ALLE RADICI DELL'ULTIMA CROCIATA[1]

Dalla lotta al comunismo a quella al terrorismo. La nuova ideologia globale aggiorna il linguaggio di un antico obiettivo: la giustificazione «filosofica» del controllo del mondo

EDOARDA MASI

Il «pensiero unico» andrebbe meglio definito oggi «ideologia globale»: favorita dalla babele linguistica, occupa le menti, prone a conformarsi alle convenzioni dominanti, impegnate a disegnare falsi nemici per negare l'evidenza di quelli reali, e a cercare la conciliazione, perfino teorica, là dove c'è solo divisione e lotta inevitabile. L'ideologia globale impone il comune denominatore della lotta contro il terrorismo. Tutti vi consentono, prima ancora di esigere che di questo termine venga data una chiara definizione. Sarebbe vano esercizio di ragione ricordare che il terrorismo è una pratica di singoli individui o gruppi minoritari isolati che, per disperazione o per folle esaltazione del proprio io, si illudono, separati dalle lotte del popolo e clandestini, di poter combattere un nemico seminando, appunto, il terrore: non importa dove e fra chi, per mezzo di stragi indiscriminate oppure per mezzo di omicidi ritenuti esemplari. Alla fine dell'Ottocento il terrorismo fu teorizzato e praticato da una parte dei populisti russi, magnificamente rappresentati da Dostoevskij, e venne condannato da Lenin come controrivoluzionario, con lucidissimi argomenti. L'esperienza storica ha confermato che il carattere clandestino e destabilizzante, oltre che disumano, della pratica terroristica consente a chi detiene un potere antipopolare di impadronirsene, e confondendo le carte in tavola di usarla a sua volta cinicamente come arma efficace e segreta contro gli oppositori (basta ricordare la strategia della tensione già praticata in diversi paesi, ed estesa oggi a gran parte del mondo). Ignoranza e presunzione (alimentate ancora da una disperazione inconfessata) fecero risorgere in Italia velleità terroristiche, alla fine degli anni Settanta e negli Ottanta, fra giovani che stoltamente si illudevano di agire per la rivoluzione, mentre erano strumento, per lo più inconsapevole, di un nemico feroce che stava operando per destabilizzare il paese e distruggere un movimento ancora immaturo, ma temuto dai detentori del potere economico e politico interno e internazionale. Non si rendevano conto di contribuire all'opera criminale con cui le forze più conservatrici, appoggiate dai vari servizi segreti interni e stranieri, organizzavano le stragi di ignari cittadini (piazza Fontana, Italicus, Bologna, piazza della Loggia...)

Gli imperi del male

Per una cinquantina d'anni - dalla fine della seconda guerra mondiale alla caduta del muro di Berlino e all'implosione dell'Unione sovietica - ogni nefandezza esercitata sui popoli, violazione dei diritti civili e umani, interferenza negli affari interni di altri paesi, repressione di movimenti popolari con milioni di morti, e fino alla ricolonizzazione di gran parte del mondo, è stata motivata dai governanti degli Stati Uniti e dai loro alleati con la necessità di combattere il comunismo. Il comunismo veniva rappresentato come un'oscura congiura internazionale messa in atto con la complicità della potenza avversa, l'Unione sovietica (in Italia o in Francia non ci rendevamo ben conto del peso di una simile ideologia, giacché i comunisti erano troppo forti e numerosi, avevano radici troppo profonde nel popolo perché simili panzane potessero attecchire anche fra i loro avversari). Perfino un evento formidabile come la rivoluzione cinese veniva presentato come una rivolta di banditi sanguinari contro il governo legittimo. Una volta crollata l'Unione sovietica, sconfitti o scomparsi quasi ovunque i partiti comunisti, la crociata avrebbe dovuto concludersi. Anche le alleanze militari costituite per combattere «l'impero del male» non avrebbero dovuto avere più ragion d'essere. Invece abbiamo assistito e assistiamo a una progressiva escalation nell'aggressività e nella relativa propaganda, negli interventi armati fuori dei confini nazionali, nella riorganizzazione della Nato, nella repressione violenta di qualsiasi movimento popolare. L'etichetta «lotta al comunismo» è stata sostituita con quella di «lotta al terrorismo» - per procedere sulla vecchia strada e per gli stessi inconfessati vecchi motivi, in misura più pesante e in forme più gravi. La fabbricazione di un «impero del male» appare dunque come un'assoluta necessità. Al «terrorismo» viene arbitrariamente associata ogni forma di violenza (armata, fisica, morale) e infine di lotta (armata o disarmata): si tratti di rivolta individuale o di gruppo, insurrezione popolare, guerra di liberazione o di indipendenza, guerriglia, conflitto sociale, lotta di classe e perfino rivendicazione sindacale. Sia chiaro che neppure gli attentati contro forze nemiche organizzati segretamente nel corso di una guerra o di una guerriglia popolare possono essere condannati come terroristici. Non erano terroristiche, per esempio, le azioni dei partigiani durante la Resistenza, neppure quelle dei Gap nelle città occupate da truppe straniere (anche se gli stranieri occupanti le consideravano tali): erano azioni di guerra, miravano a colpire un nemico in campo aperto più forte, non a seminare terrore fra la popolazione; e dalla maggioranza della popolazione ricevevano il consenso.

Il dopo-muro

Chi non fosse accecato dall'ideologia globale, almeno di un fatto avrebbe da rallegrarsi: le cose sono divenute assai più chiare. Nel periodo della «lotta al comunismo», lo scontro fra potenze (guerra fredda) si presentava come l'elemento fondamentale, l'anticomunismo poteva apparire una copertura della rivalità degli Stati uniti verso l'Unione sovietica. Oggi la medaglia si è rovesciata: ridimensionata la potenza avversa e dissolto il suo carattere comunista, la lotta prosegue, più aperta e intensa. Contro chi, realmente, e in nome di che cosa siamo chiamati a unirci tutti e combattere? Chi si nasconde dietro «l'impero del male» vuoi comunista, vuoi terroristico? Scomparso lo scontro politico fra blocchi di potenze, emerge un conflitto più radicale e durevole, di cui sono taciuti i motivi e i contenuti, pur così evidenti. Chiusa la guerra fredda, non è mancata la corsa a fabbricare ideologie tutte nuove: scontro di civiltà, di religioni; asse del male, stati canaglia; immigrati delinquenti; terrorismo internazionale. Accanto alle ideologie, si sono fabbricati i fatti, all'interno dei popoli guerre di religione immotivate, scontri di etnie (incerta categoria di origine razzista). Pretesti per l'ingerenza negli altrui affari interni e per l'intervento armato.

Scrivono Pietro Basso e Fabio Perocco (in Gli immigrati in Europa, F. Angeli 2003 - libro di cui si raccomanda la lettura): «Da quando si è esaurito il ciclo di sviluppo post-bellico (1945-1973), il tasso di accumulazione del capitale è rimasto, nel complesso, ansimante; e non potrà risollevarsi senza una massiccia iniezione supplementare di valore che può venire solo da una complessiva svalorizzazione della forza lavoro alla scala mondiale. Le politiche neo-liberiste che, a partire dal reaganismo e dal thatcherismo, si sono imposte, con varianti estreme o temperate, all'intero mondo, rispondono a questa necessità». E ancora: «Il conflitto fra l'Europa delle imprese, dei governi, degli stati, degli ingegneri della cosiddetta pubblica opinione e gli immigrati è al fondo un conflitto di classe, che è parte integrante del più vasto conflitto fra capitale e lavoro. Il razzismo istituzionale, in tutte le sue varianti, non si limita infatti a inferiorizzare le popolazioni di colore: cerca di convertire tale conflitto tra capitale e lavoro in un conflitto tra lavoratori, tra popoli, tra culture, tra religioni, facendo leva su reali disuguaglianze... per acuirle fino al parossismo e allo scontro». Partendo dall'analisi della condizione riservata agli immigrati - i proletari estremi, quelli che «non hanno da perdere che le loro catene» - Basso e Perocco individuano i veri motivi sia della svolta liberista nel sistema del capitale, sia della nuova crociata contro chiunque si rivolti in qualsiasi forma a quel dominio. La nozione che il capitale contiene in sé il lavoro come elemento costitutivo assoluto e come contraddizione interna assoluta è alla base delle teorie e della pratica della lotta di classe dalla metà del XIX alla metà del XX secolo. Via via che la contraddizione si esaspera, diminuisce la possibilità dei compromessi politici. Il capitale ha bisogno di restringere sempre più lo spazio del lavoro, e nella seconda metà del XX secolo arriva a divorare il lavoro quale entità politica e a distruggere la politica quale dimensione mediatrice. Il meccanismo dell'accumulazione e della riproduzione allargata conduce alla formazione di capitali immensi strutturati in organismi di dominio globale che mirano al controllo totale e diretto degli stati-nazione e a creare un proprio dominio assoluto sul lavoro che, disperso in particelle atomizzate e flessibili, potenzialmente prive di ogni autonomia umana, sia manovrabile come oggetto e ricondotto allo stato puro di merce. Le immense masse di lavoratori, anche non industriali, che popolano le zone del mondo non metropolitane, sono le prime assoggettabili al più alto grado di controllo e di sfruttamento. Si torna così a forme di banditismo peggio che ottocentesco, alla ricolonizzazione diretta e indiretta di gran parte del mondo. È questa la prima fonte della politica di aggressione e della guerra permanente, con tutte le ideologie di copertura, quelle che mirano, secondo l'espressione di Basso e Perocco, a «mobilitare la popolazione lavoratrice autoctona contro altre popolazioni e contro se stessa». E' «l'antico» conflitto capitale-lavoro che ritorna centrale per contrastare la distruzione globale in atto.

NOTE


[1] ”Il Manifesto” 27 dicembre 2003.