MORIRE IN GUERRA NON È FATALITÁ[1] Ascanio Celestini Torno a casa e ascolto il telegiornale. La prima notizia tratta della patente a punti. Sembra che un giudice abbia stabilito che per togliere i punti non basta fare la multa, ma bisogna anche contestarla direttamente al trasgressore. Devo dire che questa notizia mi spiazza perché credevo che il telegiornale aprisse con il funerale di Simone Cola, il militare italiano morto in Iraq pochi giorni fa. Poi in coda alla prima notizia segue una dichiarazione del ministro Lunardi che pure lui confessa di aver sempre avuto delle perplessità su alcuni aspetti della sua legge. Finalmente come secondo tema della giornata ci vengono dati i risultati dell’autopsia del maresciallo italiano. Il giornalista dice che la sua morte è stata una tragica fatalità. Il colpo ha raggiunto l’ascella in un punto scoperto. Il giubbetto antiproiettili terminava pochi millimetri più in basso e il militare era in una posizione infelice sia perché si sporgeva verso l’esterno dell’elicottero che lo ospitava, sia perché l’elicottero stesso era leggermente inclinato. Nelle immagini che mandano in onda vedo il presidente Ciampi, il tricolore, i berretti azzurri e la moglie del caduto. Poi come terza notizia si parla del tempo. In qualche località del nord il termometro ha raggiunto i trenta gradi sotto zero e il freddo continuerà per alcuni giorni. Non seguo le notizie del calcio, spengo la televisione e mi metto a mangiare. E mentre mangio l’insalata e le rape rosse mi chiedo come sia possibile parlare di fatalità per un soldato che sta in guerra. Io ci credo agli eserciti in missione di pace. Ci credo quando li vedo scavare nel fango di paesi alluvionati o tra le macerie di città colpite dal terremoto. Mio cognato è vigile del fuoco e dopo il terremoto in Umbria è partito per salvare gli edifici dei paesi colpiti, ma comprendo la pericolosità del suo lavoro e so che rischia la vita quando si appende per aria tra le arcate mezze sbreccolate di una chiesa che sta per crollare. Persino il mestiere del metronotte e del vigile urbano mi sembrano pericolosi. Tanto più pericoloso mi sembra il lavoro di un poliziotto che si trova a fronteggiare ladri e assassini. Perché dovrei credere che un soldato appeso ad un elicottero che vola su un paese in guerra dove ogni giorno esplodono auto piene di tritolo e vengono sequestrate e ammazzate persone per strada… perché dovrei credere che la sua morte è una tragica fatalità? Dovrei crederlo solo perché la sua storia è stata confezionata tra la notizia della patente a punti e le previsioni del tempo? Quest’ultimo morto italiano è diventato una notizia da secondo posto nel telegiornale in soli due giorni. Ma in fondo capisco che i giornalisti hanno detto già tutto quello che c’era da dire. Hanno parlato dell’azione in cui è morto, dei familiari, del gesto delle autorità politiche e militari e persino dell’autopsia. Cos’altro c’è da dire? Forse dovremmo ricordarci del contesto nel quale è morto. Ricordarci che in Iraq c’è una guerra. Una guerra che doveva risolversi rapidamente e della quale era già stata decretata la fine. Invece la guerra non è finita e non finirà mai. E se finirà questa… ne incomincerà un’altra, magari contro l’Iran. Già perché gli Stati Uniti non perdono tempo a trovarsi un altro nemico da abbattere, un altro infedele a cui insegnare la giustizia infinita. E dopo l’Iran toccherà al Pakistan? O bisognerà ricominciare da capo col Vietnam? O forse queste guerre sono diverse da quelle che abbiamo conosciuto fino a pochi anni fa. La Seconda Guerra Mondiale ha inaugurato un nuovo genere di conflitto dove nessuno riesce a tenersi fuori, dove i civili incominciano ad essere in pericolo quanto i soldati. La guerra nel cortile che sale su per le scale ed entra dentro casa sotto forma di rastrellamento e di bombardamento. Ma dopo questo piazzamento l’occidente ha saputo vaccinarsi. L’Europa ha condannato la violenza dei dittatori, dei Mussolini e degli Hitler, cancellando la guerra dal continente. In cinquant’anni ce ne sono state tante, ma nessuna ha colpito più l’Europa colta e vaccinata. La violenza stava nell’Africa delle tribù, nell’Asia fondamentalista, e nell’America del sud tra le dittature che facevano scomparire gli oppositori. Anche quando abbiamo conosciuto la violenza della mafia, dei terrorismi e dei localismi abbiamo saputo difenderci. Non abbiamo accettato la loro logica. Non abbiamo condiviso la loro violenza… almeno non ufficialmente. Invece adesso sta succedendo un fatto nuovo. L’idea della guerra è cambiata anche rispetto all’ultimo conflitto mondiale. Prima conoscevamo la guerra come un evento che ha un inizio e una fine (la prima guerra mondiale da noi viene spesso chiamata la quindici-diciotto). Adesso è diventata uno stato dell’uomo, una maniera di vedere le cose, un sistema politico come la Repubblica o la Monarchia, un modo per gestire la cosa pubblica. Questa guerra infinita non può essere facilmente digerita da un occidente che ha imparato a ripudiare ogni forma di violenza. Così deve avere delle regole nuove. La prima è che non possono esserci contatti fisici tra i buoni (che siamo noi) e i cattivi (che sono tutti gli altri). Bisogna cancellare il nemico dal nostro panorama. La seconda regola è direttamente legata alla prima. È legata all’idea di distanza che la caratterizza. Mi vengono in mente le fotografie dei campi di sterminio viste dall’alto. Mi vengono in mente le fotografie che un anno fa sono state mostrate sui giornali e in televisione. Raffigurano le baracche messe tutte in fila e tra loro si può vedere anche il forno crematorio col fumo che esce dal camino. Nelle fotografie non c’è traccia di essere umano. Sembra una zona industriale disabitata, un luogo di lavoro come ce ne sono molti nelle periferie delle nostre città. Una fabbrica senza operai chiusi dentro a lavorare. E questa fotografia fa a cazzotti con la nostra idea di lager perché di quella realtà noi conosciamo soprattutto le storie dei singoli individui, le traiettorie personali che li hanno attraversati. Invece per queste guerre che appartengono alla nostra epoca viviamo solo la distanza. La maggior parte dei giornalisti stanno chiusi nei loro alberghi e trasmettono i messaggi televisivi con un bello sfondo di città. E poi, soprattutto, c’è la distanza dell’aereo che colpisce dall’alto. E io mi figuro che quell’aereo veda le case irachene o afgane alla stessa maniera di come i fotografi inglesi vedevano i campi di sterminio quando li andavano a fotografare durante la seconda guerra mondiale. Da quell’altezza le case sembrano vuote. Non sembrano case. Sono obiettivi. E i militari non conoscono le storie dei singoli individui che ci vivono dentro, non possono conoscere i percorsi individuali come noi conosciamo le storie dei deportati quando vediamo le foto dei lager dall’alto. I militari non sanno niente delle persone sulle quali cadranno le loro bombe. Dopo questa mia rozza riflessione incomincio a capire lo sconcerto per la morte di Simone Cola. Sembra incredibile che possa rischiare la vita un soldato che conduce una guerra da lontano. Uno che fa un’azione preventiva o un’operazione chirurgica. Questa metafora fa rassomigliare il soldato al medico e tutti sappiamo che quando un chirurgo opera non corre alcun rischio. Può morire il paziente, ma non il professionista che lo opera. In un’azione come questa l’invulnerabilità è tutto, soprattutto quando si combatte una guerra “giusta”, la si conduce con l’idea che si sta portando la pace e si è convinti di stare dalla parte di Dio. Adesso non possiamo accettare che Dio ci abbia abbandonato. Perciò si tratta di una tragica fatalità, uno di quegli incidenti che possono accadere anche quando si fa una passeggiata nel parco o si taglia l’erba in giardino. A questo punto nella confezione della notizia basta cancellare la guerra per mettere in risalto la morte, togliere il contesto e isolare la storia personale per ottenere un’appetitosa tragedia che ci commuove nell’intimo senza mettere in moto il pensiero, senza svegliare scomode riflessioni politiche. Ma se giungo a queste conclusioni non trovo nessuna via d’uscita. Per comunicare gli eventi deve isolarli dal contesto e questo isolamento li snatura… Poi mi ricordo che in questi giorni si riparla della giornata della memoria e inizio a pensare che proprio la memoria può salvarmi dal corto circuito dell’informazione. Mi ricordo che posso ricordare. Ricordare quello che è successo ieri e la settimana scorsa, recuperare notizie e avvenimenti, ricostruire percorsi e studiare contesti. Posso confrontare le diverse notizie e le fonti d’informazione. Posso persino ripercorrere le vicende del passato. Insomma… posso costruire delle storie. Posso trasformare gli avvenimenti in qualcosa di raccontabile, strapparlo alla fabbrica dell’informazione e diventare io stesso una fonte. Un produttore di comunicazione e non più soltanto un consumatore. Insomma … forse le storie che ascoltiamo non ci servono a niente se non possiamo ri-raccontarle. NOTE [1] Estratto da: “Liberazione” del 30 gennaio 2005. |