 dichiara che quando la corvée è dovuta o in lavoro o in denaro, la scelta deve essere lasciata al debitore. In ogni caso, la corvée doveva essere stabilita in base a un titolo scritto. La corvée è la forma premoderna del lavoro non pagato. Era stata abolita poco prima della rivoluzione francese. Gli sviluppi recenti della legislazione sul lavoro (lavoro interinale, collocamento privato, outsourcing, job on call, job sharing, staff leasing, part time), nonché alcuni recenti indirizzi di politica economica (“Le infrastrutture, turbo del PIL”, il ponte sullo stretto), mi hanno fatto venire in mente che ancor prima del keynesismo bastardo di Joan Robinson e del keynesismo criminale di Marcello De Cecco, sul finire degli anni ‘30 c’era stato un keynesismo fascista. Ne era stato esponente Alberto De Stefani, e ne racconta Aurelio Macchioro nel suo magistrale saggio su J. M. Keynes e il keynesismo in Italia, pubblicato nel 1946 su “Socialismo” e raccolto nel 1970, da Feltrinelli, tra gli “Studi di storia del pensiero economico”. In Italia Keynes aveva avuto non pochi seguaci non fascisti, peraltro criticati, e severamente, da Luigi Einaudi: Il mio piano non è quello di Keynes (1939); ma c’era anche, per l’appunto, un keynesismo fascista. Tra giugno e luglio 1939 De Stefani scrive una serie di articoli sulla Stampa, che Macchioro così commenta: “In queste pagine tu vi trovi il Fascismo delle Origini, l’influsso dell’esperienza pianificata nazista, e quel ‘keynesismo’ volto ‘a sinistra’ di cui (certo, meno scombinatamente che il De Stefani) si appassionavano certi circoli laburisti inglesi”. Questi articoli muovono dal presupposto di un potenziale di lavoro italiano cronicamente disoccupato o sottooccupato soprattutto per mancanza di pianificazione produttiva, per mancanza di razionalità dell’apparato produttivo e distributivo di lavoro. Il De Stefani, scrive Macchioro, non protesta per questo, e anzi minimizza il fenomeno della disoccupazione come tale e preferisce battere l’accento sulle possibilità di ricchezza offerte da questo potenziale di risorse umane, previa acconcia mobilitazione finanziaria e pianificatrice. Nell’Introduzione che De Stefani premette alla raccolta dei suoi articoli, egli ricorda come “il genio del Duce” gli avesse “avvalorato ed esaltato” le idee e gli orientamenti, a partire da una sua lezione del 1920 sulla Energetica economica: di tale energetica la sua campagna di stampa voleva essere stimolo, in pro delle “prospettiche” possibilità del regime cui una “dissipazione del potenziale di lavoro è logicamente contraddittoria ed eliminabile”. “La disoccupazione”, secondo De Stefani, “è un aspetto molto modesto di questo amplissimo problema dell’impiego del potenziale di lavoro, il quale buon impiego è compatibile con un’alta disoccupazione ... Il dato della disoccupazione non è dunque un indice decisivo della potenza di lavoro. ... Nessuna diserzione meno che negli inetti al lavoro per malattia è ammissibile nell’età produttiva.” In altre parole: i disoccupati sono forza produttiva che diserta il lavoro, e dunque occorre una politica economica che elimini la diserzione di massa. Secondo De Stefani, scrive Macchioro, la mobilitazione del potenziale-lavoro non è soltanto affare da ufficio di collocamento e neppure semplice assorbimento di disoccupati, che sarebbe visuale parziale e modesta, ma un ascendere “verso il lavoro ... elemento originario e definitivo della vita e della potenza delle nazioni con una manovra non costretta dai tradizionali limiti finanziari capitalistici”. Egli ritiene altresì che “una buona metà della popolazione italiana possa ... rendere assai meglio e di più che oggi non renda”, purché abbia “un adatto regime alimentare”; e che alla “attivazione economica del Mezzogiorno che il Duce vuole e persegue ... sono decisamente legati gli ulteriori sviluppi dell’economia italiana”. Macchioro considerava De Stefani e il suo superkeynesismo poco più di una curiosità. Oggi il lessico, che Macchioro giudicava “tanto immaginoso quanto innovativo”, è stato ammodernato; tuttavia prenderei De Stefani un po’ più sul serio: quasi un maestro. Tutti preferirebbero pagare meno tasse, sia i poveri sia i ricchi. L’interesse dei ricchi, capitalisti e rentier, è scontato. Aumenterebbero profitti e rendite, forme di reddito di cui chi ne gode può disporre liberamente. Capitalisti e rentier potrebbero anche destinare il loro denaro a nuovi investimenti produttivi di nuove merci e di nuova occupazione, dunque con vantaggio generale. Oggi ciò è evidentemente improbabile; più probabilmente profitti e rendite alimenteranno la speculazione finanziaria e i consumi di lusso. Questa licenza è garantita dalla Costituzione, anche se con importanti riserve: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. [...] La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». Meno intelligente è il consenso, in materia fiscale, da parte dei partiti che dovrebbero rappresentare i lavoratori. Il reddito reale di chi vive di lavoro è dato dal salario monetario percepito sul mercato del lavoro, più i servizi forniti dallo stato sociale. Con il salario si compera nei supermercati una parte di ciò che si è prodotto in fabbrica e negli uffici e che serve per la vita quotidiana; con i servizi sociali si provvede ai momenti della vita che durano più di un giorno: i momenti dei bambini, dei malati, dei vecchi. Tagliare le imposte a tutti significa tagliare i servizi sociali ai poveri. Le imposte dovrebbero essere ridotte per i poveri, non solo per ragioni di equità ma anche perché soltanto così essi potrebbero comperare qualcosa di più al supermercato (con vantaggio generale, grazie all’aumento della domanda effettiva: la loro propensione al consumo è maggiore di quella dei ricchi). Le imposte dovrebbero invece essere aumentate per i ricchi. C’è infatti un altro articolo nella Costituzione per ora vigente: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». La sinistra ha dimenticato questa semplice verità economico-istituzionale e rincorre la destra come Achille la tartaruga. Subisce ancora, miope, il fascino elettorale dei ceti medi; il cui status, in tutti i paesi ricchi, si sta spostando verso il basso. In pochi anni, la demolizione dello stato sociale colpirà la maggioranza degli elettori: con quali esiti politici, non si sa. |