La guerra è orrore[1]

Le conclusioni di Fausto Bertinotti

Il 13 dicembre 2003 si è tenuto a Venezia un convegno, promosso da Rifondazione Comunista dedicato al drammatico problema storico delle Foibe. Ad esso hanno partecipato, tra gli studiosi come Giacomo Scotti, Predag Matvejevic e Lidia Menapace. Il segretario del Prc, Fausto Bertinotti, ha concluso il dibattito con questo lungo e appassionato intervento che riproduciamo integralmente.

Fausto Bertinotti

Non è certo difficile comprendere e sottolineare il valore di un'iniziativa di Rifondazione comunista sulle Foibe. E non mi meraviglierò se essa susciterà discussioni e contrasti. Per noi la ricerca storica è obbligatoria ed è, in qualche modo, indistinguibile dalla battaglia politica quotidiana e dalle nostre passioni politiche. E' inutile, infatti, nascondere il fatto che in una ricerca storica condotta da militanti e da un partito entra in discussione tutto quello che ci anima, il nostro spirito migliore. E dobbiamo lealmente riconoscerlo.

Questa ricerca è dunque collocata dentro un processo politico e di costruzione di una cultura politica. Un processo che Rifondazione ha iniziato da tempo e che riguarda il suo modo d'essere, la sua identità e la sua collocazione sulla scena politica. In poche parole la ricerca storica che noi vogliamo fare, anche parlando delle Foibe, non è neutrale o innocente. E quindi, naturalmente e giustamente, essa deborderà sull'attualità politica, sugli atti che faremo, su chi siamo e chi vogliamo essere.

Senza attutire i dissensi, dunque, è per me comunque importante che venga declinato e condiviso il punto di partenza della nostra ricerca. E' del tutto evidente che c'è, ed è forte, un contrasto con i nostri avversari, con la cultura politica che essi esprimono, e con le forze che li organizzano. Sarò su questo punto molto chiaro. Noi ci fondiamo sulla negazione di ogni legittimazione del fascismo, sull'analisi critica della sua storia e anche di ciò che di esso continua, sotto traccia, a corrompere il tessuto sociale e culturale del paese.

Il nostro antifascismo .Questo è un asse fondamentale della nostra fondazione. Noi siamo e rimaniamo radicalmente antifascisti. Di quella esperienza e di quella storia rifiutiamo la connotazione di fondo per come si è manifestata in tempi solo relativamente lontani e come si manifesta, magari in forme diverse, più ambigue, oggi. E' questo - lo ripeto - un elemento necessario alla nostra fondazione. Riteniamo che l'antifascismo vada vissuto, attivato e proclamato.

Chiarito e proclamato questo punto dobbiamo fare i conti con noi stessi e farci una domanda. Come si fa ad estirpare il fascismo e i fascismi dalla storia dell'umanità? E' questo il quesito a cui rispondere per fare davvero i conti con noi stessi.

Il nostro antifascismo non è un omaggio alla storia - anch'esso importante sia chiaro -, non è il ricordo annuale del 25 aprile. E' molto di più. E' la convinzione della attualità dell'antifascismo. E' la convinzione che esso sia l'unica religione civile del paese, l'unica capace di costruire una convivenza civile. Esso è il quadro necessario in cui esercitare il contrasto ed il conflitto fra chi accetta lo stato di cose esistenti e chi vuole cambiare la società. L'antifascismo è un elemento fondamentale della civiltà di un popolo. L'"ora e sempre resistenza" di Calamandrei non è un urlo o una testimonianza. Essa manifesta pienamente la cultura di un popolo. Una cultura avversa alla colonizzazione da parte delle maggioranze e ad una propensione alla esportazione delle civiltà che va sorvegliata e messa sotto controllo altrimenti rischia di dominare e di dominarti.

E' questo uno dei motivi per cui, nel percorrere la storia del nostro Paese, non possiamo che militare dalla parte della critica ad ogni forma di patriottismo e ad ogni forma di violenza, ammantata di patriottismo, che conduce alla guerra. Una critica, questa, che possiamo manifestare in maniera sommessa e composta anche rispetto a quegli elementi estetizzanti di patriottismo che si vedono dalle nostre parti, quand'anche indotte dallo stesso Presidente della Repubblica.

Teniamoci lontani, insomma, attraverso una forma di rifiuto, da ogni elemento di nazionalismo ovunque praticato.

Oggi la non violenza è possibile e necessaria

E’ questo bagaglio culturale che ci consente di rifiutare attivamente quel fenomeno assai rilevante, che a preso il nome di “revisionismo storico”. Quel fenomeno che riguarda l’Italia, molti partiti e molti intellettuali, ma che riguarda anche l’Europa e che può essere riassunto in questo modo. C’è anche del bene nel fascismo e c’è un po’ di male nella Resistenza. I due fatti storici si equivalgono o quasi. E una sorta di buonsensismo ammantato di presunta neutralità e di molte citazioni mette insieme fascismo e Resistenza per negarli entrambi in nome di una posizione terza non meglio specificata. In realtà quel revisionismo non è innocente. E’ il tentativo di demolire appunto la possibilità di fare dell’antifascismo la costante religione civile di questo Paese. E’ il tentativo di tirare una riga nella storia del Paese al di là della quale c’è la cancellazione di ogni pensiero forte e la riduzione della politica a variante interna del dominio del mercato dell’impresa. In poche parole il revisionismo priva la politica della possibilità di progettare una società diversa.

Gli avversari di oggi

Antifascismo, come religione civile e rifiuto dell’inganno del revisionismo storico. Qui siamo collocati e da qui partiamo. Ma questa collocazione, insisto, che è fondamentale nella lotta politica culturale nel Paese, non ci aiuta a dire come ne diventiamo protagonisti nel futuro. Non ci aiuta a questo neppure la denuncia pure necessaria dei crimini del fascismo. Ci sono molti fra di noi che su una questione così scottante e così drammatica come quella delle Foibe si azzuffano su una questione di numeri. Badate che ogni elemento di comparazione che facciamo con il fascismo e con le sue violenze non ci rende più forti. Ci immeschinisce e riduce la forza dirompente e alternativa dell’antifascismo. Se la differenza tra noi e il fascismo è solo di grado; se ci limitiamo, a dire: loro ne hanno uccisi mille e noi cento, la differenza fra noi e loro diventa irrilevante. Noi siamo antifascisti perché siamo fondamentalmente diversi. Lo siamo nella visione del mondo, della società, delle donne e degli uomini. Non è una questione di grado o di numeri.

La denuncia dei crimini del fascismo può diventare un elemento fuorviante, se non addirittura negativo, se attraverso di essa si tende ad evitare di fare i conti con la nostra storia e ci mette sostanzialmente sullo steso piano.

Il lavoro sulla memoria e sulla storia è fondamentale. Il problema delle radici è vitale per immaginare il futuro di tutti. Per una comunità, per un popolo, per una formazione politica, per una cultura. Ma lo studio delle radici, l’uso della memoria, oltre che della storia, non può ridursi a rassicurare la tua identità e la tua esistenza. La storia non è una cuccia calda dentro cui sei al riparo dalle intemperie del tuo tempo. Anche perché gli avversari cambiano. Cambiano anche quando resta il mondo dominato da una formazione economico sociale capitalistica. Non è vero che ogni stagione ti mette di fronte agli stessi avversari e agli stessi problemi. Anzi. Per questo non esistono rassicurazioni nella storia.

Oggi, battere il fascismo – parlo del fascismo come lo abbiamo conosciuto alcuni decenni fa, non parlo delle politiche fascistizzanti, o degli elementi fascistoidi che persistono – battere quel fascismo è fin troppo facile. E’ capace perfino Fini. E’ chiaro il punto? Il nostro avversario di oggi non è il fascismo, cosa che appunto ci indurrebbe a gridare ancora una volta quelle colpe che i loro stessi eredi non sono in grado di contestare. I nostri avversari oggi, in questa fase della storia, sono la guerra e il terrorismo. Il mondo in cui viviamo, il mondo capitalistico in cui viviamo, che è il risultato di una rivoluzione capitalistica restauratrice, che chiamiamo globalizzazione, non è più in grado di governare il consenso. Da qui prende corpo una vera e propria crisi di civiltà che può risolversi in catastrofe. E, quando affermo questo, ci tengo anche a precisare che non è detto che la catastrofe possa risolversi automaticamente in comunismo.

Questa coppia guerra-terrorismo che sequestra monopolisticamente la violenza, questa realtà, ci mette di fronte ad un problema assolutamente inedito. Noi non possiamo pensare di battere questa violenza monopolizzata con la guerra. La violenza, in ogni sua variante, quale che sia il giudizio morale, risulta inefficace perché viene riassorbita dal terrorismo mettendo fuori gioco la politica. Questa coppia costringe a ripensare la nostra storia per trovare le forze e i modi per batterla. E’ una lotta di civiltà, è una lotta nella quale lo stesso importante problema della trasformazione prende corpo in modo inedito. Oggi di fronte alla possibilità di una catastrofe dell’umanità, siamo obbligati ad indagare sulla violenza, sul suo ruolo nella storia, sul suo ruolo oggi o nel futuro dell’umanità.

La resistenza alla violenza

E da dove partiamo? E’ stato affermato che “con Auschwitz Dio è morto”. Un modo di dire non solo per i credenti, che non è più immaginabile una violenza come quella. Poi c’è stata Hiroshima, la violenza di chi ha vinto contro il nazismo. Un passaggio drammatico, terribile. La violenza per battere la morte produce altra morte. Era legittima Hiroshima? Potremmo rispondere di sì perché meno distruttiva di Auschwitz e del nazismo. Perché il nazismo è intrinsecamente distruzione, sistematica oppressione e violenza generalizzata. Auschwitz è la sua cattedrale e la realtà. E’ il genocidio. Hiroshima no. Questa differenza c’è e conta. Hiroshima non aveva come fine l’annientamento. Era un modo terribile e violento di opporsi ad esso. Ma non basta fermarsi a questo. Andiamo avanti. Che cosa nei vincitori Hiroshima? Come agisce nelle culture di fondo? Cosa produce? E ancora, noi – nel senso di movimento operaio – che non siamo né Auschwitz né Hiroshima, in quel contesto siamo stati angeli? Noi, intesi come soggetti della storia, siamo stati contaminati da quella violenza? E oggi l’esigenza del balzo per combattere un mondo organizzato sulla guerra e sul terrorismo non ci chiede di estirpare anche la violenza che è entrata in noi e dalla quale siamo stati contaminati da parte di un avversario dominante nella storia del mondo? Credo abbia ragione un grande intellettuale come Walter Benjamin quando dice: rapportiamoci col passato con il balzo di tigre, torniamo indietro per scattare di nuovo in avanti verso il futuro. E allora, nelle tracce di resistenza alla violenza noi dobbiamo attingere per compiere questo salto. Su questo, è vero, dobbiamo pensare e ragionare di più. Dobbiamo ragionare e ricercare di più su quello che è già stato fatto nella nostra storia per liberarci dalla violenza perché la mia impressione è che spesso questo tipo di analisi è stata ignorata preferendo altri filoni di ricerca.

C’è una faccia meno nota della Resistenza, di quella Resistenza di cui sono cantate le gesta eroiche, vittoriose e combattenti. Un lato che è rimasto in ombra, che è quello delle relazioni quotidiane, del tentativo di sottrarsi ad una violenza che pareva insormontabile. Questa dimensione c’era, anche se mi guarderei bene dal dire che era prevaricante rispetto a quella del conflitto, di un conflitto tragico. Ma penso a Cesare Pavese, ai passi nei suoi libri che riguardano il momento della Resistenza,il suo orrore per la morte e per il sangue. C’era un ritrarsi, un senso di inadeguatezza, un timore. Pure era un partigiano. Pensiamo ad un uomo cui siamo stati molto legati, a Luigi Pintor e al suo libro Servabo. Quando è sul punto di prendere le armi contro i fascisti, lo fa, ma nel compiere quel gesto ne sente l’orrore. Ecco vorrei che qui ci fermassimo a riflettere. Non sto dicendo che in quei momenti così terribili, non si doveva premere il grilletto. Sto dicendo che non dobbiamo mettere sullo stesso piano quello che è e che si sente come dovere di fronte alla storia e il tuo essere umano, la tua umanità, politica e culturale. Che una distanza critica va presa, con coraggio. Che la tua umanità va salvaguardata. Quasi per anticipare, in quell’atto di resistenza, una liberazione che nel momento di premere il grilletto è impossibile, ma domani può avverarsi.

Pensiamo ancora alla Resistenza pubblica d’Ossola. Sono di quelle parti quindi ho sentito tante volte i partigiani raccontare le loro storie quando sono entrato nella Camera del Lavoro e avevo 22 o 23 anni a Novara. Ricordo i capi della Camera del Lavoro, erano carichi di storia, mi sembravano vecchi e avevano quarant’anni, ma sembravano venire da un altro mondo. C’era anche chi si chiamava ancora “comandante” e raccontava molte di quelle storie della Resistenza. Lui le raccontava, ma c’era chi preferiva il silenzio, chi preferiva non parlarne più. Ricordo uno splendido comandante partigiano, Gino Vermicelli. Lui non raccontava, quasi non volesse essere riattraversato dalla violenza a cui era stato costretto, quasi temesse che parlare di quella guerra che aveva fatto e per cui era diventato famoso lo riportasse a quel clima, a quella violenza.

Ma insieme a quelli che non raccontavano c’era chi amava parlarne, che raccontava magari con piglio guerriero quanti ne aveva sterminati fisicamente e come. Dico questo per arrivare ad una conclusione evidente. Anche i partigiani, come tutti, hanno sensibilità diverse, umanità diverse. Esse sono racchiuse in una storia collettiva naturalmente. Ma in questa storia collettiva possiamo trovare molti momenti, molte indicazioni di una distanza dalla violenza, di un pensiero che la respingeva, di un sentimento di pudore rispetto a gesti eroici, di un tentativo di costruire altro da quello che si era costretti a compiere. Mi colpiva il fatto che Vigorelli, diventato ministro di Giustizia, poche settimane dopo che i fascisti gli avevano ucciso il figlio, si era battuto sistematicamente perché non ci fosse alcuna condanna a morte. Noi, noi allora giovani, eravamo affascinati da entrambi gli atteggiamenti, da quelli guerreschi, eroici, di chi raccontava ancora con orgoglio quelle gesta e da quelli più silenziosi esplicitamente o implicitamente più critici non nei confronti di quei gesti, ma di quella violenza che continuava a vivere in una cornice guerresca. Ma in realtà sul lato non militare di quella Resistenza non si è indagato abbastanza. Abbiamo preferito fare un’operazione di “angelizazzione” della nostra parte. Sfidati dalla brutalità del fascismo e dalla sua violenza, abbiamo preferito pensare che un’alternativa umana ad esso fosse già compiuta dopo esserci liberati da quel terribile evento. Questa retorica e questa angelizzazione  non ci hanno aiutato ad indagare nella nostra storia per ricavarne risultati per il futuro. Hanno invece fatto sì che da un lato disperdessimo le lezioni più straordinarie che dentro quel percorso potavano annunciare il futuro, e, dall’altro, che negassimo le violenze della nostra storia e della nostra parte.

Le Foibe

Parliamo delle Foibe, dell’oggetto di questo convegno. Noi oggi facciamo una cosa impegnativa. Mettiamo insieme conoscenze diverse, storie diverse e naturalmente non ci possiamo sottrarre ad un’analisi del caso. Sapendo bene che dai conti con questa storia deriva un risultato politico, una conseguenza per noi, per quello che vogliamo essere.

Partiamo dal fatto. Mi pare che su di esso non esistano grandi differenze. Le Foibe sono state un fenomeno drammatico che ha investito la Venezia Giulia nella transizione tra guerra e dopo guerra e che ha una specificità insieme politica e etnica. In esse si accumula un groviglio, un concentrato di violenza che parla un linguaggio più generale. Mi pare che non ci siano dubbi sul carattere paradigmatico di quella tragedia e di quella violenza.

Quando parliamo delle Foibe i numeri non servono a nulla. I numeri sono muti, non servono a capire fino in fondo la natura del fenomeno. Perché da tanti anni proprio sui numeri c’è una violenta diatriba? E’ evidente. Se si fa una manipolazione verso l’alto e si parla di 350.000 vittime delle Foibe si accredita la tesi che si è di fronte ad un genocidio nazionale. Al contrario la manipolazione verso il basso tende a confinare l’idea che in quelle fosse c’erano solo fascisti colpevoli che con metodi, sia pure discutibili, hanno avuto la loro punizione storica. Io penso che, in una ricostruzione storica avvertita, si configuri un fenomeno che non è riportabile né al genocidio né alla giusta punizione di qualche rigurgito fascista. Noi siamo stati di fronte ad un fenomeno di violenza concentrata che colpisce soprattutto le aree di Trieste e di Gorizia nel ’43 e nel ’45, e che in entrambi i casi si manifesta nel crollo di una struttura di potere, di oppressione nel tentativo di sostituire a questo sistema oppressivo che crolla un nuovo ordine. Il trapasso cruento di potere tra regimi contrapposti dà luogo ad una violenza che va indagata per quello che è e che, secondo me, è il frutto di alcune componenti.

La prima su cui insistono molto le tesi giustificazioniste parla di una sorta di furore popolare, una specie di riscatto da una lunga storia di violenze, un’imitazione delle violenze subite.

Non è la prima volta che questo accade nella storia. Vorrei ricordare che nella prefazione ad uno dei più straordinari libri scritti contro il colonialismo di Franz Fanon I dannati della terra, uno dei più grandi intellettuali europei, secondo me del dopo guerra, Jean Paul Sartre avanza una tesi di cui io, all’epoca, ho sentito tutto il grande fascino e che oggi vivo come aberrante. La tesi in altre parole secondo cui il colono non può esistere, non può ricostruire la sua identità se non con la uccisione del colonizzatore. E si parla proprio di uccisione, dell’omicidio per costruire su quello l’esistenza dell’oppresso. Nel caso delle Foibe siamo vicini a questa tesi. Chi ha subito l’onta, l’onta di quella distruzione, la rovescia contro l’avversario storico. Ma, francamente, accanto a questo furore popolare non riesco a non vedere anche una volontà politica organizzata, legata ad una storica idea di conquista del potere, di costruzione dello Stato attraverso l’annientamento dei nemici. Non si tratta di un’’idea perseguita in parti isolate del mondo. Faccio notare che gran parte della storia delle costruzioni statuali del movimento operaio nel ‘900 è passata attraverso l’idea della distruzione fisica del nemico.

Se questa interpretazione ha un qualche fondamento io penso che noi dobbiamo avere il coraggio non solo, come stiamo facendo, di dire la verità, ma – e su questo punto insisto – di non trovare alcun elemento di giustificazione nell’orrore che gli oppressori avevano realizzato precedentemente per giustificare l’orrore che vi fu dopo.

Lo dico e lo chiedo non in nome di una tensione verso la verità, ma in nome di qualcosa di ugualmente se non più importante: una diversa idea della politica e della lotta di liberazione.

Due orrori: guerra e terrorismo

Questo nostro incontro è intitolato:”La guerra è orrore”. Vorrei che ci pensassimo. L’orrore per la guerra contiene un elemento importantissimo per la riforma della nostra cultura politica, perché ci aiuta a capire il passato e il presente. Io non credo, e sono in disaccordo con chi tra noi invece lo pensa, che si possa pensare che il terrorismo è giustificato dalla guerra.

Io non penso che in un momento che si tenta di governare attraverso la guerra preventiva, e indefinita, il terrorismo acquisti una sua legittimità. Sono totalmente avverso a questa idea. Il terrorismo è espressione di una strategia che si contrappone, in questo caso, alla guerra o a chi occupa un paese in nome della guerra, attraversale manifestazioni di ciò che viene definito terrore. Organizza il conflitto e la distruzione su obiettivi sociali e civili del paese. Questo è il terrorismo. Una soggettività politica precisa, non una derivazione, non la conseguenza spontanea e pulita alla guerra. C’è chi fa la guerra e dall’altra parte si costituisce una potenza simmetrica con un progetto politico proprio che possiamo leggere anche su internet. Questo progetto politico recluta delle forze, organizza delle resistenze, stabilisce una strategia di lotta e la attua.

Entrambi questi soggetti politici, il governo imperiale e il governo terrorista, non sono, secondo me, solo repellenti perché uccidono, producono morte e distruzione, sono repellenti perché disegnano e prefigurano una società nella quale noi non vorremmo vivere. Questo è il punto.

Oggi i mezzi sono inscindibili dai fini, sono due facce della stessa medaglia. Chi ragiona così non è un patriota. Ebbene non me ne importa niente. Non è, non sono un patriota. Voglio cambiare il mondo, che è altra cosa della guerra, ma anche dal terrorismo. E non ho nulla da spartire con entrambi perché penso che non ne condivido né il metodo né il fine, anzi, addirittura penso che il terrorismo e la guerra comandano un processo con il quale si tende ad escludere le masse dalla politica. Essi chiedono la cancellazione della politica come progetto, come soggettività organizzata, come partecipazione delle classi, delle masse, dei popoli, delle persone. Non voglio avere nulla a che fare con entrambi perché gli uni, dentro la Casa Bianca, e gli altri, dentro non so quale luogo, pretendono di decidere le sorti dell’umanità e dei popoli dal loro luogo di comando. Non è vero che il terrorismo parla in nome dei popoli oppressi. Mai è esistito un luogo della strategia così separato dai paesi, dai popoli e dalle masse come questo. Esso è un avversario storico non solo nostro, ma dell’umanità. La guerra e il terrorismo, sono due soggetti politici, non è vero che il secondo è un derivato della prima. Come si contrastano? Con la pace. Con un popolo della pace.

Allora, se è così, e per me è così, non posso non riesaminare anche la mia storia, la mia grande ma terribile storia. Bertold Brecht dice tante cose, ma mi soffermo su due. Dice:”Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. E poi:”Noi che abbiamo voluto il mondo della gentilezza non abbiamo potuto essere gentili”. Quindi abbiamo preferito essere eroi. Capisco entrambi le frasi di Brecht ma quale noi dobbiamo privilegiare oggi, qui e ora? “Non abbiamo potuto essere gentili” o “beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”? Io penso che per ragioni che riguardano la città futura, noi non possiamo che scegliere la seconda: ”Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi” e comportarci di conseguenza.

'900 dove abbiamo sbagliato

Ma allora in quel ‘900 nella nostra storia c'era anche qualcosa che non funzionava? Siamo così sicuri che era proprio necessario massacrarli quelli di Kronstad? Siamo così sicuri che per salvare il nuovo stato post rivoluzionario andavano massacrati? E siamo così sicuri che per difendere la rivoluzione bisognava costruire degli stati autoritari? Siamo sicuri che lo stalinismo fosse proprio la risposta necessaria a quella fase? E che il mantenimento delle tracce dello stalinismo che si sono da lì irradiate non siano state un elemento, invece, di corrompimento drammatico dell'alternativa possibile e necessaria del comunismo al capitalismo? E siamo così convinti che i gulag o non esistevano oppure erano solo un modo per tenere a freno gli egoismi di popolazioni che non capivano il comunismo? Oppure invece era una modalità attraverso la quale una idea nata per liberare si rovesciava nel suo contrario in un regime oppressivo?

Quando parliamo di gulag parliamo di 20 milioni di persone sterminate, di cui la metà comunisti. Vorrei che qualche brivido ci attraversasse. Ma al di là dei numeri terribili quello che è successo, quello sterminio significa che qualche cosa non ha funzionato, o no? Oppure si è trattato di una perversione orientale, cadendo la quale tutto può tornare al posto giusto? O non dobbiamo pensare invece che c'è un rapporto tra Kronstadt, il gulag e qualche cosa che ha a che fare anche con le nostre storie e magari con le Foibe? Non parlo di un rapporto meccanico, ma di una cultura che consentiva l'idea di un esercizio del potere e una idea dell'avversario come nemico da fronteggiare, appunto, in termini prevalentemente militari.

So che alcuni fanno una similitudine fra i campi di sterminio e i gulag, fra nazismo e comunismo. Non funziona. Il nazismo è un sistema costruito per l'oppressione, che nasce e vive sull'oppressione e si esaurisce nell'oppressione di classe, di Stato, di etnia, sistematicamente e organicamente. Auschwitz è il suo paradigma. Il gulag non è il paradigma del comunismo, il gulag è la manifestazione estrema di una contraddizione che il comunismo si è portata nella pancia e che è determinata da una idea del potere e da una idea della violenza. Su questa idea del potere e su questa idea della violenza noi dobbiamo fare una revisione coraggiosa.

E' questo, io credo, il passaggio che noi siamo chiamati a fare, non per essere meno comunisti, ma semplicemente per cercare di essere comunisti.

Rifiutiamo la barbarie del nemico

Ora se guardiamo a ciò di cui stiamo discutendo possiamo affermare due cose. La prima riguarda il condizionamento esterno del nostro avversario, quanto la natura del nostro avversario incide su di noi. Tema oggi attualissimo. A me ha fatto molta impressione l'articolo di un dirigente palestinese che stimo molto, Ali Rashid, che in un momento particolarmente drammatico in cui Hamas aveva compiuto uno dei molti attentati terroristici ha scritto un articolo dolente, molto sofferto, in cui diceva: "Questo mio popolo è proprio spogliato di tutto. Non può muoversi, non può lavorare, non può costruire.

Dipende dallo Stato israeliano, se gli viene aperto il passaggio, se gli viene aperta l'acqua, se gli viene aperto il lavoro. Ma adesso c'è una cosa ancora più terribile. La barbarie dell'oppressione dei coloni, dell'esercito israeliano, ha imbarbarito anche una parte della mia reazione, della reazione della mia gente. Quella tensione barbarica entra anche in qualche misura dentro di me". Questo punto di osservazione non è un atto di nobiltà. E' una lucida analisi politica. Senza estirpare da noi questo elemento di penetrazione dell'avversario, del suo linguaggio, della sua logica, della sua cultura non vinciamo e rischiamo di assomigliargli troppo. Troppo. E in questo caso, qualora anche vincessimo saremmo in realtà in larga misura figli di quella storia che è il contrario di una storia di liberazione e di emancipazione.E poi c'è un elemento che riguarda noi, che riguarda la nostra storia, l'idea cioè che le Foibe ci possono capitare addosso non solo per imbarbarimento indotto dall'avversario, ma perché nessuna cultura forte è immune dalla propensione fondamentalista. Tanto più pensiamo di avere un'idea del mondo, tanto più è radicata l'idea di alternativa, di diversità, di un altro mondo possibile, tanto più è alto il rischio che si possa accedere alla scorciatoia fondamentalistica di imporre con ogni mezzo questo esito.

E' in questo modo che chi pensa di dover esportare una civiltà fa la guerra.

Vorrei poter dire anche ai compagni più avversi a questa linea di ricerca, che come vedete non è vero che noi vogliamo disfarci del passato, ma vogliamo scegliere un lato del nostro passato contro un altro ed esaltarlo al punto da farlo diventare una pratica sociale, politica e culturale. Nessuno di noi propone di ricominciare da capo. Noi proponiamo, sulla base dell'analisi secondo cui il capitalismo oggi porta la guerra come il temporale porta la pioggia, di sottrarci non solo alla guerra, ma alla cultura della guerra, alla cultura del potere che è connessa a quella della guerra. E' un potere gerarchizzato, onnipotente quello a cui viene delegata la sorte della partita. Noi pensiamo che la partita la debbano giocare le moltitudini, le masse e le classi, non lo stato maggiore. Questo è il punto chiave. Se c'è uno stato maggiore c'è un regime possibile di guerra. Allora, quelle che appaiono culture deboli e soggetti deboli, noi dovremo saperlo per nostra storia, sono i portatori del futuro. Perché la classe operaia è il soggetto del cambiamento se non perché esprime la realtà dello sfruttamento e dell'alienazione? E non riposa su di essa la possibilità, attraverso la rivolta e la rivoluzione, della liberazione? Ma se è così non c'è già, nell'antropologia marxiana, il rovesciamento del forte con il debole, perciò noi siamo forti se siamo deboli, noi siamo egemonici se siamo in grado di valorizzare le diversità? Ma perché la periferia diventi il centro bisogna che la radicalità sia iscritta in una pratica di non violenza. Il massimo di radicalità oggi si può esprimere solo con la non violenza, altrimenti retrocede immediatamente a braccio armato e si inserisce nella dialettica guerra-terrorismo. Diventa la fine della politica. Se oggi facessimo quella scelta, se fosse in qualche modo compresa nelle nostre possibilità, sarebbe la devastazione nostra, del campo e della politica.

Ieri era una tragedia e per questo possiamo ragionarci al fine di poterla estirpare dalla nostra storia valorizzando invece gli altri elementi che sono descritti nella storia partigiana, della Resistenza, della costruzione delle comunità e poi, via via, della grande ascesa delle lotte di massa, della nascita del femminismo.

Se oggi dovessimo accettare la violenza essa ammazzerebbe soprattutto noi. Per questo, io credo, noi dobbiamo liberarcene facendo i conti interamente con la nostra storia.

NOTE


[1] “Liberazione” 4 gennaio 2004.