NEL NOME DI CAFFE' L'UOMO DAI QUARANTA SCUDI[1] GIORGIO LUNGHINI Nell' Uomo dai quaranta scudi (Ginevra 1768) Voltaire se la prende con Mercier de La Rivière. La situazione economica della Francia era grave e i fisiocratici propugnavano l'imposta sulla terra, allora considerata l'unica fonte di sovrappiù. Ecco il primo capitolo del romanzo. Sono lieto di informare l'universo che posseggo una terra la quale mi renderebbe quaranta scudi netti, se non fosse per l'imposta che ci grava sopra. Sono comparsi parecchi editti di persone che avendone l'agio governano lo Stato seduti vicino al camino. Il preambolo dice che il potere legislativo ed esecutivo è nato comproprietario della mia terra per diritto divino, e che gli devo almeno la metà di quello che mangio. Cosa capiterebbe se quel potere possedesse interamente la mia terra? Sarebbe ancora più divino. Nel preambolo i nuovi ministri dicono anche che bisogna tassare soltanto le terre, poiché tutto viene dalla terra, anche la pioggia; e che quindi soltanto i frutti della terra devono pagare imposte. Uno dei loro uscieri mi venne in casa durante la guerra dei Sette anni; pretese tre moggia di grano e un sacco di fave, del valore complessivo di venti scudi. Poiché non avevo né grano né fave né denaro, mi trascinarono in prigione. Uscendo dalla cella ero pelle e ossa. Incontrai un uomo paffutto e rubicondo in una carrozza a sei cavalli. Aveva sei lacché, ognuno con un salario doppio del mio reddito. Il suo maggiordomo, non meno rubicondo di lui, aveva duemila franchi di stipendio, e gliene rubava ventimila all'anno. La sua amante gli costava ventimila scudi in sei mesi. Quando l'avevo conosciuto era meno ricco di me; ora mi confessò di avere una rendita di quattrocentomila lire.«Allora ne pagate duecentomila allo Stato», gli dissi, «Io, che ho appena le mie centoventi lire, ne devo pagare la metà». «Io?», rispose, «Che io contribuisca ai bisogni dello Stato! Voi scherzate, amico mio. Ho ereditato da uno zio che aveva guadagnato otto milioni a Cadice e a Surate; non possiedo un palmo di terra; tutto il mio avere consiste in contratti e in cambiali: dunque non devo niente allo Stato. Tocca a voi dargli la metà della vostra sussistenza. Non vedete che se il ministro delle finanze pretendesse da me qualche soccorso per la patria, si dimostrerebbe un imbecille incapace di calcolare? Ogni cosa viene dalla terra, mentre il denaro e le cambiali non sono che garanzie di scambio. Quando gioco a faraone, non metto sul tavolo cento moggia di grano, cento buoi, mille pecore e duecento sacchi di avena, metto rotoli d'oro che rappresentano quelle disgustose derrate. Se pretendessero del denaro anche da me, dopo avere messo una imposta unica su quelle derrate, non vedete che sarebbe come domandare la stessa cosa due volte? Mio zio vendette a Cadice per due milioni del vostro grano e per due milioni di tessuti fabbricati con la vostra lana: in questi due affari guadagnò più del cento per cento. Capite bene che quel guadagno fu fatto su terre già tassate: mio zio rivendeva per più di cinquanta franchi nel Messico ciò che aveva comperato da voi per dieci soldi. Tolte le spese, tornò con otto milioni. È chiaro che sarebbe una orribile ingiustizia ridomandargli alcuni oboli sui dieci soldi che vi ha dato. Pagate, amico mio, voi che godete in pace una rendita chiara e pulita di quaranta scudi. Servite bene la patria, e ogni tanto venite a pranzo coi miei servi». I fiosiocratici sbagliavano, ma per ragioni storicamente comprensibili, quando sostenevano che l'unica fonte di ricchezza è la terra. Avrà invece una ragione difficile da contestare Adam Smith, quando scriverà che «non le risorse naturali, bensì il lavoro svolto in un anno, è il fondo da cui ogni nazione trae tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma». Se nel testo di Voltaire si sostituisce “lavoro” a “terra”, se ne apprezzerà l'attualità. NOTE [1] Estratto da “il manifesto” del 3 giugno 2004. |