PUBBLICHE VIRTÙ[1] STEFANO LUCARELLI E' di moda lo stato sociale? E sarebbe tanto incredibile che la sinistra ponesse al centro del proprio programma di governo la difesa dello stato sociale, piuttosto che una versione soft delle riforme neoliberiste? Sono queste le domande attorno alle quali Alessandro Santoro ha organizzato le sue riflessioni su «Le ragioni del pubblico»[2] per sostenere la modernità dello stato sociale contro la progressiva riduzione della spesa pubblica e la progressiva privatizzazione di settori sempre più ampi delle economie nazionali. Queste 136 pagine sono dense di concetti e rappresentano un'eccellente introduzione alla politica economica (e alla critica della sua versione liberal): si passa dalla dimostrazione dell'illogicità di una distribuzione dei redditi fondata sulla produttività dei fattori ai limiti della moderna economia del benessere; vengono così criticati i fondamenti teorici delle politiche neoliberiste, a partire dalla teoria dell'impresa: «L'impresa privata, come anche l'impresa pubblica, non è un precipitato della natura, ma invece un'istituzione sociale caratterizzata da regole e da conflitti - tra capitale e lavoro e tra capitalisti-azionisti e manager». Tra le ragioni a favore dell'impresa pubblica sta l'esigenza da parte dell'impresa privata di profitti di breve periodo che rendono impossibili investimenti ad alta redditività sociale. L'obiezione contro cui argomentare è nota: «Secondo una convinzione diffusa, l'intervento pubblico porta necessariamente a dei livelli di spesa pubblica insostenibili, che costringono cioè i paesi all'indebitamento e quindi all'aumento del debito fino a livelli tali da determinare la bancarotta dello stato». Eppure il caso italiano dimostra che l'incremento della spesa pubblica non è in grado di spiegare da solo l'enorme debito pubblico italiano, va infatti tenuto conto anche dell'evasione fiscale soprattutto dei redditi da capitale e dei redditi da lavoro autonomo. In secondo luogo Santoro ricorda che la componente della spesa pubblica italiana che cresce maggiormente dal 1980 al 1995, ben al di sopra dei livelli europei, è la spesa per interessi a causa dei differenziali di inflazione: l'esplosione del debito pubblico non dipende quindi dalla spesa pubblica di utilità sociale (beni, servizi e pensioni). La filosofia sottesa al Trattato di Maastricht del 1992 è costruita invece sull'erronea convinzione che sia necessario ridurre la spesa pubblica di utilità sociale per contenere il disavanzo e ridurre il debito pubblico; l'ossessione antinflazionistica (ereditata dalla Germania postunitaria) spiega perché i tassi di interesse siano mantenuti dalla Bce a livelli relativamente alti, e perché non si possa agire sulla spesa pubblica per interessi. Una strada alternativa teoricamente fondata (suggerita da Luigi Pasinetti) esiste: il percorso di rientro dal debito dovrebbe puntare, anziché sul rigido contenimento del disavanzo, sul contenimento del divario tra tasso di crescita del PIL e tasso di interesse. Questa strada può essere intrapresa solo se si rafforzano gli strumenti per diminuire l'evasione fiscale, per recuperare i livelli di tassazione delle multinazionali (che sanno concretamente approfittare della concorrenza fiscale per diminuire il proprio carico) e magari introducendo una seria tassazione ambientale. E' possibile considerare lo stato sociale come quella parte di sovrappiù sociale, che va oltre il salario di sussistenza. Negli ultimi venti anni la quota del reddito nazionale lordo destinata ai salari è diminuita del 20% a favore soprattutto della rendita finanziaria. Il rentier è per definizione occupato in un' attività improduttiva. Riformare oggi lo stato sociale (scaricando la spesa sanitaria sui bilanci regionali, favorendo una carente istruzione nelle scuole private, disgregando il mondo del lavoro), significherebbe comprimere i salari anche oltre il livello storico di sussistenza per liberare nuove risorse a favore di un mondo delle imprese ormai (colpevolmente) in balìa dei rentièr. Proprio nell'era del declino invece lo stato sociale può essere protetto e valorizzato poiché è il solo che può garantire «l'arte, la destrezza e l'intelligenza con cui si esercita il lavoro»; e su questo si fonda, a partire da Adam Smith, la ricchezza della nazione. Per questo «Le ragioni del pubblico» potrebbero destare le attenzioni dei politici della sinistra, tanto centrista quanto radicale, che potrebbero così evitare litigi inutili sul nulla. NOTE |